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193 euro circa, 23mila taka bangladesi, questa era la richiesta dei sindacati del settore pronto moda del Bangladesh per il nuovo salario minimo mensile che si sarebbe dovuto stabilire all’interno del Wage board, il comitato che ogni cinque anni riunisce a questo scopo sindacati, governo e imprese. Dopo un confronto tra le parti, il governo ha deciso infine per 106 euro, 12.500 taka, poco più della metà della richiesta (attualmente il salario minimo mensile stabilito nel 2018 è di 8mila taka, ovvero 68 euro).
Da settimane il Bangladesh è attraversato da scioperi e manifestazioni sindacali che chiedono con forza un adeguamento dignitoso dell’attuale salario minimo per gli operai delle fabbriche tessili e di abbigliamento. Le manifestazioni sono avvenute soprattutto nella capitale Dhaka e nel distretto industriale di Gazipur e la violenta repressione da parte della polizia ha portato ad almeno tre morti e innumerevoli feriti. È quello che denunciano i sindacati del Bangladesh e le maggiori ong internazionali che li sostengono come Clean clothes campaign – Campagna abiti puliti.
Il calcolo della cifra per il salario minimo in Bangladesh
Dal 2018 il salario minimo in Bangladesh non è mai stato adeguato né all’inflazione, né al generale aumento dei costi avvenuto dopo la Covid-19. La cifra richiesta dai sindacati, 193 euro, è stata calcolata da uno studio indipendente di BILS – Bangladesh institute for labour studies, che considera questa cifra il minimo per il mantenimento di una famiglia e alla copertura delle spese di base, come cibo, affitto e cure mediche.
“Non si tratta solo di una richiesta sacrosanta, ma di una richiesta giustificata anche dalla crescita del settore nell’ultimo anno: più 35 per cento per un totale di 47 miliardi di dollari di fatturato per il paese”, spiega Deborah Lucchetti, coordinatrice italiana di Campagna abiti puliti. Il Bangladesh è il secondo produttore al mondo di abbigliamento pronto moda dopo la Cina e conta circa 4,4 milioni di lavoratori per circa 3.500 fabbriche. Una di queste fu protagonista della tragedia del crollo del Rana Plaza del 2013, che dieci anni fa aprì una lunga discussione sulle condizioni di lavoro e di sicurezza degli operai in questo Paese.
Il conflitto di interessi al centro della discussione
Da allora la libertà sindacale ha subito continui attacchi e non viene nella pratica garantita, né nella maggior parte delle fabbriche, né per le strade, come dimostra la repressione delle ultime settimane che disincentiva fortemente i lavoratori a iscriversi a un’unione sindacale. In Bangladesh la maggior parte dei membri del Parlamento sono proprietari di fabbriche del pronto moda, “e questo porta a un’inevitabile collusione tra politica e imprenditoria, che impedisce un confronto oggettivo. Eppure, come abbiamo sottolineato nei nostri comunicati, la questione dei salari non andrebbe politicizzata. Le manifestazioni non erano promosse da nessun partito: parliamo di pura sopravvivenza dei lavoratori e delle loro famiglie”, continua Lucchetti, evidenziando l’aspetto della politicizzazione, particolarmente sentito perché a gennaio si terranno le prossime elezioni politiche.
Il mancato sostegno dei brand di moda
E i marchi che comprano questo abbigliamento cosa dicono? “Nulla, e questo è parte del problema”, continua Lucchetti, “abbiamo chiesto a tutti di esporsi, H&M, Asos, Primark, Zalando, Uniqlo, Marks & Spencer. Alcuni brand hanno rilasciato generiche dichiarazioni, solo Patagonia si è espresso chiaramente a favore della cifra di 23mila taka. Tuttavia, come diciamo da tempo, il loro impegno deve concretizzarsi anche nel modo in cui contrattano con le fabbriche, senza puntare continuamente al ribasso dei prezzi, perché questo è il nodo principale che stringe il collo dei lavoratori”.
Come ha infatti sottolineato anche Kalpona Akter, attivista ex operaia e presidente del Bangladesh center for workers solidarity, in un’intervista al quotidiano nazionale Daily Star, la pressione che subiscono i lavoratori è conseguenza diretta delle pressioni che subiscono le fabbriche da parte dei brand, che continuano a portare avanti pratiche di acquisto non eque, pretendendo prezzi sempre più bassi. “Per fare un esempio concreto”, prosegue Lucchetti, “se una t-shirt viene venduta a 5 euro in Europa, il costo del lavoro equivale a nemmeno 2 centesimi, ovvero al 3 per cento del prezzo finale. I lavoratori chiedevano di triplicare questa cifra, fino quindi a 6 centesimi. Non ci sono riusciti”.
Una paga dignitosa per tutti i lavoratori della filiera moda
La questione del salario dignitoso nella moda è al centro del dibattito da tempo, sia Clean clothes campaign che la ong Fashion revolution hanno lanciato nel 2022 la campagna “Good clothes fair pay”, per sensibilizzare sul tema i consumatori di tutto il mondo e chiedere una legislazione europea per garantire il pagamento di salari dignitosi alle lavoratrici e ai lavoratori delle filiere della moda. In questo caso, la campagna spiegava la differenza tra un salario minimo (minimum wage) e un salario dignitoso (living wage), ovvero uno stipendio che permetta a un lavoratore di mantenere sé e la propria famiglia, mandare i figli a scuola e coprire tutte le spese di base conducendo, appunto, una vita dignitosa e non sull’orlo della sopravvivenza.
Mentre i lavoratori del Bangladesh continuano a far sentire la propria voce manifestando, la questione rimane aperta e dovrebbe portare tutti a riflettere maggiormente sui costi nascosti dell’abbigliamento, non soltanto nel settore cosiddetto del fast fashion ma per tutti quei brand che producono con catene globali di fornitura e i cui capi di abbigliamento ritroviamo nei negozi delle nostre città.