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- Il precedente governo britannico ha approvato il giacimento petrolifero Rosebank, nell’Atlantico del nord.
- Le organizzazioni ambientaliste hanno avviato un’azione legale, ritenendo che infranga il piano per il clima del Regno Unito.
- Il nuovo esecutivo laburista ha rinunciato alla difesa. Gli attivisti ora chiedono con forza di fermare definitivamente il progetto.
Il nuovo governo britannico, insediatosi durante l’estate, decide di trasmettere un segnale di forte rottura rispetto ai precedenti 14 anni a guida conservatrice. Rinunciando a difendere l’enorme giacimento petrolifero Rosebank, nell’Atlantico del Nord, dall’azione legale che è stata intentata dalla campagna #StopRosebank con l’appoggio di quasi 18mila cittadini e cittadine.
Cos’è il giacimento petrolifero Rosebank
È passato poco più di un anno da quando, a settembre del 2023, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha pubblicato l’aggiornamento della sua tabella di marcia per il net zero, l’azzeramento delle emissioni nette di gas serra. Mettendo bene in chiaro che, per contenere il riscaldamento globale nella soglia degli 1,5 gradi, entro il 2050 le fonti rinnovabili dovranno fornire il 90 per cento dell’energia.
Con un curioso tempismo, il giorno successivo il governo britannico (allora guidato da Rishi Sunak) ha approvato uno dei progetti legati ai combustibili fossili più imponenti degli ultimi anni. Si chiama Rosebank ed è gestito dalla società norvegese Equinor. È situato 80 miglia a nord della costa delle isole Shetland, nell’Atlantico del nord. È il più grande giacimento britannico di gas e petrolio non ancora sfruttato: custodisce infatti quasi 500 milioni di barili, per il 90 per cento di petrolio. Petrolio che sarà esportato per la raffinazione e solo in parte rivenduto nel Regno Unito a un prezzo di mercato.
Il che significa, fanno notare i gruppi ambientalisti, che i cittadini pagheranno bollette sostanzialmente invariate ma, in compenso, con le loro tasse copriranno anche i generosi sgravi fiscali concessi ai nuovi investimenti nelle fonti fossili. Pesantissimo anche il conto da pagare in termini di emissioni di gas serra: bruciando il gas e il petrolio estratti a Rosebank si supererebbero i 200 milioni di tonnellate di CO2, più delle emissioni annue di Uganda, Etiopia, Mozambico e altri 25 paesi a basso reddito messi assieme. La tabella di marcia fissa nel 2026 l’inizio della produzione.
La campagna #StopRosebank e l’azione legale
Nel Regno Unito, i gruppi ambientalisti si sono già scontrati contro simili progetti fossili. E, in alcuni casi, hanno vinto. È successo nel 2021, quando Shell ha deciso di abbandonare il controverso progetto Cambo nel mare del Nord. Proprio da questa esperienza prende il via la campagna #StopRosebank, di cui fanno parte cittadini e organizzazioni non governative disseminati nel territorio britannico. “Siamo uniti dalla fiducia nella giustizia climatica, che richieda una transizione giusta e che paesi come il Regno Unito facciano correttamente la loro parte nel combattere la crisi climatica, riconoscendo il debito climatico che gli stati ricchi devono al resto del mondo dopo secoli di colonizzazione ed emissioni”, si legge nel sito della campagna.
L’attivismo è finito anche in tribunale. Le due organizzazioni Uplift e Greenpeace Uk, infatti, hanno avviato due distinte azioni legali contro il giacimento Rosebank. Forti di una sentenza analoga della Corte suprema, infatti, sostengono che si debbano conteggiare le emissioni legate all’intero ciclo di vita del progetto. E che, se si include anche la fase di combustione del gas e del petrolio, il giacimento Rosebank non sia compatibile con il piano per il clima del Regno Unito. Inoltre, ritengono inadeguata la valutazione dell’impatto sull’ecosistema marino che è stata condotta.
Con una presa di decisione molto forte, il governo laburista ha annunciato che non difenderà in tribunale la decisione, presa dal suo predecessore, di dare il via libera al giacimento Rosebank. Per riprendere le parole dei movimenti ambientalisti, “ha preso la giusta decisione di non sprecare tempo e denaro nel tentativo di difendere l’indifendibile”. Sul caso non è ancora stata scritta l’ultima parola, perché tutto dipenderà dalla compagnia petrolifera Equinor e dalla North sea transition authority (Nsta), l’autorità che ha avallato l’autorizzazione. Se anche loro decideranno di rinunciare alla difesa, l’azione legale non avrà più senso di esistere. Se resteranno ferme nella loro posizione, viceversa, la causa andrà avanti. Intanto, le ong chiedono al governo di fare un passo avanti ancora più deciso, fermando il progetto una volta per tutte.