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- Nel mondo della moda gli investimenti sui materiali bio-based stanno crescendo e oggi hanno raggiunto i 2,3 miliardi di dollari e il mercato della “pelle vegana” potrebbe sfiorare i 90 miliardi di dollari entro il 2025.
- “Pelle vegana” però è un termine improprio che in Italia è vietato perché ingannevole: orientarsi nella marea di materiali esistenti come alternativi alla pelle o alla seta non è semplice.
- Arance, funghi, mele: sono molte le biomasse a partire dalle quali si possono ricavare dei filati o materiali per la moda, ma non tutte sono naturali al 100 per cento. Per capire quali tra queste, oltre ad essere etiche verso gli animali, siano anche eco-compatibili, è fondamentale imparare a leggere bene le etichette di composizione.
Funghi, mele, ananas, cocchi, bucce d’uva: sembra una lista della spesa e invece sono solo alcuni degli elementi a partire dai quali è possibile ricavare dei materiali bio-based. Materiali che imitano le qualità della pelle o di altre fibre tessili, principali settori di evoluzione della moda sostenibile oggi.
Oggi l’appeal della “pelle vegana”, che in realtà è un termine improprio che in Italia non si può usare perché ingannevole, è in crescita verticale e la sua presenza all’interno di un prodotto, come possono essere delle sneakers o una giacca, è decisamente da considerarsi un plus.
Gli investimenti sui materiali del futuro, tra il 2015 e oggi, ammontano a 2,3 miliardi di dollari: l’organizzazione no profit Material innovation initiative ha analizzato il mercato a livello globale di quelli che vengono chiamati next-gen materials nel report “Next-gen leather: chinese consumer perceptions” ovvero “Pelle di nuova generazione: la percezione dei consumatori cinesi”.
La Cina è tra le economie più grandi e in più rapida crescita del mondo e incide sul mercato globale del settore moda per il 44 per cento, con un tasso di crescita annuo dell’8,33% secondo i dati citati nel report e raccolti nel 2021 da Statista. In questo contesto la pelletteria nel 2017 ha raggiunto un valore globale di 414 miliardi di dollari (Grandview ricerca, 2019) e, nonostante i consumatori apprezzino la qualità della pelle, la crescente preoccupazione per gli impatti sull’ambiente legati ai metodi di produzione e, non da ultimo, il benessere degli animali, stanno orientando le scelte dei consumatori verso materiali altrettanto premium, ma meno impattanti sull’ambiente.
Al di là del benessere degli animali, che certamente è un tema, almeno in Europa la concia avviene a partire dagli scarti dell’industria alimentare, uno degli aspetti più dannosi legato alla produzione di articoli in pelle è infatti il processo di trattamento e concia, realizzato il più delle volte con agenti chimici altamente inquinanti. Anche se chiaramente ci sono le dovute eccezioni, come la concia al vegetale.
Il mercato della “pelle vegana” potrebbe raggiungere 89 miliardi di dollari entro il 2025
Il report di Material innovation initiative prende in esame il mercato cinese, che già rappresenta una grossa fetta del totale, ma che soprattutto ci dà un’indicazione su quella che potrebbe essere una tendenza globale. Le percentuali di gradimento nei confronti della pelle di nuova generazione sono schiaccianti: la preferisce il 90 per cento degli intervistati, mentre il 62 per cento sarebbe disposto a pagare un prezzo più alto, in particolare i membri della Generazione X, ovvero i nati tra il 1960 e il 1978 e i Millennial, i trenta-quarantenni di oggi.
Il settore quindi è carico di possibilità. Lo conferma un altro report, prodotto questa volta dalla fintech Infinitum global, secondo cui la domanda di pelle bio-based sperimenterà nei prossimi anni una crescita annua del 49,9 per cento, arrivando a raggiungere la cifra di 89 miliardi dollari nel 2025.
Se queste previsioni fossero tutte confermate la fetta di mercato che le alternative vegetali alla pelle si stanno guadagnando sul campo è particolarmente ghiotta. Ecco perché sempre più brand stanno investendo in ricerca e sviluppo e nascono abbastanza frequentemente pelli a base di un elemento nuovo.
Una dimostrazione è il neonato Demetra, materiale sviluppato internamente da Gucci che, stando a quanto diffuso dalla maison, è realizzato con il 70 per cento di materie prime vegetali come polpa di legno e poliuretano bio-based. Per una maison del lusso che ha fondato il suo heritage su prodotti in pelle, cambiare rotta non è cosa semplice, soprattutto perché deve garantire ai suoi consumatori performance equiparabili ai prodotti di sempre che nel caso della pelle sono principalmente durabilità e morbidezza al tatto. Un’altra prova? Hermès nel 2021 ha lanciato la sua iconica Victoria Bag, che produce dal 1977, in versione vegana, realizzata con pelle prodotta a partire dai funghi.
Arance, mele, funghi, ananas, bucce d’uva, foglie di cactus, cocco: quali sono gli “ingredienti” per fare materiali bio-based?
Brand come Orangefiber, Appleskin, Mylo o Piñatex sono ormai noti al mondo della moda e sinonimo di pelle bio-based di qualità, ma la ricerca produce materiali innovativi in continuazione. Intanto però occorre fare chiarezza: cosa si intende per materiale bio-based? Un materiale, per potersi dire a base biologica deve essere derivato in tutto o in parte da biomassa, come piante, alberi o animali, che deve aver subito un trattamento fisico, chimico o biologico. Un materiale bio-based poi può essere biosintetico, biofabbricato o bioassemblato: ovvero nel primo caso la biomassa è trasformata da un microorganismo vivente, nel secondo è prodotta da cellule viventi (come i mammiferi, ma anche microrganismi come i batteri, i lieviti o il micelio, la radice del fungo. I bioassemblati infine vengono coltivati e trasformati grazie all’intervento di altri organismi, come batteri. Uno studio della ONG olandese Fashion For Good, Understanding “bio” material innovation, mette in luce come molto spesso la dicitura di bio-based sia impropria nel mondo del tessile. “Materiale bio-based” oggi è un termine abusato: il marketing è sempre più aggressivo quando si tratta di agganciare consumatori attenti all’ambiente e disposti a pagare di più per difenderlo: comprendere i meriti dei diversi fornitori e degli innovatori è cruciale per orientarsi in uno dei campi più minati dal greenwashing. La percentuale di materiale ricavato da biomassa ad esempio non sempre è indicata e non sempre è il 100 per cento, come il Demetra di cui sopra che ricava da materiale organico il 70 per cento dei suoi componenti e, correttamente, lo indica.
La maggior parte delle aziende virtuose in questo senso nascono con lo scopo di sfruttare i vantaggi dell’economia circolare, e quindi generare valore a partire da scarti di produzione o alimentari. Agraloop è una società basata negli Stati Uniti la cui raffineria è in grado di trasformare i rifiuti alimentari, come le foglie delle ananas, le bucce di banana o la corteccia della canna da zucchero, in fibre naturali che possono essere utilizzate dall’industria tessile.
Mylo realizza materiali bio-based a partire dalla radice dei funghi (micelio, da qui il nome), Pinatex è una pelle vegetale ricavata dagli scarti delle foglie d’ananas mentre Desserto, realtà messicana finalista agli Lvmh innovation award del 2020, la ricava dalle foglie di cactus e la startup Malai la ricava addirittura dall’acqua di cocco.
Apple skin è probabilmente una delle realtà più conosciute e produce pelle vegetale a partire dagli scarti delle mele. Orange Fiber produce un tessuto molto simile alla seta prodotto a partire dagli scarti degli agrumi molto utilizzato da Salvatore Ferragamo e nella collezione Conscious di H&M.
Spiber è invece una compagnia giapponese specializzata in maeriali bio-based che ha brevettato una proteina fermentata che può essere utilizzata per creare una moltitudine di tessuti e materiali. Il processo di ricerca è durato 15 anni e ha portato alla definizione di una tecnologia basata sulla fermentazione, da qui il nome del materiale, ovvero Brewed Protein. Si tratta di un polimero proteico fermentato che tra le sue trasformazioni prevede anche quella in un materiale simile alla pelle: modificando il trattamento superficiale e la struttura interna del materiale, è infatti possibile ricreare una vasta gamma di esperienze tattili diverse.
Opportunità e criticità
Un mercato in tale crescita chiaramente fa gola, ma è importante imparare a discernere quando un materiale che viene definito bio-qualcosa sia veramente sostenibile da un punto di vista ambientale: al netto delle scelte personali, bisogna sempre fare molta attenzione.
Non essendoci una chiara percentuale di riferimento, non è detto che il prodotto che scegliamo per ragioni etiche poi non sia dannoso per l’ambiente sotto altre forme, magari perché contenente sostanze derivanti dalla plastica. “Bio-based non indica il processo di incorporazione: il mondo dei materiali alternativi alla pelle contiene per lo più spalmati e, non tutte, ma alcune di queste spalamature sono a base plastica, contengono quindi poliuretano o Pvc” avverte Enrica Arena, Ceo di Orange Fiber.
“Questo fa sì, ad esempio che un prodotto in origine naturale diventi non riciclabile e non biodegradabile. Nel caso di Orange Fiber tutto quello che viene utilizzato è di origine naturale: la percentuale di arance è intorno al 20-25 per cento e il restante è cellulosa proveniente da foreste certificate”, continua Arena. “Il prodotto passa poi attraverso un processo di sintesi: in questo momento stiamo collaborando con il gruppo Lenzing, che prevede che tutte le loro fibre siano certificate anche per essere biodegradabili sia in ambiente marino, che domestico, che industriale”.
Quindi che fare quando si vuole trovare un’alternativa bio-based alla pelle, alla seta, o a qualsiasi altro materiale?
Quello che suggerisce Enrica Arena è di “leggere con attenzione l’etichetta merceologica e di composizione, dove fa fede il processo di composizione e produzione della fibra: se sono indicate le sigle Pu o Pvc significa che siamo di fronte a tessuti contenenti della plastica”.