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Una delle più importanti eredità di Joe Biden, indipendentemente dal suo successore, è quella climatica: gli Stati Uniti hanno approvato la più importante legge sul clima della loro storia. Eppure negli stessi anni sono diventati i maggiori produttori mondiali di petrolio.
Per quanto parziale, infatti, l’Inflation reduction act ratificato due anni fa è stata la prima misura davvero sistemica sul clima e prevedeva, al suo interno, un taglio delle emissioni di gas serra del 40 per cento entro il 2030 (rispetto ai livelli del 2005). L’obiettivo non era sufficiente a mettere in sicurezza l’Accordo di Parigi sul clima, ma rappresentava almeno il rientro in pista statunitense dopo il disastroso lascito dell’amministrazione Trump, che aveva portato gli Usa fuori da Parigi.
L’altra faccia della medaglia, però, è più dura da digerire e da raccontare, sicuramente per i democratici: proprio sotto la presidenza Biden gli Stati Uniti hanno infatti raggiunto il loro picco storico di produzione petrolifera, ormai vicina ai 14 milioni di barili al giorno, diventando di gran lunga il primo produttore mondiale di greggio, superando sia Arabia Saudita che Russia, lasciati milioni di barili indietro.
Com’è stato possibile questo picco di produzione, in un momento in cui la transizione energetica sta accelerando, anche negli Stati Uniti, e l’Inflation reduction act ha portato miliardi di dollari pubblici nell’economia a zero emissioni? Il mercato delle auto elettriche sta prendendo il largo, con diverse case automobilistiche che vedono aumenti nelle vendite tra il 50 e l’80 per cento rispetto al 2023, già anno record di vendite di mezzi elettrici, e che quindi non usano più nessun derivato del petrolio, come benzina o petrolio.
Anche le energie rinnovabili hanno visto un forte aumento negli ultimi due anni: nel 2023 ben il 53 per cento di tutta la potenza installata veniva da nuovo fotovoltaico.
Tuttavia la produzione petrolifera non ha mai raggiunto vette così elevate.
I petrolieri preferiscono i democratici o i repubblicani?
Le cause di questo recente boom petrolifero risalgono in realtà ad anni precedenti: infatti dopo anni e anni di investimenti, spinti anche dal governo federale con l’obiettivo strategico di rendersi energeticamente indipendenti, i risultati finanziari iniziano a dare i loro frutti.
Frutti economici, ossia ricavi, che sono diventati giganteschi con la crisi mondiale dei prezzi in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, dopo lo shock e le perdite del 2020 in seguito alla prima ondata di Covid-19.
Secondo Rystad Energy, una società di ricerca e consulenza, nel decennio dal 2011 al 2021, i pozzi di gas e petrolio nei 48 stati continentali erano in perdita di quasi 140 miliardi di dollari. Solo negli ultimi tre anni invece, dal 2021 tutti questi pozzi hanno fruttato circa 485 miliardi di dollari. Soldi che spesso tra l’altro hanno finanziato con milioni di dollari i candidati alle elezioni, principalmente repubblicani ma anche democratici.
A contribuire all’attuale picco di produzione è sia la fratturazione idraulica, detta fracking, sia le molte innovazioni tecnologiche introdotte negli anni che hanno molto aumentato l’efficienza, e ora sono state economicamente ammortizzate. Innovazioni che spesso hanno anche permesso di tagliare l’occupazione nel settore e ridurre i costi.
La produzione ha effettivamente raggiunto il suo picco durante l’ultimo governo di Joe Biden, ma a parole sono stati spesso i repubblicani i più grandi sostenitori dell’industria fossile, Trump ha nel suo motto Drill, baby drill la quintessenza di questo spirito.
A questo si aggiunge che gli Stati Uniti sono stati nel 2023 anche il più grande esportatore mondiale di gas naturale liquefatto, detto Gnl. Ormai gli Stati Uniti estraggono talmente tanto petrolio e gas che hanno ridotto molto l’importanza geopolitica e di influenza economica dell’Opec, il gruppo di Paesi mediorientali produttori di gas e petrolio, capeggiati dall’Arabia saudita.
In realtà, è almeno dal 2010, sotto l’amministrazione democratica di Barack Obama, che sono aumentati pesantemente gli investimenti per trovare e sfruttare i nuovi giacimenti in casa, soprattutto con le nuove tecniche del fracking, che diversi studi hanno provato essere dannoso per le persone nei pressi degli impianti di estrazione.
L’idea iniziale di liberarsi dal carbone, il più inquinante dei combustibili fossili era corretta, ma gli Usa sono ricaduti in questo modo in una seconda dipendenza fossile, quella dal gas, che non solo mette a rischio la loro transizione ecologica ma anche quella di molti altri paesi verso i quali ora esportano queste fonti.
Fino a quando?
Dopo averlo detto molte volte nella scorsa campagna elettorale, se eletto, Trump spianerebbe nuovamente la strada alle compagnie petrolifere e del gas per “utilizzare l’oro liquido sotto i nostri piedi per produrre energia pulita per l’America e per il mondo”, ha dichiarato.
Biden ha invece negli ultimi anni spinto molto, e i circa 340 miliardi di dollari dell’Ira lo confermano, sulle tecnologie pulite, ma non si è opposto a tutti i piani di espansione fossile. E anzi: nel breve periodo, le più stringenti leggi democratiche e la limitazione della produzione hanno paradossalmente fatto sì che il prezzo delle fonti fossili si alzasse, garantendo guadagni maggiori per le compagnie fossili negli ultimi anni.
D’altronde molti produttori vedono questo periodo d’oro, politicamente bipartisan, come un segnale per poter andare avanti ancora per interi decenni. Al New York Times, il direttore generale della Permian Deep Rock Oil Company, Kyle Hammond, ha dichiarato: “Trivelleremo pozzi come questo per i prossimi quarant’anni”.
La regione del Permiano, dal nome dell’epoca geologica a cui risale il giacimento, è al centro delle attenzioni delle grandi compagnie petrolifere: Exxon, il più grande produttore in quella regione del Texas, punta ad aumentare la produzione di petrolio e gas del cinquanta per cento entro il 2027. Non si capisce però come l’aumento di estrazioni possa essere compatibile con i loro teorici piani per arrivare a zero emissioni solo 23 anni dopo.
Cosa bisognerebbe fare?
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, è dal 2021 che l’umanità non ha più bisogno di esplorare nuovi giacimenti di petrolio e gas se vuole raggiungere le zero emissioni entro il 2050, perché sono già sufficienti quelli che conosciamo. Nelle loro previsioni, il picco di petrolio arriverà prima del 2030 a causa del numero sempre maggiore di auto elettriche, il grosso del petrolio viene infatti usato per i mezzi di trasporto, e della rapida crescita delle energie rinnovabili, in particolare eolico e solare.
Servirà insomma molta politica per provare a riportare gli Usa sul tracciato per limitare le emissioni di gas serra fossili e provare a rimanere sotto i +2°C di aumento di temperatura media globale rispetto al periodo preindustriale. La probabile candidata democratica Kamala Harris si è espressa più volte a favore del Green new deal, e più volte ha portato a processo aziende fossili nel ruolo di procuratrice generale della California, oltre a essere una sostenitrice di un ban sul fracking. Più difficile capire se Harris sarebbe a favore, o in grado, di spingere verso un forte taglio della produzione, l’unica misura realmente efficace in questo scenario.
Insomma: al primo posto per emissioni cumulate di gas serra a livello mondiale, oltre il 25 per cento fino al 2017, anche se nel 2024 potrebbero essere un po’ meno, al primo posto per Pil globale, al primo posto per produzione di petrolio e per esportazione di gas naturale liquefatto. La transizione energetica del pianeta passa decisamente anche dal prossimo governo degli Stati Uniti d’America. Forse, al posto di chiedere sempre “E l’India? E la Cina?” sarebbe il caso di iniziare a chiedere più spesso: “E gli Stati Uniti?”.