Per una pace verde: la transizione energetica vista da Foreign Affairs

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Finalmente sviluppo sostenibile e transizione energetica sono state elevate a questioni strategiche per la pace e la stabilità globali. L’analisi di Foreign Affairs.

Mi è capitato spesso di definire – qui, ad esempio – il movimento di lotta contro la crisi climatica come l’ariete, l’apripista per tutti quei movimenti che auspicano più libertà, diritti, uguaglianza e prosperità. Perché la lotta contro la crisi climatica racchiude in sé la scintilla in grado di far esplodere la voglia di costruire un mondo più equo, giusto, sicuro e soprattutto vivibile. Ed è proprio da questa tesi che parte la riflessione di un articolo consigliatissimo, pubblicato sull’edizione attualmente in edicola di Foreign Affairs, il famoso bimestrale di geopolitica. L’analisi si intitola Green Peace, pace verde, ed è stata realizzata da Meghan O’Sullivan e Jason Bordoff. Il sottotitolo è piuttosto esplicativo della tesi che gli autori vogliono sostenere: come la lotta contro i cambiamenti climatici può superare i contrasti geopolitici. Insomma, qui si fa sul serio. Finalmente si dice a chiare lettere che la crisi climatica è una questione geopolitica che va affrontata per risolvere mille altre questioni che oggi hanno portato il mondo in una situazione internazionale di policrisi, cioè una crisi che coinvolge più aspetti e questioni. E pure permanente.

Green Peace © Zoë van Dijk per Foreign Affairs
Green Peace © Zoë van Dijk per Foreign Affairs

Nella policrisi ci vuole più azione climatica, non meno

Se fino ad ora i leader di mezzo mondo hanno pensato che fosse superfluo parlare di transizione ecologica (e quindi energetica) in un contesto di guerra, di crisi umanitarie di vario livello, di insicurezza, di inflazione, di precarietà lavorativa, ora è tempo di cambiare prospettiva. Perché tutte queste “crisi” non devono portare a meno “ambizione” dal punto di vista climatico. Bensì, a un maggior coinvolgimento. Secondo O’Sullivan e Bordoff è proprio una mancata azione a essere concausa della situazione in cui ci troviamo: “Una transizione più veloce verso forme di energia pulita può dare nuovo stimolo alle economie, tenere a freno le spinte protezionistiche e calmare le tensioni tra superpotenze superando le forti ansie che ora guidano le richieste di un rallentamento” della transizione.

Un concetto sovversivo – nel senso che tende a rivoluzionare e a sconvolgere uno stato di cose esistente – perché smonta tutte le tesi che finora hanno tentato di proteggere lo status quo, le politiche business as usual che avrebbero dovuto evitare ulteriori scossoni sul fronte delle relazioni internazionali. Ma oltre che sovversiva, la richiesta di “più transizione” è dannatamente pragmatica. Questo perché, come sappiamo, il sistema energetico va a braccetto con la geopolitica e gli sforzi per modernizzarlo vanno ben oltre l’obiettivo di arginare i cambiamenti climatici.

Se i paesi, soprattutto quelli occidentali i cui governi fanno a gara nel riempirsi la bocca di parole come sovranismo, autonomia, protezionismo – in particolare delle proprie attività industriali –, comprendessero davvero e accettassero la sfida della transizione, probabilmente riuscirebbero a ridurre le disuguaglianze all’interno della loro popolazione, la stessa che dicono di voler proteggere da fantomatiche “invasioni”, stimolando i mercati attraverso una maggiore propensione all’esportazione di prodotti e riducendo la dipendenza dalle fabbriche cinesi. Al contrario, continua la coppia di autori, “fallire nella capacità di combinare gli obiettivi climatici con quelli geopolitici significherebbe farsi sfuggire un’opportunità di portata storica”.

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Un parco eolico sulle colline verdi © Unsplash

Ancor prima delle reti, ci vogliono politiche smart

E non finisce qui. Dar vita a politiche energetiche “intelligenti” vuol dire smettere di far ricadere sulle persone costi inutili e spesso eccessivi, frutto di una cattiva gestione che mette a repentaglio la stessa affidabilità del sistema. Chi oggi nega questa forma di sviluppo spesso usa lo spauracchio dei costi energetici elevati per attaccare la transizione, alimentando una forma di populismo (e di paura) fine a sé stessa.

Perché è proprio dalla collaborazione e da una forma di multilateralismo positiva e rassicurante che si può migliorare la competizione e soprattutto raggiungere obiettivi economici, scientifici e umani utili all’intera comunità internazionale. Come si segnala nell’articolo, “la globalizzazione sfrenata potrebbe essere arrivata al capolinea, ma l’integrazione economica è ancora possibile”. E rendere l’energia più accessibile e alla portata di tutte e tutti, soprattutto nei paesi del sud del mondo, può contribuire a ridurre le tensioni tra paesi industrializzati e resto del mondo.

Per raggiungere la pace verde, concludono O’Sullivan e Bordoff su Foreign Affairs, dobbiamo lavorare per una transizione energetica. Solo così possiamo prevenire o evitare ulteriori danni e disastri, ma soprattutto dar vita a una nuova visione di futuro, fatta di pace, prosperità e stabilità.

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