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Cosa accomuna Naomi Campbell, la boutique multimarca Luisaviaroma, il presidente di Otb group Renzo Rosso, il direttore de La Stampa Massimo Giannini, l’amministratore delegato del gruppo Bulgari Jean-Christophe Babin e il presidente di Women management Piero Piazzi? Oltre ad essere per la maggior parte soggetti che hanno frequentato il mondo della moda da protagonisti, sono tutti stati individuati da African fashion gate come meritevoli di ricevere il premio “La moda veste la pace”. Nel giorno della Giornata mondiale contro il razzismo, ovvero il 21 marzo, l’associazione African fashion gate vuole, attraverso la presidentessa onoraria Makaziwe Mandela (figlia del premio Nobel per la Pace e presidente del Sudafrica Nelson Mandela) e il fondatore Nicola Paparusso, sancire gli enormi passi avanti fatti fin qui dal sistema moda e, al contempo, lanciare un appello alle istituzioni.
Sui social italiani 1 commento su 10 è offensivo, discriminatorio e/o afferente alla categoria hate speech, quando sui social si parla di riforma della cittadinanza, ad esempio, il 6,5 per cento dei commenti sono problematici. A dirlo è Amnesty international che a ottobre 2021 ha raccolto, nell’arco di sei settimane, 6 milioni di contenuti tra quelli pubblicati in Italia su Facebook e Twitter monitorando personaggi pubblici, testate giornalistiche, politici e attivisti catalogando un totale di 27mila utenti unici. Tra i bersagli preferiti per l’odio riversato in rete ci sono donne, migranti, rifugiati, persone di etnie non europee. In Italia il razzismo c’è, è inutile negarlo, ci sono alcuni settori però in cui, in maniera più o meno genuina, le cose stanno cambiando.
African fashion gate, 10 anni contro il razzismo
African fashion gate, associazione no-profit che da dieci anni si occupa di sensibilizzare su questo tema, costituisce la memoria storica del percorso che è stato fatto nel mondo della moda. L’ente, che si autodefinisce un laboratorio etico permanente contro i fenomeni di razzismo, xenofobia e antisemitismo nella moda, nelle arti e nello spettacolo persegue i suoi obiettivi attraverso due macro iniziative. Il premio annuale “La moda veste la pace”, conferito a Bruxelles nella sede del Parlamento europeo e a Roma presso la Rappresentanza italiana della Commissione europea; e il Centro alti studi dei diritti fondamentali dell’uomo, che si propone di coadiuvare la Sottocommissione dei diritti umani del Parlamento europeo e l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ad adottare misure o a definire iniziative per combattere il razzismo.
Fondata nel 2014 a Dakar, African fashion gate aveva in origine l’obiettivo di esportare la moda africana in Europa e, viceversa, la moda europea in Africa «Da un intento commerciale di partenza, negli anni, ci si è spostati verso uno più filantropico e di attivismo» spiega il fondatore Nicola Paparusso. «Il mercato africano in Europa non esisteva e viceversa nessuno aveva interesse ad arrivare in Africa, perché paese era un paese povero. Oltre a questo poi ci siamo resi conto che c’erano diversi problemi di razzismo nel mondo della moda. Le passerelle di tutto il mondo in linea di massima erano calcate da modelle bianche, così come i designer neri erano ignorati, fatta eccezione per qualche evento che le camere nazionali della moda dedicavano loro ai margini delle fashion week». È peraltro dello stesso anno l’accesissima polemica lanciata giustamente da Naomi Campbell in un primo momento per la scarsissima presenza di modelle nere in passerella, e poi per l’affaire della copertina di Shape, magazine statunitense dedicato all’universo del fitness dove la pelle della super model era stata visibilmente troppo schiarita con photoshop.
Naomi Campbell, i casting e i brand africani
«In quel contesto ci siamo resi conto di avere compagni di viaggio come Naomi Campbell o Iman Mohamed Abdulmajid e abbiamo capito che, unendo le forze, potevamo fare qualcosa di importante. Loro combattevano la loro lotta contro il razzismo attraverso le interviste e le pagine dei giornali, e noi parallelamente ci muovevamo per arrivare alla creazione di nuove leggi, sollecitare nuove normative contro il razzismo e a tutela dell’inclusione. Ci siamo infatti ben presto resi conto che il razzismo doveva essere combattuto nelle istituzioni e attraverso di loro, altrimenti la nostra sarebbe stata una voce nel deserto, perché nessuno ascoltava questi messaggi all’epoca se non era obbligato a farlo. Per questo abbiamo iniziato a interloquire con il Parlamento europeo, ci siamo dotati di una struttura e abbiamo iniziato a fare interrogazioni parlamentari denunciando le pubblicità razziste e fornendo supporto all’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali attraverso la condivisione di informazioni e dati obiettivi sui fenomeni discriminatori in Europa. Nel 2018 le istituzioni ci hanno riconosciuto di essere l’unica associazione che portava la moda all’interno del Parlamento europeo: volevamo far capire che la moda non significava soltanto fatturato, ma che aveva un valore culturale ed era espressione di un problema sociale di cui discutere».
«La diversità nei casting è stata una battaglia che abbiamo combattuto strenuamente: io stesso accompagnavo le modelle nere dai casting director, non venivano mai scelte. Afg ha però ha sempre avuto anche un altro obiettivo: connettere i brand emergenti con potenziali buyer o finanziatori, oltre che con la stampa e altri operatori del settore, favorendo gli incontri B2B e creando così delle opportunità commerciali concrete. Volevamo che la moda africana raggiungesse l’Italia e l’Europa e, per far questo, per rendere appetibile lo stile africano, abbiamo iniziato a creare dei ponti tra i designer, presentando stilisti italiani e stilisti africani per creare delle collaborazioni, delle contaminazioni culturali. Paul Roger ad esempio, il fondatore di Zenam, è uno stilista camerunense finanziato da investitori italiani che ha partecipato sia a Pitti che alla Fashion Week di Milano».
Oltre a Zenam il panorama dei brand africani attivi in Italia e in Europa oggi è in evidente crescita: negli ultimi tre/quattro anni sono stati fondati brand da persone africane cresciute in Italia, dal 2017 è attiva un’agenzia, Lago 54, nata con l’obiettivo di spingere la moda africana in Italia, mentre nel 2022 Yoox, con il progetto Tales of Africa, ha promosso sul suo e-commerce uno scouting di sei designer africani.
Nel 2018 a Milano è stato fondato Endelea, società benefit le cui creazioni vengono realizzate a mano in Tanzania, Cartiera è un marchio di pelletteria che offre percorsi di formazione e opportunità di inserimento lavorativo a persone in condizione di disagio e rifugiati, Afrika project è un progetto spagnolo che ha come focus l’inclusività dei suoi capi mentre Nyny Ryke è stato fondato in Italia dall’omonima designer, nata in Togo. Anche dal punto di vista del casting la diversità in fatto di etnia e di colore della pelle è abbastanza rappresentata rispetto ad altre istanze e tematiche di inclusione.
Moda vs burocrazia
«Oggi lo scenario è cambiato radicalmente, ma non perché ci sia stato un reale cambiamento culturale: nella moda c’è stato piuttosto un cambiamento di presa di coscienza, si è capito che se non fossero cambiate le cose il sistema moda avrebbe avuto seri danni. Dopo che H&M in una pubblicità utilizzò l’immagine di un bambino nero che indossava una felpa con la scritta “La scimmietta più carina della jungla” molti dei suoi negozi negli States sono stati distrutti da una comunità che era comprensivamente imbufalita. La moda rivolge attenzione dove c’è mercato: perché prima la moda avrebbe dovuto prendere delle modelle nere se il mercato Africa non era un mercato utile? Oggi la situazione è radicalmente diversa anche perché c’è molta attenzione al rispetto dei diritti e all’inclusione, se ti dimostri sordo a certe tematiche vieni penalizzato».
«E se oggi il razzismo nelle case di moda non esiste più, anzi, in maniera più o meno spontanea sono diventati molto inclusivi, il razzismo permane nelle istituzioni. Molti brand ad esempio ci chiedono consigli e per introdurre nei loro uffici stile designer africani ma, al di là che la loro richiesta sia genuina o meno, il problema più grande è costituito dalla burocrazia: farli accedere nei territori del patto di Schengen è veramente complesso. Un africano avrà sempre difficoltà ad approdare nel mercato europeo se non cambiano le istituzioni: ci sono troppi paletti. Un’ambasciata non può negare il visto a un ragazzo che abbia inviti a partecipare a sfilate o a corsi di formazione, dovrebbe aprire le proprie porte, dare la possibilità a questi designer di perfezionare la propria formazione in Italia».
L’edizione del 2023 del premio La moda veste la pace vede la presenza di player importanti del mondo del lusso: Naomi Campbell, che già era stata soprannominata da Nelson Mandela sua nipote onoraria, riceve il premio dalle mani della nipote Makaziwe per l’attivismo e l’impegno contro il razzismo profuso con Fashion for relief, ma è in ottima compagnia. Il direttore de La Stampa Massimo Giannini si è guadagnato il premio grazie al suo editoriale del 7 dicembre 2022 “Mobilitarsi è un dovere” con il quale ha promosso una raccolta firme per il rilascio di Fahimeh Karimi, allenatrice di pallavolo condannata a morte dal regime iraniano per un calcio ad un paramilitare. Oltre a loro anche Luisa Panconesi, presidente del Comitato evento LuisaViaRoma x Unicef, gala annuale con cui il retailer online devolve incassi stellari all’associazione di beneficienza (per il 2022, anno in cui al gala si esibì Jennifer Lopez, si parla di 8 milioni di euro). Riconoscimenti anche per il board di Bulgari, per i fondatori di Only the brave (Otb) Renzo Rosso e Arianna Alessi oltre a Piero Piazzi, presidente di Women management.