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- Un’ organizzazione non governativa di Delhi propone un giro turistico alternativo della città, guidato dagli ex bambini di strada.
- Il numero dei bambini che vivono tra i marciapiedi delle grandi città indiane è ancora sconosciuto. Una stima si aggira intorno agli 11 milioni.
- Per i bambini i rischi della vita in strada sono altissimi: malattie, sfruttamento, abusi sessuali e uso di droghe.
In India li vedi sbucare all’improvviso, soprattutto nelle grandi città, con le mani sporche che chiedono soldi in modo insistente. Li incroci per pochi attimi, ma i loro occhi ti agganciano e mentre si allontanano ti chiedi come riescano a stare al mondo.
“Immagina. Sei un bambino e per una serie di ragioni finisci a vivere per strada. Non puoi tornare a casa e non hai nulla oltre te stesso. Qual è la prima cosa che fai in questa situazione? Io ho pianto per tre mesi di fila. Avevo dodici anni”.
Oggi Ajay di anni ne ha 23 anni ed è uno degli ex bambini di strada diventati guide turistiche nella città di Delhi per la Salaam Baalak Trust, un’organizzazione non governativa nata nella capitale indiana, che segue circa 11mila bambini ogni anno, nei centri di accoglienza, nei centri diurni e attraverso attività di monitoraggio e supporto nelle aree più difficili.
Il tour per conoscere la vita nascosta dei bambini di strada con i racconti di chi l’ha vissuta
Per la Salaam Baalak Trust, raccontare le ombre di Paharganj, il quartiere con una forte presenza di bambini di strada vicino alla stazione dei treni di Nuova Delhi, è uno degli obiettivi del progetto “City walk”. Abbiamo vissuto questa esperienza di turismo alternativo e ascoltato storie atroci, ma con un lieto fine. Vite di giovanissimi che si sono affrancati dalla miseria più nera e che ora stanno costruendo con determinazione il proprio futuro, aiutando chi ancora si trova incastrato e bambino in mezzo a quei polverosi marciapiedi.
Quanti sono i bambini di strada in India?
Le Nazioni Unite in un report del 2012 hanno dichiarato che non esistono dati ufficiali sul numero di bambini di strada nel mondo.
In India, il censimento “Life on the street” pubblicato nel 2016 da Save the Children, cita fonti Unicef e stima in 11 milioni il numero di bambini di strada presenti sul territorio nazionale, precisando che si tratta di un cifra approssimativa e non basata su statistiche effettive. La mancanza di dati ufficiali ha molteplici ragioni: dai metodi di censimento che spesso vengono legati alla residenza, e quindi alla disponibilità di una fissa dimora, alla mancanza di documenti d’identità, alla difficoltà di entrare in relazione con questi minori perché invisibili o sfuggenti.
Per Unicef i bambini che, generalizzando, vengono definiti “di strada” appartengono a tre tipologie diverse:
- i figli di famiglie che dormono in ripari di fortuna, come tende e cartoni;
- i bambini che hanno un luogo che possono chiamare casa, ma vivono quotidianamente tra i vicoli della città per guadagnare soldi;
- i minori non accompagnati.
A colmare l’assenza di dati da parte degli uffici governativi sono per lo più da organizzazioni non governative impegnate su questo fronte. Ma i numeri variano nettamente a seconda delle fonti. Dati dal divario enorme, che evidenziano un problema evidentemente fuori controllo. C’è un numero sconosciuto di bambini che in India, come in altri paesi del mondo, vive nell’ombra. Nessuna convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia li ha mai nemmeno sfiorati.
I bambini che preferiscono il buio
Fissiamo con la Saaalam Baalak Trust il giro turistico del quartiere di Delhi di venerdì. Il caldo e l’umidità tolgono il respiro, ma Ajay, la nostra guida, magra e slanciata, ci accoglie con un sorriso aperto che rinfresca. Con lui c’è la giovanissima Sita, timida e gentile, che sta finendo la formazione per diventare guida turistica a tutti gli effetti. Il tour inizia con il suo racconto. Ajay ha lasciato la sua casa a Lumbini, il luogo dov’è nato il Buddha Shakyamuni, in Nepal, all’età di 12 anni. Suo papà voleva costringerlo a lavorare in campagna, mentre lui era deciso a proseguire gli studi.
“Dopo una lite furibonda mio padre mi ha ordinato di andarmene di casa e pochi giorni dopo l’ho fatto. Mia sorella mi rimprovera ancora perché quando sono scappato ho rubato le sue ciabatte”. Ora Ajay su quel ricordo sorride. Lui si è salvato grazie all’intervento delle associazioni locali e da anni insegue la passione per la danza e il teatro, lavorando come guida e volontario per la Salaam Balaak Trust. “Oggi è un giorno particolare. Quando vivevo per strada, tutti i venerdì trascorrevo l’intera giornata al cinema. Con un biglietto vedevo tutte le proiezioni. Scappavo dall’afa, avevo un bagno a disposizione e il buio era la mia dimensione. La maggior parte dei bambini di strada preferisce vivere nell’oscurità. Vogliono passare inosservati, nascondersi ed essere lasciati in pace. La luce illumina i loro vestiti luridi, il corpo sporco di cui non sanno prendersi cura e tutta la loro vulnerabilità”.
Come sopravvive un bambino per strada?
“Per la maggiora parte dei bambini che vivono in strada nelle grandi città dell’India, procurarsi il cibo non è il problema principale”. Spiega Ajay. “I quartiere sono pieni di piccole botteghe e chioschi e spesso i bambini lavorano per loro. Fanno consegne, pulizie, lavano le auto, puliscono le scarpe e altri servizi. In cambio ottengono un posto per dormire e forse qualche spicciolo. Oppure vagano per la stazione in cerca di bottiglie di plastica da riciclare che vendono per circa 20 rupie al chilogrammo (circa 22 centesimi di euro). A Paharganj c’è un vicolo dove tutti i bambini si ritrovano sempre la sera che è il centro di raccolta di plastica e carta”. In alternativa, o in aggiunta, si sopravvive con l’elemosina, il furto e l’affiliazione a qualche gruppo mafioso in cerca di protezione.
“La prima cosa che capisci, infatti, è che sulla strada non puoi sopravvivere da solo, devi trovarti un gruppo – prosegue Ajay –. I pericoli vanno dallo sfruttamento, le malattie, agli abusi sessuali, al traffico di minori, fino alle violenze gratuite di chi semplicemente non vuole vederti tra i piedi. I soldi che si guadagnano devono essere spesi ogni giorno. Sai di non avere alcun posto sicuro dove tenerli e che mentre dormi possono rubarti tutto. A volte io li nascondevo sotto ad un ponte. Dietro ad un mattone che ero riuscito a togliere. Ma la regola è spenderli. Avevo una passione sfrenata per i jalebi, che sono dei dolci molto diffusi in India, ma mi compravo anche la droga. Ho iniziato perché mi avevano garantito che non avrei più provato fame, dolore o tristezza”.
La droga è dei piccoli
Da un censimento fatto nel 2016 dal ministero per le Donne e lo sviluppo dei bambini e dall’Istituto nazionale di scienze mediche di Delhi Aiims, solo nella capitale, sono 70mila i minori dipendenti da sostanze psicoattive e droghe. Mediamente, l’età in cui si inizia è nove anni.
L’esito di una ricerca a campione svolta nel 2019 su 766 bambini di strada sempre nella città di Delhi, ha stabilito che un terzo di questi, per la maggio parte maschi, è risultato fare uso di sostanze, prima fra tutte il tabacco, seguito da alcool, inalanti come i solventi e le colle, ma anche cannabis, eroina e oppio.
“A New Seelampur, il quartiere a nord est di Delhi dove sono cresciuto, la droga e l’alcool sono ovunque”. A parlare è Jafar, 22 anni, che sta facendo il tirocinio per diventare guida turistica. Lo incontriamo durante la passeggiata per il quartiere. Ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza per strada, tornando però a casa con regolarità, nonostante le continue violenze. “Mio padre ha iniziato a bere dopo aver perso una mano in un incidente, nessuno voleva più farlo lavorare. Spesso alzava le mani. Una volta sono stato ricoverato in ospedale per una settimana e per poco non ho perso la vista.
La tossicodipendenza era la normalità, ma vedere il mio più caro amico morire per overdose mi ha cambiato la vita, aveva 17 anni. In quel momento ho capito che non potevo fare lo stesso errore, così mi sono avvicinato ai volontari dell’associazione che ogni giorno venivano con un furgone nel mio quartiere per fare scuola ai bambini e oggi sto per terminare i miei studi in economia. Sento la responsabilità di essere un esempio positivo per i ragazzi del mio quartiere, devono capire che un’alternativa esiste”.
Perché molti bambini di strada rifiutano il centro di accoglienza
“Capita spesso che i ragazzini si rifiutino di lasciare la strada per andare a vivere nei centri di accoglienza – spiega Ajay –. Le ragioni sono diverse: prima di tutto non possono lavorare e quindi si ritrovano senza i soldi in tasca a cui erano abituati. Sono poi obbligati ad andare a scuola e ci sono regole stringenti da seguire. In generale poi, fidarsi degli adulti è un tema difficile per chi ha subito solo delusioni e violenze. Io stesso sono scappato più volte da queste strutture, perché volevo indietro la mia libertà, fino a quando ho capito che era l’unico modo per salvarmi davvero. Quando ci avviciniamo a questi minori, dobbiamo stare attenti a non forzare le loro decisioni, il rischio è che si allontanino del tutto da noi. L’alternativa sono i centri diurni, dove i bambini arrivano per ripararsi dalla calura, stare comodi e al sicuro per qualche ora, assicurandosi del cibo.
Perdersi nella stazione di Nuova Delhi
Il “City walk” ci porta alla stazione di Nuova Delhi. La destinazione scelta da Ajay, quando solo e a dodici anni, ha lasciato la sua casa in Nepal. “Nelle zone rurali dell’India si coltiva il sogno di andare a vivere nelle città per trovare impiego”, commenta Ajay.” La realtà è che ti ritrovi in trappola. In questa stazione arrivano 400 treni al giorno con circa mezzo milione di persone. Sul treno che mi ha portato a Delhi avevo conosciuto una donna che speravo potesse aiutarmi, ma l’ho persa di vista in mezzo alla ressa di persone ed è in quel momento che ho iniziato a piangere”.
La zona intorno alla stazione è il cuore pulsante della capitale, ma anche della malavita. ” Ci sono 16 binari e fino a qualche anno fa, ogni binario era controllato da un clan mafioso”, spiega ancora Ajay. “Oggi il presidio della polizia è più massiccio e la situazione è migliorata. Accanto alla stazione c’è il quartiere a luci rosse dove spesso veniamo chiamati per recuperare bambini in condizioni terribili. Ho vissuto sulla mia pelle tutte le brutture della capitale, ma le devo molto. Grazie alle persone che mi hanno aiutato, negli anni ho imparato anche ad apprezzarne la bellezza, la cultura, l’arte e i valori”.
Il bambino che sbagliò il vagone
Visitiamo il centro diurno accanto alla stazione dei treni di nuova Delhi e conosciamo un piccolo gruppo di ragazzine concentrate nelle prove del loro saggio di danza. Insieme a loro, una decina di bambini sono seduti sulle stuoie intenti a fare merenda e a guardare uno degli scintillanti film di Bollywood. È qui che incontriamo Junaid.
Junaid ha 25 anni, anche se dice di non saperlo con precisione. Lavora anche lui come guida per la Salaam Baalak Trust, ma grazie alle sue doti è riuscito ad allagare il giro e ora accompagna turisti per tutta l’India con le agenzie di viaggio.
Ha uno sguardo diretto e il suo racconto è senza esitazioni. “A otto anni sono scappato dal Bihar, che è una delle regioni più povere dell’India. Ho perso mio padre e mia sorella per la tubercolosi e mia madre era caduta in depressione. Dovevo essere io a portare i soldi a casa, ma l’unica opportunità nel mio villaggio era lavorare nell’agricoltura. Raccoglievo riso per 25 rupie al giorno (meno di 30 centesimi di euro, n.d.r.), ma non bastavano a nulla. Sono arrivato a Delhi come tutti gli altri, per inseguire il sogno della città, ma a nove anni ero già dipendente dalla “black tar”, un tipo di eroina che si sniffa”.
“Per sopravvivere per strada ed essere accettato da un gruppo devi dimostrare di essere forte. Batterti nelle risse e vincere è un buon biglietto da visita che può farti guadagnare protezione” Prosegue Junaib. “Un giorno, per cercare cibo, bottiglie e soldi, sono salito sul vagone sbagliato del treno, un vagone controllato da un altro gruppo mafioso. Mi hanno assalito e mi sono trovato un coltello ficcato in pancia.
Non potevo andare in ospedale per timore di essere preso dalla polizia. Hanno chiamato un volontario che mi conosceva e da lì è iniziata la mia rinascita. Mi sono disintossicato dalla droga in un centro specializzato per sei mesi e poi ho iniziato il mio percorso di studi. Ora convinco i ragazzi in difficoltà a farsi aiutare, a recuperare un minimo di fiducia nel prossimo. Mi ascoltano perché sanno che li capisco. Abbiamo attraversato lo stesso inferno, da cui però è possibile uscire.
Il coraggio di Kajal: da una vita di menzogne al sogno di volare
Passando per il vicolo del riciclo di Paharganj dove vengono ammucchiate le bottiglie di plastica, la carta e cartoni raccolti dai bambini per racimolare qualche rupia, arriviamo nella sede dell’associazione. Su una parete è appesa una fotografia: si vedono i principi del Galles, Kate e William, seduti e sorridenti nello stesso ufficio in cui ci troviamo.
È qui che ci accoglie Kajal, 19 anni e un inglese fluente. È cresciuta nei centri di accoglienza, da quando, a sei anni la madre la lasciò a casa da sola ad occuparsi del fratellino di tre. “Mi disse che doveva andare con nostro padre a trovare dei parenti per una settimana”, racconta Kajal. “La verità è che andarono in ospedale a curarsi per L’Hiv e mia madre riapparve solo due mesi dopo.
“All’inizio è stato molto difficile, non capivo perché i miei genitori mi avessero abbandonata. Poi però ho iniziato a frequentare la scuola, a seguire le attività extrascolastiche e a fare sport. Avevo ottimi risultati e la mia vita mi piaceva. Due anni fa, alla morte di mio padre, sono caduta in depressione, ma con l’aiuto degli psicologi mi sono rimessa nuovamente in piedi. Ora sto aspettando il passaporto e devo sostenere l’ultimo colloquio per diventare assistente di volo per l’Air India. Nel frattempo, il lavoro di guida turistica mi obbliga a restare in contatto con le persone, a non chiudermi e a ricordare tutte le difficoltà che ho saputo superare. So di essere un modello di speranza per molte ragazze e non posso permettermi di mollare.
Posso dire di avere perdonato mia madre, ha fatto il meglio che ha potuto”.
La visita alternativa di Paharganj si chiude in uno dei tanti chioschi lungo i vicoli dove si cucina, si frigge e si mangia di tutto, immersi nell’odore pungente delle spezie. Ci sediamo ad assaggiare i jalebi, il dolce burroso che ha accompagnato l’adolescenza di Ajay e per il quale ha speso per anni una buona parte dei soldi guadagnati in mezzo al pericolo.
Il tour è terminato. Guardiamo i bambini che ci corrono accanto scalzi sull’asfalto rovente. Immaginiamo di conoscere un po’ di più le loro vite. Non ci fa stare meglio, ma ne usciamo con un carico di umanità, come accade tutte le volte che scegliamo di restare e di capire, invece di girarci dall’altra parte.
“Secondo voi qual è la cosa che piace di più ai bambini che vivono per strada?”, ci chiede Ajay prima di salutarci. La risposta arriva immediata da un ragazzino italiano di dodici anni: “Giocare. I bambini vogliono giocare“.