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Degli stranieri residenti in Italia almeno la metà sono donne; nel 2021 sono state censite circa 2,6 milioni di donne con cittadinanza estera, un numero pari al 50,9% dell’intera popolazione straniera residente nel nostro paese. Sin dagli anni Settanta le donne hanno cominciato ad arrivare in Italia con in mente un progetto migratorio d’impronta emancipatoria. Ad oggi, tuttavia, il benessere e lo stato dei diritti delle donne straniere nel nostro paese sono gravemente compromessi, come illustrato dall’ultimo rapporto del Centro Studi e Ricerche Idos.
Per capire i diritti delle donne in Italia oggi, è necessario un approccio intersezionale, vale a dire dover considerare le molteplicità degli aspetti che fanno parte delle nostre identità e dei modi in cui questi si intrecciano creando svantaggi o privilegi. L’intersezionalità si basa sull’assunto che le discriminazioni per le donne non bianche, i soggetti lgbtqia+ e di classe svantaggiata si moltiplicano; sono state le attiviste afroamericane, ad affermare con forza che sono molteplici i sistemi egemonici da contrastare. Se da una parte gli studi sulle migrazioni continuano ad avere un approccio “gender blind”, dall’altra, lo stesso mondo del femminismo spesso trascura questo aspetto, lasciando la condizione delle donne straniere in un angolo, dove è difficile fare chiarezza. I diritti umani, così come li conosciamo oggi, sono stati concepiti come universali e complementari e sono tali solo se a goderne sono tutti.
L’accoglienza a misura d’uomo
Il primo degli ambiti in cui manca ancora un approccio di genere integrato è quello giuridico, dell’accoglienza, che anzi si scontra con le politiche migratorie europee, sempre più stringenti, oppositive e securitarie. Come scrive Francesca De Masi, vicepresidente della cooperativa sociale BeFree, nel suo contributo Le migrazioni femminini in Italia, percorsi di affermazione oltre le vulnerabilità, l’approccio di genere comporta la “profonda considerazione di tutte quelle variabili che pesano sulla vita delle donne in quanto tali, e che portano con sé storie di discriminazione, ruoli stereotipati, violenze, oppressione”. E nel caso delle donne migranti si tratta di “oppressioni molteplici e simultanee”. Il diritto internazionale, proprio perché orientato sempre di più verso lo human rights based approach, deve tener conto della situazione di estrema vulnerabilità che caratterizza strutturalmente la condizione femminile.
Anche il diritto internazionale dei rifugiati si è affermato nella Convenzione di Ginevra del 1951 sull’immagine del rifugiato uomo, non prendendo in considerazione le istanze delle donne migranti o trattando la questione di genere come “caso particolare”; furono i movimenti femministi degli anni ‘70 e ‘80 a scuotere la politica internazionale. Nel corso della conferenza per i diritti delle donne di Nairobi nel 1985, che decretò la nascita del femminismo globale, la voce delle attiviste si fece sentire manifestando la necessità di adeguare i programmi di soccorso, accoglienza e assistenza “ai bisogni specifici delle donne e dei bambini”, nonché la necessità di un’applicazione del diritto internazionale dei rifugiati “sulla base di uguaglianza tra tutti i rifugiati”; la politica, inoltre, fu messa davanti alla necessità di definire politiche per rispondere alle gravi difficoltà e discriminazioni multiple che le donne migranti incontrano nel percorso migratorio fino ai paesi di destinazione, tema ancora oggi aperto.
Nonostante lo sforzo femminista di inserirsi nel panorama internazionale, la strada è ancora in salita. La più recente decisione in materia di diritti delle donne e tutela contro la violenza sistemica è quella contenuta nella direttiva Ue approvata il 6 febbraio, che ha provocato numerosissime critiche da parte degli ambienti femministi per aver svuotato di significato il concetto di consenso e stupro. È, inoltre, e contrariamente all’entusiasmo generale dei vertici europei, l’esempio chiaro della mancanza di un approccio di genere intersezionale. Il provvedimento, infatti, esclude dalla tutela le donne migranti e privilegia ancora una volta l’approccio del controllo a quello della tutela. Secondo i documenti visionati dalla Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti privi di documenti (PICUM), l’accordo finale non garantisce che le donne migranti, sprovviste di documenti, possano sporgere denuncia contro gli abusi senza rischiare l’espulsione. Tale previsione è particolarmente significativa per l’Italia, poiché è spesso il paese di primo approdo della rotta mediterranea e balcanica, che si occupa di respingimenti o detenzioni amministrative.
“Questo è un chiaro messaggio a tutta l’Unione: prendiamo sul serio la violenza contro le donne”, ha dichiarato l’eurodeputata irlandese e correlatrice Frances Fitzgerald. La direttiva è nata con lo scopo di stabilire una serie di misure per tutelare le donne contro matrimoni forzati, le molestie sessiste in rete e le mutilazioni genitali. Evidentemente, non le donne straniere, che sono anche quelle maggiormente soggette a questo tipo di violenze. Anche se non esiste una stima affidabile del numero di donne senza documenti in Europa, secondo Picum sono decine di migliaia.
In particolare, l’accordo eliminerebbe un paragrafo dell’articolo 16, che era al centro della proposta iniziale della Commissione europea, per garantire che nessun dato personale sulle vittime di abusi, compreso lo status di residente, venisse condiviso dalla polizia con le autorità di frontiera. Ciò avrebbe protetto le donne sprovviste di documenti dal rischio di essere detenute e deportate a seguito della denuncia di abusi. È prevista, invece, una formula non vincolante che invita gli Stati membri a garantire che le vittime migranti “non siano scoraggiate dal denunciare e siano trattate in modo non discriminatorio”. Chi denuncerebbe violenze e abusi se rischiasse di essere rinchiusa ed espulsa invece di ricevere sostegno e protezione?, denuncia Louise Bonneau, advocacy officer di Picum. L’esclusione di un intero gruppo di donne dalla protezione e dalla giustizia è in chiara contraddizione con la Convenzione di Istanbul, alla quale l'Unione è vincolata dall’ottobre 2023, e impone ai suoi firmatari di garantire che tutte le donne siano trattate allo stesso modo, indipendentemente dal loro status di residente. Questo accordo contraddirebbe anche le stesse norme dell’UE sui diritti delle vittime (Direttiva sui diritti delle vittime) e sulla protezione dei dati (Regolamento generale sulla protezione dei dati), che prevedono entrambi diritti e tutele che si applicano a tutti senza discriminazioni.
Anche alla luce delle ultime riforme legislative, dal Patto europeo sulle migrazioni ai costanti tentativi di esternalizzazione delle frontiere anche da parte dell’Italia, è chiaro che per ridare vigore all’istituto della protezione internazionale appare imprescindibile ricentrare il discorso pubblico sull’esperienza - anche - delle donne straniere e sulla consapevolezza che ne deriva: non esiste un paese “sicuro” per le donne, e per questo vanno accolte e va loro garantita una tutela, applicando le convenzioni internazionali.
Le donne straniere doppiamente penalizzate sul lavoro
Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo sul Sole 24 Ore sullo stato di occupazione femminile, tasto sempre dolentissimo per la parità di genere in Italia, e sul giudizio stesso degli italiani. Il quadro è, senza troppe sorprese, allarmante e il giudizio complessivo sui tassi di occupazione, sull’accesso al lavoro, sul lavoro domestico sproporzionato e sulla conciliazione tra vita e lavoro, restituisce un bilancio negativo, soprattutto secondo le donne. L’Italia si conferma purtroppo uno dei paesi europei con un tasso di occupazione femminile più basso; la situazione delle donne straniere è ancora più drammatica.
Come racconta Idos, che monitora anche l’andamento del mercato del lavoro per le persone straniere in Italia, donne e uomini con background migratorio hanno maggiore difficoltà a trovare un’occupazione regolare e stabile. La differenza tra cittadini italiani e stranieri non è solo nella loro occupabilità, cioè la possibilità di trovare un’occupazione, ma si ingrandisce notevolmente se si parla di qualità del lavoro. Secondo l’Eurostat il tasso di sovraqualificazione in Italia raggiunge i 48 punti percentuali, secondo solo alla Grecia. Ciò significa che per una persona straniera sono spesso irrilevanti il percorso di studi, i desideri di realizzazione o le proprie inclinazioni. Circa il 48% dei cittadini stranieri è sovraqualificato per il proprio impiego. Le scelte politiche che ha fatto l’Italia in tema di immigrazione, secondo Idos, hanno innescato “una forte domanda negli strati più bassi della struttura occupazionale, secondo un processo che ha finito per livellare la forza lavoro estera verso il basso”.
Le donne straniere sono ancora più squalificate e svantaggiate. Mediamente nell’Unione europea tra uomini di cittadinanza extra Ue e autoctoni ci sono 16,3 punti percentuali di differenza, mentre nel caso della popolazione femminile si sale a 21,6: con tassi pari rispettivamente al 21,3% e al 42,9%. In Italia infatti è molto significativa l’incidenza delle straniere nei settori di cura e assistenza domestica, il 42,7% contro il 7,3% delle italiane. Il settore dell’assistenza domiciliare, che è quasi totalmente in mano ai privati, è considerato quello con il più alto tasso di irregolarità e, di conseguenza, di fortissima mancanza di tutele. Senza un contratto regolare non c’è un orario, uno stipendio congruo, la malattia o le ferie; e tutto si aggiunge, spesso, anche alla mancanza di un’abitazione propria. Altra conseguenza dell’essere spesso relegate ad ambiti poco qualificati è che le donne straniere percepiscono redditi inferiori. Secondo Idos, parliamo di oltre 300 euro in meno ogni mese (di reddito netto) rispetto alle italiane; in questa condizione di marcata inferiorità le donne straniere difficilmente usciranno dai cosiddetti “working poor”.
Le donne straniere non partecipano alla politica
Il filo conduttore delle discriminazioni subite dalle donne straniere in tantissimi ambiti è la loro invisibilità, la non partecipazione ai contesti pubblici, alla politica a livello locale e nazionale, alla scarsa attenzione data dai media. Essere escluse dalla vita in società significa non far sentire la propria voce; questa dell’esclusione, tuttavia, è una condizione a cui tantissime donne straniere sono obbligate dalla scarsa integrazione in Italia. Anche in ambito politico, il quadro di partenza, cioè delle donne italiane, non è confortante; nella classifica mondiale del divario di genere stilata ogni anno dal World Economic Forum, il Global Gender Gap Index report, l’Italia risulta 63esima su 146 Paesi presi in esame, le cose sono simili nella specifica classifica dedicata al political empowerment.
La partecipazione alla vita democratica è frenata innanzitutto dal diritto di voto, che si acquisisce solo con la cittadinanza - iter per cui ci possono volere anni - ed è precluso, ad esempio, a tutti i soggiornanti di lungo periodo. Se si parla invece di donne straniere in politica, basti sapere che nel 2022 c’era solo una donna di origine migrante nel Parlamento italiano (su 630 deputati e 315 senatori). Anche se non strettamente legato alla parità di genere, un esempio interessante di inclusione e integrazione è la creazione del Consiglio dei migranti di Napoli, composto e guidato da persone migranti. Il suo compito principale è quello di presentare proposte al Consiglio comunale per migliorare le condizioni di vita dei migranti e influenzare le politiche migratorie. L’idea è quella di colmare il vuoto di tutela che esiste a livello giuridico e sociale e vedere i migranti come attori diretti del cambiamento, attraverso processi di partecipazione e cittadinanza attiva.
Emerge come lo stato di salute dell’integrazione soprattutto in Italia non sia tollerabile e come le donne straniere vivano un doppio svantaggio, per essere donne e per essere straniere. Non è solo la politica a doversi fare carico dell’enorme divario di genere subito dalle donne migranti; non saranno solo le - auspicabili - politiche migratorie più accoglienti e giuste a fare l’integrazione. È utile ripensare anche la partecipazione attiva delle donne straniere, a tutti i livelli, a partire dalle battaglie femministe, che potranno dirsi davvero efficaci solo quando saranno di tutte.
Immagine in anteprima via openmigration.org