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- In un mondo sempre più accelerato intercettare i nuovi trend, per i brand, è qualcosa di sempre più importante. Questa continua rincorsa fa sì però che le tendenze invecchino in fretta.
- La moda instilla desideri sempre nuovi e non c’è second hand o fibra riciclata che tenga se il consumo di abbigliamento è smodato.
- Questo ha una diretta conseguenza: la sovrapproduzione e l’enorme quantità di abiti comprati e mai indossati e la produzione di 654 chili di CO2 equivalente, per persona, ogni anno.
Questo è il momento dell’anno in cui iniziamo a scandagliare le tendenze emerse ormai sei mesi fa sulle passerelle della primavera-estate 2023. Da un lato i magazine, digitali o cartacei, dall’altro i brand, producono contenuti su contenuti in merito a quello che andrà da qui alla fine dell’estate. Ma chi li stabilisce questi trend e, soprattutto, quanto durano e che conseguenze ha il fatto che siano così volatili?
Tutte queste domande sono utili per raccogliere dei dati da mettere in prospettiva per cercare di avere un quadro più chiaro dell’impatto che il mondo della moda ha sul nostro pianeta. Perché tutti i materiali bio-based e riciclati del mondo e tutto il second hand che possiamo immaginare non servirà a molto se lo consumiamo a un ritmo incessante.
Il punto è infatti anche questo: la moda, facendo invecchiare velocemente i trend, instilla desideri sempre nuovi e quindi foraggia il consumo di abbigliamento con tutto quello che ne consegue a livello di sovrapproduzione.
Tendenze moda: da dove vengono?
Al termine forecasting forse siete abituati ad associare le previsioni metereologiche: ebbene, un servizio del genere, proprio come se fosse il meteo, esiste anche per quanto riguarda la moda. È un processo un po’ più complesso del semplice consultare una app chiaramente, ma fa capo a uno stesso principio: si raccolgono dati e informazioni per poter formulare delle proiezioni su qualcosa che succederà in un dato momento e in un tempo futuro.
Le agenzie di forecasting fanno questo: come prima cosa raccolgono informazioni tramite quelli che vengono chiamati cool hunters (una figura professionale i cui contorni hanno iniziato a delinearsi in maniera più netta verso l’inizio degli anni Novanta) che frequentano i luoghi più disparati del globo, scovano nuovi protagonisti digitali, individuano cambiamenti nei modelli di comportamento e nei gusti delle persone. Frequentano i gruppi sociali più vari, ma fanno anche moltissimo scouting a livello di materiali, forme e colori. Scandagliano i meeting point di sottoculture, esplorano tutti quei luoghi in cui c’è fermento e in cui insomma potrebbero prendere forma i trend del futuro in fatto di abbigliamento. Una volta che i vari cool hunter hanno relazionato e condiviso le loro osservazioni queste vengono analizzate da team che generalmente coinvolgono sia esperti di settore che psicologi e sociologi.
Essere sul pezzo per i brand è talmente importante che queste figure sono sempre più richieste, tanto che si stanno moltiplicando anche i percorsi di studi ad hoc nelle varie facoltà e scuole di moda. La rapidità con cui i marchi sono in grado di prevedere il sopraggiungere di una nuova tendenza gli può valere una sorta di posizione di leadership in quel determinato ambito – poniamo il caso che sia quello delle sneakers ad esempio – ma allo stesso tempo questa rincorsa continua fa sì che sugli schermi dei nostri telefoni, sulle affissioni e sulle pagine dei magazine arrivino sempre nuove cose da volere.
Il nostro cervello è programmato per essere attratto dalle novità e quanti più prodotti ci vengono proposti, più è probabile che il nostro sistema li individui come desiderabili. Perché se è vero che per le tendenze più consistenti si parla di durate non certo brevi – possono arrivare a influenzare il nostro immaginario per ben cinque anni – nuovi drop, pochi abiti o accessori di una collezione spesso limitata, arrivano nei negozi di continuo stimolando la nostra propensione all’acquisto.
Il processo di invecchiamento degli abiti
Pensateci bene, quanti sono i capi che avete indossato fino allo sfinimento e vi siete decisi a dismettere quando proprio non erano più presentabili? Probabilmente non molti. Questo succede perché il deterioramento dei nostri vestiti dipende molto di più da questioni che hanno a che fare con l’estetica che non con la loro effettiva durabilità.
Spesso preferiamo indossare qualcosa di non più perfetto dal punto di vista della fattura piuttosto che un capo palesemente demodé; infatti il 32 per cento degli italiani acquista vestiti con regolarità una o due volte al mese, secondo quanto emerso da un’indagine di Pulsee, brand digitale e green di luce e gas di Axpo Italia, in collaborazione con la società di ricerche di mercato NielsenIq. Non solo, il 43 per cento del campione– nello specifico, il 34,8 per cento degli uomini e il 52,5 per cento delle donne – afferma di aver più volte comprato abiti o accessori che poi non ha mai indossato.
Mediamente un cittadino europeo compra 26 chili di prodotti tessili ogni anno, a renderlo noto è un report pubblicato dal Parlamento europeo. Se facciamo un paragone con le abitudini di consumo negli anni Novanta emerge che ciascuna persona fa acquisti per il 40 per cento in più. Questo si traduce, nella sola Unione europea, in una produzione di 654 chili di CO2 equivalente, per persona, ogni anno.
Questo in parte avviene anche perché in definitiva compriamo cose che probabilmente non ci piacciono così tanto, ma sono considerate cool in un determinato momento storico e allora ci sembrano acquisti imprescindibili. Se poi però capita di non metterle in un primo momento, una volta tramontato l’hype sul quel determinato capo o quel determinato trend, non abbiamo più una ragione valida per indossarlo e quindi rimane nell’armadio.
La durabilità dei capi si è drasticamente accorciata, è calata del 36 per cento negli ultimi decenni e molti degli abiti che compriamo oggi hanno una vita inferiore ai 160 utilizzi. Questo, in ultima analisi, si traduce in una marea di rifiuti tessili. Dal 1960 al 2015 quelli prodotti in Italia sono aumentati dell’811 per cento stando al rapporto Italia 2020 di Eurispes. Nel solo 2015, l’ultimo anno preso in esame, sono finiti in discarica abiti per 1.630 tonnellate.
Tik tok e i creator che insegnano a riadattare gli abiti secondo gli ultimi trend
Quindi che fare? La soluzione più rapida è quella di fregarsene dei trend e costruirsi un proprio stile a prescindere da quelle che sono le mode del momento e investire in quei capi che generalmente vengono chiamati timeless, ovvero senza tempo, e che come tali non sono incasellabili con una chiara connotazione temporale. Si può poi costruire un proprio capsule wardrobe investendo su pochi pezzi di alta qualità facilmente abbinabili in modo da creare look sempre diversi, oppure si possono modificare gli abiti che già abbiamo riadattandoli in un’attività di upcycling secondo lo stile del momento.
https://vm.tiktok.com/ZMY4M6LS4/
Cercando su TikTok “Upcycling”, “Reworking old clothes”, “Upgrading my old clothes” si trovano una marea di profili di creator che riadattano qualunque cosa: dalla camicia a scacchi della nonna, ai jeans fino alle t-shirt per fare sport. Profili come Issy (sopra) realizzano video da 5 milioni di views a botta e, oltre ad essere ipnotici, danno qualche suggerimento valido e spesso anche fattibile per rimaneggiare qualcosa che non mettiamo più.