ius scholae
Dopo mesi di rinvii, ritardi e tentativi di ostruzionismo, arriva in aula lo ius scholae. Prende il via oggi la discussione alla Camera sul testo di riforma della legge 91/92, che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana. Prevede che possa chiedere di diventare cittadino italiano il minore nato in Italia da genitori stranieri purché abbia frequentato per 5 anni uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione. La possibilità è estesa anche ai minori non nati in Italia ma che abbiano fatto ingresso nel paese entro i 12 anni di età. La cittadinanza si potrà acquisire con una dichiarazione di volontà entro il compimento della maggiore età. Dovrà essere uno dei genitori a farne richiesta. Il testo è stato chiuso nella serata di ieri, con l’introduzione di qualche novità: in particolare, se il ciclo scolastico di cinque anni è quello delle elementari non si richiede sol...
di Fioralba Duma e Paula Baudet Vivanco La legge sulla cittadinanza italiana ha compiuto trent’anni, ma chi la subisce non ha niente da festeggiare. Sono infatti oltre un milione i bambini, adolescenti e adulti a restare stranieri in questo loro paese, appesi al filo del permesso di soggiorno, proprio a causa di quella legge nata già vecchia. Tutti figli e figlie di immigrati ma anche figli della Storia d’Italia degli ultimi decenni, cresciuti tra le sue trasformazioni e contraddizioni, e che faticano a godere di pieni diritti a causa di normative che si dimostrano inadeguate ai tempi. A essere antiquati sono innanzitutto i principi su cui già era fondata la legge sulla cittadinanza nel 1992 perché i legislatori di allora si erano dedicati più che altro a celebrare i discendenti italiani radicati a migliaia di chilometri, dimostrandosi incapaci di riconoscersi invece pienamente anche in chi già muoveva i primi passi o sarebbe arrivato ancora bambino...
Mi sono ritrovato in Italia quasi inconsapevolmente. È come se ci avessi sempre vissuto: come chi ci è nato, non ho mai avuto una scelta da prendere. Non avevo ancora compiuto due anni quando fui catapultato nella periferia di Napoli, per scappare dalla devastazione economica e sociale dell’Ucraina post-sovietica. Sono cresciuto sentendomi chiamare Andrea, all’asilo come pure dai miei genitori. Quando mia madre mi spiegava il perché di quell’Andriy sulle scartoffie che rovistavo in giro per casa, faticavo a comprendere. Credevo si riferissero a mio padre, mio omonimo (pratica comune nei paesi dell’Europa orientale), ma poi leggevo la mia data di nascita. Quando arrivai era il 1999. Nello stesso anno sbarcò in Italia anche l’attaccante ucraino Andriy Shevchenko, col quale la maggior parte degli italiani avrebbe finito per associare il mio paese, e quindi anche me, almeno fino agli sconvolgimenti politici dell’ultimo decennio...