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Gigantesche foglie di palma giacciono flosce nei giardini curati. Petali colorati sono sparsi sulle strade e sui tetti delle case. La spiaggia non c’è più, in compenso la sabbia è entrata nelle stanze e nei cortili, mista ad alghe e immondizie. La Martinica, l’isola dei fiori, è coperta di fango. Ed è stata una delle più fortunate: l’uragano Beryl l’ha appena sfiorata. Il mostro, dichiarato di categoria 4 quando ha toccato terra lunedì 1 luglio 2024. Divenuto poi di categoria 5, la più pericolosa, ha praticamente raso al suolo le isole di Grenada e Carriacou. Quest’ultima secondo l’Nhc, il Centro di osservazione degli uragani statunitense, si è trovata proprio nell’occhio del ciclone e in poco più di mezz’ora assieme alla vicina Petite Martinique i suoi edifici sono stati scoperchiati, strade e piazze allagate, i litorali masticati e risputati fuori dall’oceano in brandelli di barche, auto, mattoni, mobili e tronchi di alberi.
Secondo quanto dichiarato dal primo ministro di Saint Vincent Ralph Gonsalves, nella sua isola centinaia di edifici pubblici e privati sono gravemente danneggiati e ben il 90 per cento delle abitazioni della piccola Union Island è stato distrutto. Anche le Grenadines, Santa Lucia, le Barbados e la Martinica, pur non essendo state colpite con la stessa intensità, hanno subito ingenti danni sia sulla terra ferma che in mare. Numerosi pescherecci e navi da pesca sono affondati, alle Barbados il 20 per cento di quelle della nazione, afferma la prima ministra Mia Mottley, mettendo a repentaglio un pilastro fondamentale dell’economia di queste isole. Myriane Maceno-Panevel, direttrice delle politiche del mare di Espace Sud, l’ente pubblico di cooperazione intercomunale della Martinica, racconta con rammarico di come moltissimi pescatori dell’isola abbiano perso le loro imbarcazioni e nella maggior parte dei casi anche tutta l’attrezzatura da pesca, che si trovava a bordo o in magazzini lungo la costa: “È la loro vita, la barca è il mezzo con cui lavorano e si guadagnano il pane”. E così è per i bar, i ristoranti e i negozi che i locali avevano lungo la costa caraibica, che non hanno resistito alla violenza delle onde.
“Uragani qui capitano spesso, ma non si era mai vista una cosa del genere. Io vivo qui da 65 anni e no, mai. Mai così tanti danni” mi grida un signore. Tutti annuiscono, nessuno toglie le mani dalla pala. Sainte-Luce è uno dei paesi più colpiti dell’isola, assieme a Le Diamant e Sainte-Anne. Lo spettacolo che si presenta non appena si supera l’ultima curva prima del centro abitato è doloroso.
Una famiglia sta spalando, in piedi sopra montagne di terra e alghe che raggiungono le finestre dell’edificio. Un’auto è completamente insabbiata poco distante, l’ultima delle priorità, quando hai una casa in cui vorresti rientrare il prima possibile. Di mobili quel che è rimasto è ammassato dall’altro lato dell’isolato, verso monte, dentro i cassonetti per quel che ci sta e tutto il resto lì a fianco, in grossi cumuli di macerie.
“Cosa vuoi sapere?” Mi grida un ragazzo quando gli chiedo di raccontarmi cos’ha visto “c’erano onde alte metri, più dei tetti, e infatti ci sono andate sopra ai tetti, e noi non potevamo farci niente”.
“Anche le barche: eravamo lì, impotenti, a guardare la nostra vita sparire”.
“E siamo stati fortunati, perché siamo tutti vivi. Siamo stati fortunati” dice una signora, mentre scava un canale di scolo fra le montagne di sabbia, nel tentativo di far defluire l’acqua dalla casa.
Il ragazzo, Jordan, ha 28 anni e anche lui sostiene di non aver mai visto nulla di simile in tutta la vita. Mi mostra l’edificio che stanno cercando di liberare: “Qui è dove abbiamo cominciato, la sabbia arrivava lì” dice indicando l’altezza della finestra “e io scavavo dal balcone”. Un giorno di lavoro per tutta la famiglia, compresi amici e parenti, e finalmente la prima stanza è completamente vuota: pareti, soffitto, “un miracolo che sia rimasto su!” mi dicono, e un leggero strato di sabbia umida a ricoprire il pavimento. “Peccato che manchino ancora tutte le altre” sospira Jordan appoggiandosi alla pala.
Una bambina riposa un attimo su una montagna di sabbia, chi porta un po’ d’acqua, chi accende della musica allegra, il sudore cola sui volti e sulle schiene e si va avanti. “Ricominceremo” dice Jordan “cos’altro vuoi fare? Ma non tutti possono permetterselo. Di ricominciare intendo. E poi dicono che ricapiterà ancora e più spesso…e allora come si farà? Non ci voglio neanche pensare”.
Sono una delle decine di famiglie che si adoperano lungo la costa dell’isola per salvare quel che resta di case, magazzini, ristoranti e negozi. Chi grida disperato, chi parla, chi brinda all’arrivo di una ruspa, chi piange, chi festeggia per esser riuscito a finire un pezzettino del lavoro. “Onde alte così..”, “no, mai vista una cosa del genere”, “ci sono sì, gli uragani, non ne erano capitati così”, “aiuti? Figuriamoci, aiutati che il ciel ti aiuta”, “ed è solo l’inizio”, “il mare arrivava là, vedi, oltre il tetto”, “no, i nostri anziani dicono che non è mai successo così”, “la barca è rotta, non ha senso scavare lì adesso”, “mai in tutta la vita” “magari se ributtiamo in mare tutta questa sabbia riusciamo pure a rifare la spiaggia…”.
La rabbia, l’angoscia e la determinazione si mescolano in quello spirito di comunità che acqua, pale e fango sanno creare. Ognuno affronta i suoi problemi, ma tutti ribadiscono che un uragano così no, non s’era mai visto in Martinica. E anche gli esperti concordano con Jordan, Maryane e gli anziani: secondo i dati della Noaa, l’Amministrazione nazionale per l’oceano e l’atmosfera, registrati fin dal 1851, Beryl è l’uragano più intenso che abbia mai colpito queste isole, le Windward, all’estremo est del Mar dei Caraibi.
L’uragano dei record
La categoria 5 è la più pericolosa della scala, per la quale sono previsti ‘danni catastrofici’ a persone, cose e territori. Beryl, l’uragano dei record, è pure il primo di questa intensità a manifestarsi nell’Atlantico così presto nella stagione, a causa delle acque eccezionalmente calde dell’oceano, che solitamente non raggiungono temperature simili prima di settembre. L’esperto di uragani Jim Kossin in un’intervista rilasciata alla Cnn spiega che l’impatto della crisi climatica è stato determinante, perché la temperatura dell’acqua era già a giugno alta quanto durante il picco della stagione degli uragani. È stato per questo che Beryl, che come ogni uragano non legge il nostro calendario ma si forma e intensifica in base alle condizioni ambientali in cui si trova, “ha scambiato giugno per settembre” ed è diventato il mostro che è diventato. Jouel Henry, consigliere municipale per la cittadina di Sainte-Luce, ripercorre i danni alle cose e alle persone, tra edifici e infrastrutture danneggiate, problemi di elettricità e di viabilità. Ha i baffi bianchi che risaltano sulla pelle scura e un sorriso luminoso. È consapevole, come quasi tutti i suoi concittadini, delle responsabilità dell’Occidente riguardo quello che sta succedendo qui, dall’altra parte del mondo.
L’Europa deve ricordarsi di noi non solo quando è ora di andare in vacanza. Perché qui rischiamo di veder sparire nazioni intere fra i flutti. Ma noi intanto ci diamo da fare, non stiamo certo ad aspettare. Ricominceremo e vedrai che faremo rifiorire la nostra bella isola. E lo faremo anche per voi, in modo che possiate ritrovarla in tutto il suo splendore.
Mentre Beryl si avvia minaccioso verso la Jamaica e tutti sperano che perda parte della sua violenza prima di arrivarci, in Martinica e nelle isole vicine si lavora di gran lena: secchi, pale, rastrelli, carri e carriole. Nonostante l’afa opprimente, gli scrosci di pioggia e le folate di vento, ultimi strascichi dell’uragano ormai distante, si lavora con lena. Giovani e vecchi, uomini e donne, amici e nemici camminano avanti e indietro, chi scalzo, chi con gli stivali, poco importa, l’importante è camminare, perché è proprio nel fango che si lasciano le impronte più profonde.