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- Attraverso il Living planet report, il Wwf monitora la dimensione media delle popolazioni globali di 5.495 specie di vertebrati selvatici.
- In cinquant’anni, dal 1970 al 2020, il crollo è stato del 73 per cento. Gli ecosistemi più in difficoltà sono quelli di acqua dolce.
- I dati arrivano a poche settimane da due appuntamenti fondamentali: la Cop16 sulla biodiversità e la Cop29 sul clima.
Catastrofico. È questo l’aggettivo scelto dal World wide fund for nature (Wwf) per descrivere il calo della dimensione media delle popolazioni globali di 5.495 specie di vertebrati selvatici oggetto di monitoraggio. Stando all’edizione 2024 del rapporto biennale Living planet, infatti, il crollo è stato pari al 73 per cento nell’arco di cinquant’anni, dal 1970 al 2020. Dati che ci fanno avvicinare pericolosamente al punto di non ritorno.
I dati del Living planet report del Wwf
Il Living planet report del Wwf elabora i dati raccolti dai siti di monitoraggio su quasi 35mila popolazioni di 5.495 specie di vertebrati selvatici. Non tutte sono in declino: alcune sono stabili, altre addirittura in aumento, a seconda del tipo di specie e della regione del mondo in cui vive. Il rapporto tiene traccia della loro abbondanza relativa, cioè dei loro cambiamenti nel tempo: ci possono essere popolazioni che numericamente sono molto ristrette ma restano stabili per anni o, viceversa, popolazioni molto abbondanti che vedono un tracollo.
Guardando alla media globale si scopre che, appunto, nell’arco di cinquant’anni la dimensione delle popolazioni animali monitorate si è ridotta di quasi tre quarti. L’intervallo va dal meno 67 al meno 78 per cento: la media è dunque del 73 per cento e corrisponde a un calo del 2,6 per cento ogni anno. Questo è preoccupante, perché le popolazioni stabili a lungo termine rendono gli ecosistemi più resilienti, anche di fronte alla crisi climatica.
A soffrire sono soprattutto gli ecosistemi di acqua dolce
In realtà gli indici del Living planet report sono tre, relativi rispettivamente a ecosistemi terrestri, di acqua dolce e marini. Tutti risultano in calo, ma a ritmi differenti. Per i mari il declino è del 56 per cento in cinquant’anni e corrisponde dunque a un meno 1,6 per cento all’anno: questo perché alcuni stock ittici hanno mostrato segni di ripresa e altri sono rimasti stabili, grazie anche alle misure per limitare la pressione esercitata dalla pesca. Resta però preoccupante il declino di alcune specie, tra cui squali e razze. Per alcune di esse, nemmeno il fatto di vivere in una riserva marina è una garanzia: è il caso della tartaruga embricata nella Grande barriera corallina, la cui popolazione nifidicante ha subito un calo del 57 per cento.
Gli ecosistemi terrestri, come foreste, deserti e praterie, mostrano una tendenza simile a quella globale (meno 60 per cento). Per alcuni grandi e iconici animali, la minaccia più seria è il bracconaggio: è il caso degli elefanti africani di foresta che oggi sono in pericolo critico, soprattutto nel parco nazionale Minkébé in Gabon. Ma gli interventi di conservazione, se sono coraggiosi e condivisi, funzionano: lo dimostrano i gorilla di montagna del massiccio di Virunga, il cui aumento medio è stato pari al 3 per cento annuo tra il 2010 e il 2016.
Il dato più grave è quello relativo agli ecosistemi di acqua dolce che mostrano un meno 85 per cento: il declino è dunque del 3,8 per cento ogni anno. Una grossa parte delle responsabilità spetta alle alterazioni degli habitat che bloccano le rotte migratorie dei pesci, facendo crollare dell’81 per cento l’abbondanza relativa delle loro popolazioni. È il caso dei salmoni Chinook che ogni inverno risalgono il fiume Sacramento, o per meglio dire risalivano, visto che le dighe impediscono loro di raggiungere il tratto di fiume in cui l’acqua è abbastanza fredda da permettere loro di deporre le uova. Il loro numero è crollato dell’88 per cento dal 1970 al 2022, fluttuando di anno in anno.
Verso la Cop16 sulla biodiversità e la Cop29 sul clima
Dati che non possono lasciare indifferenti, tanto più mentre si avvicinano due appuntamenti chiave: la Cop16 sulla biodiversità che si terrà a Cali, in Colombia (21 ottobre-1° novembre) e la Cop29 sul clima a Baku, in Azerbaigian (11-22 novembre). Le due crisi, quella della biodiversità e quella del clima, sono intrecciate e interdipendenti tra loro. Da un lato, infatti, l’aumento delle temperature e gli eventi meteo estremi costringono gli animali a migrare o cambiare le proprie abitudini, alterano i segnali ambientali che regolano per esempio la loro migrazione e la loro riproduzione, creano condizioni ideali per le specie aliene invasive. Dall’altro, gli ecosistemi “svuotati” dalla loro fauna selvatica sono più deboli di fronte agli shock esterni.
“Il sistema Terra è in pericolo, e noi con lui”, tuona Alessandra Prampolini, direttrice generale del Wwf Italia. “Le decisioni e le azioni dei prossimi cinque anni segneranno il futuro della nostra vita sul pianeta. La parola chiave è trasformazione: dobbiamo cambiare il modo in cui tuteliamo la natura, trasformare il sistema energetico, il sistema alimentare, uno dei motori principali della perdita di biodiversità globale, il sistema finanziario, indirizzandolo verso investimenti più equi e inclusivi”. Le due Cop, in questo senso, sono occasioni preziose: servono azioni coraggiose e leadership forti da parte dei governi”.