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La tribù Osage dell’Oklahoma ha ottenuto una vittoria storica per i diritti degli indigeni contro il gigante italiano dell’energia Enel, accusato di aver sfruttato la loro terra senza permesso nella corsa verso la transizione energetica. Dopo una lunga battaglia giudiziaria, il tribunale ha sancito che Enel dovrà pagare quasi 260 milioni di dollari per rimuovere 84 turbine eoliche dalle terre della Nazione Osage. Si tratta di una delle prime sentenze negli Stati Uniti a richiedere la dismissione di un progetto eolico in funzione; un processo successivo stabilirà quanto la società dovrà pagare come risarcimento.
«Enel, ti costerà una fortuna non averci chiesto un permesso. Era tutto quello che dovevi fare», ha detto al Financial times il presidente dell’Osage Minerals Council, Everett Waller, la cui tribù era stata massacrata nel 1900. A riprendere la loro storia è anche il film di Martin Scorsese, Killers of the Flower Moon, candidato all’Oscar. La pellicola racconta come il popolo Osage si fosse inizialmente arricchito con la scoperta del petrolio sulla sua terra, ma avesse finito per essere sfruttato e decimato dagli uomini bianchi che cercavano di impadronirsi dell’oro nero. Waller ha aggiunto che la Nazione Osage non è contro l’energia pulita, ma ha insistito sul fatto che le aziende si devono impegnare in una corretta consultazione previa. La vittoria degli Osage giunge mentre l’espansione della cosiddetta “energia pulita” negli Stati Uniti si fa sempre più rapida, arrivando a invadere le terre tribali e sollevando interrogativi sul fatto che la transizione verde rischia di infliggere gli stessi danni dell’industria dei combustibili fossili.
Gli attivisti per i diritti umani hanno infatti documentato numerosi esempi di abusi da parte di imprese del fossile che hanno violato i diritti delle terre indigene negli USA – e ovunque – per più di un secolo. Il rischio ora è che, nel nome della transizione energetica e dell’energia pulita, si ricommettano gli stessi abusi. Un rapporto annuale di benchmark globale dell’organizzazione no-profit Business and Human Rights Resource Centre ha esaminato 28 società pubbliche di energia eolica e solare e ha rilevato che praticamente nessuna di esse menziona i diritti delle popolazioni indigene né si assume impegni relativi alla Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, un quadro non vincolante stabilito nel 2007. L’ottenimento del consenso informato da parte delle popolazioni indigene in merito all’uso delle loro terre e delle loro risorse è un diritto sancito dalla Dichiarazione.
Un portavoce dell’Enel ha dichiarato che l’azienda «non è d’accordo» con la recente decisione del tribunale e farà ricorso. La società continuerà in «buona fede» a gestire il progetto eolico fino a quando non sarà determinato un esito finale e non ha mai inteso imporsi sulla sovranità della nazione Osage, ha dichiarato il portavoce. L’Inflation Reduction Act (IRA), promosso dal presidente Joe Biden ed entrato in vigore nell’agosto del 2022, contiene una serie di incentivi per gli investimenti delle imprese statunitensi nelle tecnologie energetiche verdi. L’IRA spinge, inoltre, alla partecipazione delle nazioni indigene al processo di transizione energetica, e un motivo c’è: secondo un recente rapporto MSCI, la stragrande maggioranza dei metalli cruciali per la transizione energetica, tra cui rame e litio, si trova entro 35 miglia dalle riserve dei nativi americani. Anche il National Renewable Energy Laboratory ha rilevato che le terre tribali ospitano quasi il 7% del potenziale di energia rinnovabile del Paese. Forse, da questo nasce l’interesse degli USA a coinvolgere le comunità indigene all’economia dell’energia green.
Numerosi nativi si sono lasciati convincere e puntano agli incentivi del governo e alle compensazioni offerte dalle aziende che mirano ad estrarre materie rare dalle loro terre. La questione di come raggiungere gli obiettivi sul clima, sulla sicurezza energetica e sullo sviluppo economico preservando allo stesso tempo le istituzioni e le terre tribali, ha diviso le comunità indigene. In Arizona, ad esempio, la miniera Resolution Copper di Rio Tinto e BHP è in attesa dell’approvazione federale da più di un decennio, ritardata da una controversia con i membri della tribù Apache San Carlos, in disaccordo tra di loro. Molti dei membri della tribù sostengono che il progetto distruggerà Oak Flat, un sito sacro inserito nel Registro Nazionale dei Luoghi Storici, e che viola i loro diritti religiosi. Nel gennaio 2021, l’organizzazione comunitaria senza scopo di lucro Apache Stronghold ha intentato una causa chiedendo un’ingiunzione preliminare per fermare il progetto. Lo scorso marzo, il gruppo ha chiesto a un’intera giuria della Corte d’Appello del Nono Circuito degli Stati Uniti di impedire il trasferimento del terreno alla Resolution Copper. Alcuni membri della tribù hanno sostenuto il progetto e le opportunità economiche che porta; “molte decine di membri” della tribù Apache di San Carlos infatti erano stati comprati dall’azienda e lavoravano per la Resolution Copper. Se sviluppata, la Resolution Copper sarà la più grande miniera di rame del Nord America, che coprirà un quarto della domanda statunitense di rame. Il prezzo pagato sarà la distruzione delle terre ancestrali.
Intanto, si moltiplicano le cause legali condotte da gruppi indigeni contro progetti che vanno dai parchi eolici ai cavi di trasmissioni, fino alle miniere di litio, spinti dal timore che lo sviluppo green si traduca in una perdita di territorio indiano. «Per qualunque altra controversia che riguarda il Paese indiano, ora si ha un caso su cui si può fare leva», ha detto Waller, riferendosi alla storica vittoria contro Enel. Un precedente giuridico per combattere le imprese. Almeno in Tribunale.
[di Monica Cillerai]