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- 16.425 specie di alberi su un totale di 47.282 è a rischio estinzione.
- Il dato è presente nel rapporto sullo stato degli alberi pubblicato dall’Unione internazionale per la conservazione della natura durante la Cop16 di Cali.
- “Il principale fattore di minaccia per un terzo delle specie valutate nel report è la deforestazione”, secondo Giorgio Vacchiano.
Più di un terzo delle specie di alberi conosciute e catalogate (38 per cento) sono oggi a rischio estinzione. È quanto emerge dal report sullo stato mondiale degli alberi elaborato dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) e presentato il 28 ottobre durante un evento collaterale alla Cop16 sulla biodiversità in corso a Cali, in Colombia.
Un risultato sconcertante che non aiuta di certo a tenere alte le speranze in un momento in cui, per quanto ci sforziamo di investire in una narrazione positiva, le cattive notizie tendono spesso ad oscurare quelle buone. A voler proporre i dati in altro modo, infatti, si scopre che quel 38 per cento equivale a 16.425 specie di alberi su un totale di 47.282 che sono stati catalogati e che rappresentano, dunque, più di un quarto di tutte le specie inserite nella famigerata Lista Rossa, una sorta di barometro dello stato della biodiversità ad oggi conosciuta.
Gli alberi sostengono la vita sul Pianeta
Un esercizio che ho imparato a fare, e che suggerisco sempre a chiunque abbia voglia di capire meglio le diverse sfaccettature del termine “interconnessione”, è chiedermi sempre che cosa rischiamo di perdere se lasciamo andare una specie o un ecosistema, quali sono le sue funzioni e quale il suo valore – al netto del fatto che rimango convinta che ogni organismo che vive sul Pianeta abbia il diritto di continuare la sua esistenza indipendentemente dal suo contributo per la nostra sopravvivenza.
Se ci poniamo questa domanda rispetto agli alberi, scopriremmo con relativa facilità che sostengono letteralmente la vita sul Pianeta. Regolano il ciclo del carbonio, dell’acqua e dei nutrienti necessari alla formazione del suolo, forniscono ossigeno, regolano il clima e sono indissolubilmente legati ad altre piante o a specie appartenenti al regno animale o dei funghi. Per non parlare dell’essere umano: oltre 5.000 delle specie arboree presenti nella Lista Rossa dell’Iucn, sono utilizzate per il legname da costruzione e oltre 2.000 specie per medicinali, cibo e combustibili.
“Soprattutto nelle aree tropicali, gli alberi forniscono principi attivi utilissimi per la nostra salute e la produzione di medicine”, spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in Gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, e autore del libro La resilienza del bosco, edito da Mondadori.
In tutto il mondo sono 35.000 le specie vegetali – quindi alberi e piante nel loro insieme – usate per scopo medico, una cifra che rappresenta solo il 15 per cento di quelle esistenti stimate. Dunque, se si considera che cancro e disturbi cardiaci insieme sono responsabili di almeno il 70 per cento delle morti a livello globale, e che, come dimostra la recente pandemia da Covid-19, l’emergere di nuove malattie è lungi dall’essere un’ipotesi remota, è facile comprendere come investire nella ricerca e nella conservazione di piante e funghi sia di fondamentale importanza.
Basti pensare a Quillaja saponaria, albero sempreverde originario del Cile centrale, la cui corteccia contiene le saponine, utilizzate come adiuvanti in alcuni vaccini anti-Covid e che produce una sostanza usata nei vaccini contro l’herpes zoster, e sembra possa avere effetti anche contro la malaria e la tubercolosi, oppure a Cinchona calisaya, o albero della china, presente in Perù e Bolivia, dalle comprovate virtù febbrifughe, toniche, stimolanti, antipiretiche, antimalariche e antireumatiche.
Il pericolo della deforestazione
“I principali fattori di minaccia per un terzo delle specie valutate nel report sono la deforestazione, che nelle aree tropicali è dovuta soprattutto ad agricoltura e allevamento, ed il prelievo sregolato di legname pregiato. Fattori che sembrano lontani da noi ma che in realtà ci riguardano direttamente visto che, ad esempio, siamo importatori di legname ma anche di prodotti alimentari come l’olio di palma e la soia per nutrire principalmente gli animali da allevamento”, spiega Vacchiano.
Nonostante l’estensione della deforestazione illegale sia difficile da quantificare con precisione, le ferite nel paesaggio sono ben visibili ad occhio nudo quando si attraversano Centro e Sud America. Un esercizio doloroso che mi ha accompagnata per mesi mentre conducevo WANE – We Are Nature Expedition, un reportage sullo stato della biodiversità lungo la Panamericana. Chilometri di foresta cancellata e soppiantata da monocolture di palma da olio, il cui bisogno di acqua è ben noto, che sta mettendo in ginocchio le popolazioni maya nelle regioni del Petèn e del Quiché in Guatemala, parte di quello che è conosciuto anche come corridoio arido. Per non parlare dell’allevamento illegale, la cui carne e i cui prodotti derivati arrivano negli Stati Uniti e in Europa. Centinaia di migliaia di mucche introdotte in ampi appezzamenti di terra che, una volta, erano la casa di alberi di ceiba monumentali, e che oggi portano ancora i segni della tecnica del taglia e brucia.
Attualmente, tra il 20 per cento e il 40 per cento della produzione globale di legno proviene da pratiche di deforestazione illegali, soprattutto nelle aree tropicali. Un trend che mette in ginocchio soprattutto i paesi più poveri, i cui governi perdono circa 15 miliardi di dollari l’anno che potrebbero invece essere utilizzati per sanare la situazione economica e sociale interna.
Tra le varietà di legno maggiormente importate in Europa ci sono il teak birmano e il mogano. Quest’ultimo si estrae da alberi della famiglia delle Meliaceae che include cinque specie diverse di mogano africano tutte incluse nella CITES, la Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, e il cui prelievo illegale sta mettendo in ginocchio la foresta pluviale del Congo. Una situazione che ritroviamo anche in Perù, il cui 80% del mogano, fino ai primi anni 2000, veniva esportato negli Stati Uniti, in violazione della suddetta Convenzione. Ma l’Italia non fa eccezione visto che, almeno secondo un report pubblicato nel 2001 sulle importazioni di legname illegale nell’Unione Europea, ben il 40% del legname tropicale importato dal nostro paese sarebbe stato abbattuto illegalmente, per un totale di circa 45 milioni di euro l’anno di materiale proveniente da deforestazione illegale in Indonesia.
Una delle cose che dovrebbe essere sempre tenuta a mente quando si parla di deforestazione è che a farne le spese non sono solo gli alberi ma anche le altre forme di biodiversità. Quelli che per molti di noi sono panorami da cartolina o luoghi da esplorare durante le vacanze, per 350 milioni di persone sono infatti la dimora e il luogo da cui dipendono per la fornitura di svariati servizi ecosistemici. Di queste centinaia di milioni di persone molte appartengono a popolazioni native per le quali la scomparsa delle foreste equivarrebbe all’annullamento della loro storia, della loro cultura e delle loro tradizioni.
Le soluzioni possibili alla deforestazione
“Nelle aree tropicali, alcune soluzioni per combattere la deforestazione sono legate al sostegno che sapremo dare alle nazioni e alle comunità indigene che custodiscono le conoscenze per poter usare le foreste e il legno senza pregiudicarne la sopravvivenza”, continua Vacchiano. “Ricordiamo il caso della noce dell’amazzonia, un albero di cui consumiamo anche noi i frutti, che però viene impollinata solo dagli animali che vivono nella foresta intatta. Questo significa che non è possibile coltivarne dei frutteti, come alcuni potrebbero pensare. Bertholletia excelsa vive solo nella foresta indisturbata. Per questo è fondamentale incentivare, attraverso progetti di cooperazione, un’economia locale basata sulla raccolta della noce brasiliana conciliando il sostentamento delle popolazioni locali con la conservazione della foresta che, quindi, diventa automaticamente una priorità anche per una filiera economica sana, resiliente ed equa”.
Se lavorare localmente è fondamentale, lo è anche sensibilizzare l’intera filiera in quella parte di mondo responsabile di gran parte del consumo di beni provenienti dalle foreste tropicali. “E importantissimo rivolgersi alla grande distribuzione che, per tutti i prodotti che arrivano oltreoceano, ha il coltello dalla parte del manico più di tutti i consumatori, Questi, infatti, possono sicuramente informarsi – devono farlo – ma dobbiamo anche ammettere che spesso non hanno il potere di scelta oppure non hanno gli strumenti, in termini di dati messi a loro disposizione, per capire da dove proviene veramente un prodotto. Sta alle grandi filiere ripulire la loro catena di produzione e prendere impegni concreti per assoggettare le aree da cui proviene il legno all’obiettivo deforestazione zero. Ad oggi, infatti, nessuno delle 100 aziende più importanti al mondo per l’approvvigionamento di legno tropicale dei chiari impegni in questo senso. E dunque una responsabilità condivisa quella di portare avanti un’azione concreta sia dal basso, attraverso i consumatori, sia dall’alto”.
Il rischio pesticidi e crisi climatica
Nonostante nelle regioni temperate la deforestazione non abbia tassi allarmanti, qui sono altri i fattori che minacciano la sopravvivenza dei boschi, in primis i pesticidi e la crisi climatica, ma anche di alcuni loro abitanti. La lista rossa dell’Iucn, infatti, continua a riempirsi di nuovi protagonisti dalla storia che non dobbiamo dare per scontata. Ultimo, in ordine di apparizione, il riccio dell’Europa occidentale (Erinaceus europaeus), che è passato da minima preoccupazione a quasi minacciato. Le attività di monitoraggio, infatti, hanno evidenziato che il declino della specie potrebbe aver superato il 30% nell’ultimo decennio, mettendola seriamente a rischio.
“Nonostante gli alberi abbiano una grande resilienza alla siccità e agli incendi, se questi eventi si verificano con frequenza sempre maggiore rischiano di diventare una minaccia importante. Ecco perché, anche nel cuore dell’Europa temperata, si inizia a parlare di migrazione assistita ossia di introdurre nelle foreste alcune varietà di specie – se non addirittura specie diverse – che per le loro caratteristiche fisiologiche ed evolutive sono più resistenti al caldo e al secco. In questo modo si possono aiutare alcune specie di alberi che, muovendosi molto lentamente – ossia solo attraverso i loro semi – non riescono a stare al passo con lo spostamento delle fasce climatiche da cui dipende la loro sopravvivenza. “Purtroppo, ad oggi, conosciamo ancora poco le caratteristiche genetiche di gran parte delle nostre specie più comuni, come il faggio, l’abete rosso, il pino silvestre… I primi studi sui genomi legati alla resistenza alla siccità sono iniziati da pochissimi anni. Tra questi, il progetto Rescue, avviato dall’Università di Pavia al parco naturale del Ticino Lombardo, che vuole associare le caratteristiche genetiche del bosco di querce con la propensione di questa specie al deperimento, così da provare a identificare singoli individui o varietà con resistenze genetiche importanti ed utilizzarle per ricostituire le foreste del futuro”.
Ci vuole impegno costante
Mentre alla COP16 i Governi sono impegnati a discutere documenti la cui approvazione o meno dipende da interessi lontani dalla realtà scientifica, nel 2023 la deforestazione avanzava ad un tasso del 45 per cento più alto rispetto a quanto sarebbe stato necessario per rispettare gli impegni assunti da 140 paesi (inclusi Brasile, Cina, Russia e Stati Uniti) per fermare la deforestazione entro il 2030.
Eppure, nonostante le difficoltà, nonostante i passi avanti che sembrano briciole rispetto al problema, abbiamo la responsabilità collettiva di rimanere ancorati alla realtà delle cose. Abbiamo il dovere di continuare a guardare l’elefante nella stanza, trovando tutte le soluzioni possibili per farlo uscire e dargli la libertà che merita.