È tramontata l’era della body positivity?

Lifegate

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Ora che il fashion month è definitivamente concluso possiamo dirlo: la body positivity è scomparsa dalle passerelle. Tornerà o si tratta di un addio?

Ora che il fashion month – il mese delle sfilate di Milano, Parigi, Londra e New York – è definitivamente concluso, possiamo dirlo: la body positivity è scomparsa dalle passerelle. Dopo che il 2022, stando al report annuale pubblicato da The fashion spot, è stato uno degli anni più rappresentativi di sempre rispetto alla diversità, forse il fashion system sta facendo un passo indietro.

Il report si concentra su diversi aspetti: dal colore della pelle, alle questioni di genere fino alla forma del corpo e all’età e, con un record di 103 presenze plus size, pari al 2,34 per cento dei casting totali (ovvero delle modelle e modelli scelti), le passerelle che hanno visto sfilare le collezioni autunno/inverno 2022/23 sono state le più rappresentative di sempre anche paragonate alla primavera/estate dello stesso anno, che ne vedeva solo 81, ovvero l’1,81 per cento di tutti i casting.

Jason Wu
La sfilata della collezione autunno/inverno 2023/24 di Jason Wu a New York © JP Yim/Getty Images for Nyfw: The Shows

L’inclusività dal punto di vista dei corpi, quest’anno, i brand invece non l’hanno portata in passerella. Complici anche alcuni trend di stagione probabilmente, come micro top, micro culotte, e tubini fascianti, il ritorno alla magrezza estrema sembra essere stata una costante. Come ha sottolineato anche Vanessa Friedman su Twitter che, dopo essersi espressa sull’eccessiva magrezza di alcune delle ragazze di Jason Wu, è tornata sull’argomento scrivendo che “Il punto non è far vergognare i modelli, ma richiamare l’attenzione sul problema. È ora che la moda rispecchi l’intera popolazione che gli abiti li indossa in termini sia di razza, che genere, che di taglia ed età. Quest’anno gli show relativi all’autunno/inverno 2023/24 hanno portato in passerella ragazze magre in modo scioccante, evidentemente anche perché molti dei vestiti che indossavano mettevano molto in mostra i loro corpi”.

Body positivity: riflesso di un’esigenza della società o trend passeggero?

“Il linguaggio della moda è influenzato dall’arte, dalla musica, ma anche da quello che accade nella società: è un sistema dove tutto si interseca” spiega Gisella Genna, direttrice casting e docente. “Quello che insegno ai ragazzi è che le scelte di rappresentazione che brand e riviste oggi fanno sono molto forti e questo è un processo iniziato più o meno nel 2015, quando Gucci con Alessandro Michele ha da subito investito in un immaginario genderless che corrispondeva a un bisogno della società in quel momento. Da allora tutto è cambiato, anche nel casting. Molte delle mie lezioni si concentrano proprio sul far capire ai ragazzi come nei decenni si siano evoluti i vari codici estetici”. Stando a quello che ci dicono la maggior parte delle modelle viste in passerella, i codici estetici che andranno per la maggiore nei prossimi non prediligeranno una forma del corpo considerata standard.

Gucci
Un look Gucci della primavera/estate 2016 © Venturelli/WireImage

“Nel casting è tutto molto veloce”, continua Genna. “Diciamo che oggi non c’è un unica tendenza, ma si vanno a cercare la freschezza e la sorpresa. Lo abbiamo visto con alcuni fenomeni come quello della “real people”, ovvero delle persone reali,  e delle bellezze non binary: sono delle bellezze definite, ma che sfuggono alle definizioni. Nel casting c’è un ricambio sempre molto veloce, ma una cosa è molto evidente: il ritorno alla bellezza magra è un fatto sulla passerelle dell’ultimo mese. Pochissimi stilisti quest’anno hanno fatto sfilare modelle plus-size: Nina Ricci che ha fatto aprire a una bellezza curvy, poi ci sono stati Dolce & Gabbana e Versace. A me non stupisce perché credo che rientri in una questione di moda e di fenomeni per cui c’è il momento in cui assolutamente non si può non andare in una certa direzione, ma poi è sulla durata che si misura l’effetto reale. In certi momenti la sensazione è che sia un vento che passa e che non resta, poi è possibile che questo vento torni. Anzi è auspicabile che lo faccia”.

Viene da chiederselo in effetti dopo che, negli ultimi anni, siamo stati letteralmente sommersi da produzioni editoriali e pubblicitarie che inneggiavano alla diversità dei corpi. “Le campagne incentrate sulla body positivity che abbiamo visto anche ultimamente sono vecchie, rispecchiano scelte che riguardano le stagioni passate: con le nuove campagne dell’autunno/inverno prossimo vedremo se saranno confermate o meno le scelte portate in passerella. Magari le scelte saranno diverse rispetto al messaggio mandato in sfilata ma, forse, più che essere strano che certe cause siano state abbandonate era strano prima che brand che non avevano le avevano mai sposate a un certo punto le sostenessero. Per dirla in termini molto franchi io un po’ di ipocrisia l’ho sempre sentita rispetto alle cause di inclusività: era un bisogno avvertito nella società per cui non potevi non adattarti, ma evidentemente si è trattato di un fenomeno passeggero. Anche perché poi vanno bene sfilate e campagne, ma se poi vai in negozio e la 46 non si trova e si fa fatica spesso a trovare anche la 44, che per altro viene spesso già considerata Xl, è evidente che il gioco non sta in piedi”, ammette Genna.

Ashley Graham
Ashley Graham in passerella da Dolce & Gabbana durante l’ultima Milano fashion week © Vittorio Zunino Celotto/Getty Images

L’inclusività nelle campagne pubblicitarie

“Quello che non mi è stato chiesto in quattordici anni che faccio questo lavoro, mi è stato chiesto tutto insieme in un anno” racconta invece Michael Kent, anche lui direttore casting, ma per un’agenzia pubblicitaria. Mai come negli ultimi mesi infatti, in Italia si è cercato di pluralizzare i prodotti pubblicitari come adesso. “Giusto oggi parlavo con un collega, che fa questo mestiere da trent’anni e che scherzava sul fatto che alla fine della storia non ci fosse stato nessun cambiamento nelle ultime sfilate. L’heroin chic, lo stile di Kate Moss per intendersi, super skinny e un po’ emaciato, ce lo portiamo dietro dagli anni Novanta, che ora stanno tornando prepotentemente e da un po’, insieme a quello che andava di moda negli anni 2000, con vita bassa e tutto”. Nell’ottica della moda tradizionale, va da sé che se devi far sfilare micro top, micro culotte e pancia in bella vista sceglierai modelle che abbiano un fisico filiforme, un altro conto poi è quello che si vuole comunicare al grande pubblico, in maniera più o meno genuina.

Miu Miu
Un look dell’ultima sfilata di Miu Miu durante la Fashion week di Parigi © Victor Virgile/Gamma-Rapho via Getty Images

“Dal mio punto di vista quello che ho notato in pubblicità è che, nelloutput comunicativo pensato per la massa nel mondo sia della moda che del beauty ho iniziato ad avere le richieste più bizzarre. Prima la parola magica era una, perfezione: pelle perfetta, denti perfetti, corpi perfetti. Quest’anno c’è stato un boom di richieste prima di tutto non per modelle ma persone qualunque, “real people”, e poi con caratteristiche come: plus size, bassa statura, spazio tra i denti, occhiaie. Una volta addirittura c’è stata una specifica richiesta per le smagliature. Il mio background come casting director è soprattutto televisivo e, fino a poco tempo fa, modelle e modelli asiatici erano richiesti per spot destinati esclusivamente al mercato orientale, oggi direi che un terzo delle richieste è per il mercato europeo. Ancora, conosco un sacco di modelle e modelli neri che, in Italia, erano esclusi dai lavori più grossi e improvvisamente hanno iniziato ad essere richiesti”.

Kate Moss
Kate Moss in una campagna di Calvin Klein negli anni Novanta

“La sensazione però è che tutto questo non sia genuino: faccio anche fatica a parlarne, ma ho ricevuto richieste assurde come bookare (si dice così tra gli addetti ai lavori) qualcuno non binary, qualcuno gender non conforming, e qualcuno gender fluid. Oppure mi sono sentito dire frasi come: “non vogliamo persone non binary, solo gender fluid”. Pretese queste che creavano situazioni imbarazzanti anche durante i casting”, rivela Kent.

“La cosa buona d’altra parte è che tutte queste persone sono state poi confermate, anche per lavori di una certa importanza, quindi non si è trattato di pura formalità, però io credo che i brand oggi vadano nella direzione dell’inclusività non perché siano buoni di cuore, ma perché vedono che il mercato sta andando in quella direzione. Specialmente i brand italiani che, tolta qualche eccezione, sono spesso a traino di quello che succede nel resto del mondo, come ad esempio gli Stati Uniti e il Regno Unito. Un esempio lampante è l’inclusione di più modelli neri e asiatici, una diretta conseguenza del movimento Black lives matter o Asian lives matter”.

 

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