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In Francia è prevista l’apertura di cento mega riserve idriche, megabassines, fortemente volute dal comportato agricolo per garantirsi continuità nell’irrigazione dei campi. I progetti, stando ai monitoraggi di gruppi ambientalisti tra cui “Soulèvement de la Terre” e “Bassines non merci” sarebbero almeno duecento, e avrebbero effetti drammatici sullo stato di conservazione dell’acqua, motivo per cui da anni sono contestati con manifestazioni che incontrano una repressione sempre più violenta.
Il Villaggio dell’acqua contro le mega riserve idriche
A Melle, un comune nella Francia occidentale, si capisce di essere nel posto giusto per la mobilitazione contro i megabassines per due motivi: i posti di blocco della gendarmerie, la polizia francese, e il numero di persone che fa l’autostop. Zaini pesanti, capelli e vestiti sbiaditi dal sole, attendono di essere caricati e portati verso il campeggio dai compagni in arrivo. Gli incroci più vicini al “Village de l’eau”, il campeggio allestito per i manifestanti, sono presidiati dalla polizia che controlla zaini, bagagliai e documenti. Aprendo il bagagliaio della nostra auto il gendarme fa un fischio. Ci dice che i caschi e le mascherine ffp2 sono “interdits”, vietate. Lo scorso anno alla stessa manifestazione contro le mega riserve idriche due persone sono state gravemente ferite dai proiettili di gomma, finendo in coma. Un colpo ha raggiunto uno dei manifestanti alla trachea, l’altro al cranio. I caschi sembrano quantomeno necessari, se non il minimo indispensabile.
Il campeggio dista pochi minuti a piedi dal blocco. Migliaia di tende sbucano tra le fronde di alberi e arbusti, inerpicandosi per tutta la collina. L’atmosfera al campo è molto distesa, tra i banchetti e i tendoni in cui si tengono eventi e formazioni si muovono più di trentamila persone accorse da tutta Europa per chiedere la moratoria sulla costruzione dei megabassines.
“Abbiamo due obiettivi: chiedere la moratoria e dunque aprire un dialogo sulla gestione dell’acqua e allo stesso tempo rendere visibile il complesso agroindustriale che spinge per la costruzione dei mega bacini e per l’accaparramento di terra e acqua” spiega Johanne Rabier del “Collectif bassines non merci 86”.
“I megabassines sono problematici per tre motivi: drenano l’acqua dalle falde acquifere, creando un danno territoriale consistente e permanente, tant’è che sono considerati un mal adattamento dagli scienziati, sono destinati all’accumulo d’acqua per le grandi aziende dell’agribusiness, motivo per cui anche diversi agricoltori e agricoltrici prendono parte alla contestazione. Da ultimo sono decisioni calate dall’alto senza tenere conto della volontà di chi abita e vive in questi luoghi”.
“Bassines non merci” e “Soulèvement de la terre” sono solo due delle centinaia di gruppi che hanno aderito alla contestazione e che partecipano al villaggio. Tra gli altri ci sono anche “Extinction Rebellion”, “Palestine Action” e diversi sindacati dei laboratori e dei contadini.
Cosa sono i megabbassines
I megabassines sono enormi bacini di accumulo d’acqua a cielo aperto, definiti mega per via delle dimensioni, pari a 18 ettari. Il funzionamento è piuttosto semplice. Vengono scavati grossi crateri nella terra e coperti di plastica per evitare che l’acqua raccolta filtri via. Il riempimento avviene attraverso il pompaggio dell’acqua estratta direttamente dalle falde acquifere o dai fiumi. L’accumulo viene fatto durante le stagioni invernali, momento in cui i volumi idrici sono più consistenti, per garantire le irrigazioni durante l’estate, motivo per cui sono definiti bacini di sostituzione.
Di fatto, si tratta di enormi pozze artificiali, ognuna delle quali può ospitare un contenuto equivalente a trecento piscine olimpioniche, che accumulano acqua pompandola dal sottosuolo al fine di averne a sufficienza nelle stagioni più calde.
L’impatto ambientale dei megabacini
I serbatoi a cielo aperto sono interamente coperti di plastica, tant’è che 16 bacini di questa portata comportano la plastificazione di 1,5 milioni di metri quadrati di terra.
Stando alle amministrazioni governative e alle grandi aziende promotrici dei progetti, i megabacini sarebbero una soluzione ottimale per la gestione della siccità e della crescente scarsità idrica, due fattori, che, invece, parrebbero alimentare. Il drenaggio della falda freatica, infatti, indebolirebbe ulteriormente le riserve modificando, in maniera potenzialmente permanente, il ciclo idrologico delle zone in cui vengono costruiti. La stessa distribuzione dell’acqua accumulata non sarebbe equa, bensì orientata a tutelare le grandi aziende a danno di quelle più piccole e locali, motivo per cui questi progetti appaiono più affini a tattiche di water grabbing.
Vista la gravità dei razionamenti idrici nei periodi estivi, la paura è che le grandi aziende possano beneficiare in maniera smodata ed esclusiva di un bene comune, mentre ai piccoli agricoltori non sarà lasciato altro che una quota a margine. In aggiunta, i mega bacini potrebbero incrementare la velocità di prosciugamento delle falde acquifere in quanto non rispettano i tempi di ripresa fisiologici delle risorse idriche. Questa sottrazione di acqua, oltretutto, ha un effetto diretto e indiretto sulle popolazioni non umane che vivono nelle aree interessate proprio perché interviene sul ciclo stagionale già ampiamente provato dalla crisi climatica.
Le incongruenze riguardo l’efficacia non finiscono qui, persino la loro effettiva capacità di stoccaggio è in discussione dato l’elevato tasso di evaporazione che interesserebbe una quantità compresa tra il venti per cento e il sessanta per cento dell’acqua contenuta nei bacini. E in un territorio come la Francia che destina circa il 45 per cento delle sue risorse idriche all’irrigazione, in alcune regioni, in periodo estivo si arriva al novanta per cento, una perdita di questo tipo non è uno scherzo.
Chi vuole i megabassines
Quindi, se i piccoli agricoltori sono contrari, chi desidera e beneficia dall’apertura dei megabacini? Queste enormi riserve idriche sono volute principalmente dal comparto agricolo industriale perché la loro presenza garantisce la possibilità di irrigare con continuità anche nella stagione secca. La loro costruzione e supervisione viene gestita dallo Stato in concerto con i prefetti ai quali resta l’onere dell’approvazione del progetto. La loro costruzione è piuttosto costosa, per il solo bacino di Saint Soline si parla di circa sette milioni di euro. Questi serbatoi a cielo aperto incontrano lo scontento popolare anche fuori dal panorama ecologista e politico, molti agricoltori e abitanti dei villaggi della zona li vendono come progetti estranei alla loro realtà, imposti e decisamente inadatti a rispettare i ritmi dell’ambiente. Molte autorizzazioni alla costruzione, infatti, sono rilasciate senza che vi sia consenso da parte degli abitanti delle zone interessate e finiscono per venire impugnate in tribunale. A Vienne, ad esempio, trenta progetti per la costruzione di megabacini sono stati autorizzati contro il parere dell’area metropolitana di Poitiers. La scarsa volontà di dialogo da parte delle autorità competenti ha portato ad un aumento e un’amplificazione della contestazione.
Dove sono i mega bacini idrici
I progetti di accaparramento d’acqua, di drenaggio più propriamente, non riguardano solo la Francia o l’Europa, ma stanno venendo implementati in diversi paesi del mondo. Il Cile, ad esempio, ne ospita diversi, costruiti a partire dal 1985. Le riserve dei megabacini cileni vengono interamente destinate alle monoculture intensive che richiedono un’alta concentrazione di acqua, lasciando a secco i piccoli agricoltori e le comunità locali al punto che il governo è stato costretto spendere diversi milioni per acquisire una quota di acqua da destinare loro.
Un processo che delinea il probabile futuro dei grandi bacini francesi: non solo distribuiranno iniquamente le risorse comuni, ma creeranno le condizioni per cui chi vorrà attingervi dovrà pagare di tasca propria. Si tratta a tutti gli effetti di un processo di privatizzazione dell’acqua, una tendenza in crescita in tutto il mondo.
Diverse aziende multinazionali come Nestlè e Coca-cola, sono impegnate a rendere l’acqua un bene di mercato, accumulabile da privati e da quotare. L’oro blu è la risorsa più preziosa, soprattutto in piena crisi climatica. Stando ad un rapporto dell’Undrr, il numero di casi di siccità ha visto un aumento pari a 1,29 volte e le ondate di calore sono aumentate di 3,32 nei primi venti anni del ventunesimo secolo, rispetto agli ultimi del ventesimo.
Il clima sta cambiando a causa della concentrazione di gas climalteranti presente nell’atmostera e sta incidendo negativamente sul ciclo idrologico del nostro pianeta. Sostanzialmente, pioverà meno ma con intensità maggiore su terreni progressivamente più prostrati dalla siccità e quindi sempre meno capaci di assorbire l’acqua, cosa che, inevitabilmente, ridurrà la capacità di accumulo di acqua della Terra. Se le falde acquifere sono già sotto stress, progetti di accaparramento che ne drenano i volumi non faranno che aumentarne il rischio di prosciugamento.
Esistono alternative ai megabacini?
Sebbene, vista la posizione delle istituzioni, il water grabbing sembri l’unica soluzione, in verità ci sono diverse prospettive decisamente più ecocompatibili. Ad esempio, Peter H. Gleck, idroclimatologo cofondatore del “Pacific institute” e membro della “National academy of sciences”, propone quello che viene definito un soft path, letteralmente percorso morbido, che mira ad emancipare le comunità dalla dipendenza da strutture rigide di accaparramento, in cui rientrano a pieno titolo i megabacini, per favorire un uso più integrato di risorse che prevede il riuso dell’acqua, sistemi idrici a scala ridotta, l’intercettazione di acqua piovana e, quando compatibile con l’ambiente circostante la desalinizzazione dell’acqua. Si tratta di diversi percorsi ampiamente viabili che hanno un comune denominatore fondamentale: il concerto di azione con le comunità che da quelle riserve idriche dipendono.
Un altro tassello fondamentale per affrontare in maniera coerente e sensata la crisi climatica è il ripensamento completo dei consumi. Infatti le infrastrutture di accumulo di acqua hanno ancora meno senso se integrate dentro un sistema che, di fatto, genera spreco. Alcune tra le industrie più drenanti, in termini idrici, sono anche tra i maggiori emettitori, come nel caso dell’allevamento di animali non umani e l’estrazione fossile. Se per sopravvivere abbiamo bisogno di nutrimento è opportuno favorire quello più compatibile con il clima, ovvero quello senza consumo di alcun tipo di derivato dallo sfruttamento animale. In questo modo, anche la ripartizione idrica attraverso approvvigionamenti più funzionali, il soft path di prima, ne uscirebbe ottimizzata. Ridurre i consumi non necessari, ripensando interamente il sistema di accumulo-consumo, rimane quindi la cornice essenziale.
I megabassines, in quest’ottica, risultano una possibilità ancora meno adeguata, in quanto fungono da misura tampone per tutelare un sistema disfunzionale che si basa interamente sullo sfruttamento e non sul funzionamento delle risorse.
Il villaggio dell’acqua
La contestazione inizia dentro il campeggio, tra assemblee, conferenze e, soprattutto, workshop sulla gestione dei traumi fisici e psicologici che derivano dalle interazioni con la polizia. Un legal team offre consulenze prima, durante e dopo le manifestazioni a chiunque ne faccia richiesta.
L’impegno dell’organizzazione è quello di rendere il più sicura possibile la manifestazione, considerando quindi tutti i rischi derivabili dalla stessa. Sui bagni allestiti per l’occasione spuntano cartelli che avvisano l’importanza di contrastare la violenza sessista e sessuale per tutta la durata della mobilitazione, a partire proprio dal campo. Vengono organizzate unità mediche per soccorrere chi riporta traumi fisici, chi è colpito da lacrimogeni e chi da granate stordenti. All’esterno del campo, le forze dell’ordine continuano con le perquisizioni a tappeto. Stando a CNnews, sarebbero stati sequestrati coltelli, accette e spranghe di ferro. Tra i beni più comunemente rimossi dai bagagli in ingresso si conteggiano caschi, bombolette e coltelli.
Il corteo del 19 luglio e il sabotaggio ecologico
Dal Villaggio partono quattro gruppi diversi: uno diretto a Vivone, uno Poitier, uno a Saint-Maxens L’ecole e uno al megabacino di Pampr’oeuf. Dopo le difficoltà e i primi attriti con le forze dell’ordine i primi tre gruppi convergono a Pré Sec da parte il corteo che dovrebbe raggiungere il quarto gruppo. Le forze dell’ordine impediscono il passaggio e con un lancio di lacrimogeni nel campo agricolo essiccato in cui è deviato il corteo appiccano un incendio, impedendo alla manifestazione di raggiungere il secondo papabile obiettivo, uno dei siti agroindustriali impegnati nella costruzione dei megabacini. Il corteo si conclude con ordine al punto di partenza.
Il blocco del porto
Il 20 luglio è la giornata destinata al blocco del porto industriale de La Rochelle. Un primo gruppo occupa, con l’aiuto di un gruppo di agricoltori e dieci trattori il porto con successo. La mattina cominciano ad affluire tutti e diecimila i manifestanti che hanno deciso di prendere parte ai cortei. Inizialmente avrebbero dovuto essere tre, ma sempre a causa della pressione delle forze armate, vengono accorpati in due il cui obiettivo è raggiungere il porto da nord e da sud. Il corteo sud arriverà a destinazione, dopo aver ricevuto una scarica di manganellate, e darà sostegno a chi sta già occupando il porto commerciale ad acqua profonde di La Pallice. Il corteo nord, invece viene bloccato più volte da un gragnuola di lacrimogeni, bombe stordenti e idranti. Nel pomeriggio, dopo infiniti cambi di direzione la manifestazione viene dichiarata conclusa e con successo, avendo bloccato la città e il porto.
Sette persone sono state tenute in stato di fermo, tra le cinquanta e le ottanta sono state ferite e hanno ricevuto attenzioni mediche e almeno due sono state ospedalizzate.
Il campeggio e le manifestazioni hanno visto la partecipazione di delegazioni da tutto il mondo ( Francia, Italia, Brasile, Spagna, Messico, Tibet, Belgio, India, Marocco, Rojava, Palestina, Colombia, Germania, Cile, Portogallo, Irlanda, Libano e Svezia), unite dalla volontà di lottare per la tutela dell’inalienabile diritto all’acqua.