Emergenza COVID-19: nei campi profughi in Grecia una possibile catastrofe annunciata

ValigiaBlu

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Atene, Grecia. Primo caso registrato di COVID-19 tra i migranti. È una donna diciannovenne risultata positiva al test l'ultima settimana di marzo, quando è stata ricoverata in ospedale per dare alla luce il suo bambino.

La giovane mamma vive nel campo profughi di Ritsona, sulla terraferma, situato a circa 70 chilometri a nord di Atene, che ospita 2.300 persone (di cui 252 minori non accompagnati) e che è stato messo in quarantena giovedì scorso per almeno due settimane, dopo l'esito positivo dei risultati del test a cui sono stati sottoposti 20 migranti asintomatici (diventati poi 23).

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I funzionari sanitari stanno indagando sulla fonte dell'infezione e testando molti residenti del campo per stabilire quanti abbiano contratto il virus.

Il ministero della Migrazione greco ha annunciato che gli spostamenti saranno fortemente limitati e monitorati dalla polizia.

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L'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), che ha assicurato la permanenza a Ritsona durante la quarantena, già da tempo stava cercando di proteggere il sito dall'esplosione di un focolaio.

«Tutti sono a rischio in Grecia. I migranti e i rifugiati sono esposti al virus tanto quanto la comunità greca», ha dichiarato Gianluca Rocco, capo missione dell'IOM in Grecia.

«È fondamentale che a tutti, compresi migranti e rifugiati sulla terraferma e sulle isole, sia garantito pari accesso ai servizi sanitari, compresa la prevenzione, i test e le cure, soprattutto in tempi come questi», ha proseguito Rocco.

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«L'inclusione immediata di tutti i migranti nella risposta nazionale a COVID-19 non è solo un intervento umanitario, ma un provvedimento essenziale per le politiche della sanità pubblica in Grecia».

È di domenica la notizia di un secondo campo profughi messo in quarantena per quindici giorni dopo che un uomo di 53 anni è risultato positivo all'esame del tampone. Si tratta del campo di Malakasa situato 40 chilometri a nord-est di Atene.

Anche per questa struttura è previsto, secondo quanto riferito dal ministero della Migrazione, un aumento delle forze di polizia per vigilare sugli spostamenti.

Quello di Malakasa è un campo "aperto", in cui i migranti possono entrare e uscire senza limitazioni e che ospita circa 2.500 persone non tutte registrate, come racconta Mihalis Hassiotis, un consigliere comunale di Oropos, la città dove il centro ha sede.

Accanto c'è una struttura "chiusa"- in cui sono reclusi circa 1.300 migranti arrivati dopo l'1 marzo - che ha iniziato a operare quando la Grecia ha bloccato i confini in risposta all'apertura delle frontiere della Turchia. Queste persone, detenute a tutti gli effetti - come riportato dal quotidiano Kathimerini - non hanno diritto all'asilo a causa della sospensione delle domande. Vivono in grandi tende che ospitano 25 persone ciascuna.

Arrivo di alcune famiglie nel campo detentivo di Malakasa via Human Right Watch

La situazione precaria degli ultimi arrivati è stata denunciata il 31 marzo da Human Rights Watch secondo cui le autorità greche stanno detenendo arbitrariamente, in due diverse strutture, quasi 2.000 persone in condizioni inaccettabili, negando loro il diritto alla presentazione delle domande di asilo. Chi è giunto in Grecia dopo l'1 marzo, inclusi bambini, persone con disabilità, anziani e donne in gravidanza, sarebbe stato posto in quarantena a causa del COVID-19, ma la realtà è ben diversa. I rifugiati hanno affermato - come racconta il Guardian - di essere stati costretti a firmare un ordine di espulsione in lingua greca nonostante non fossero in grado di capirlo, in cui si dichiarava che avrebbero dovuto essere rimpatriati perché entrati illegalmente in Grecia.

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Il 26 marzo il parlamento greco ha ratificato un decreto del governo dell'1 marzo 2020 con cui ha sospeso per 30 giorni le richieste di asilo di chi è entrato irregolarmente nel paese. La decisione dell'1 marzo, adottata prima che venisse disposta qualsiasi misura in risposta all'epidemia di COVID-19, prevede che i nuovi arrivi siano immediatamente espulsi "nei loro paesi di origine, dove possibile" o nei paesi di transito, come la Turchia, senza neanche procedere alla registrazione. Il decreto, quindi, non fa alcun riferimento alla prevenzione dell'infezione da nuovo coronavirus, ma è piuttosto una reazione all'annuncio della Turchia di apertura delle frontiere ai migranti e ai richiedenti asilo che vogliono raggiungere i paesi europei.

Di fatto, però, espulsioni non ce ne sono state perché la Turchia ha rifiutato di accettare rimpatri. A seguito dell'adozione del provvedimento, invece, le autorità greche hanno fermato almeno 1.974 persone arrivate in Grecia dall'1 marzo trasferendole in due centri di detenzione allestiti nei pressi della città di Serres, a 350 chilometri a nord di Atene, e in un terreno di proprietà militare fuori dalla città di Malakasa.

«Se il governo è seriamente intenzionato a prevenire la trasmissione e la malattia di COVID-19 tra migranti e richiedenti asilo, deve aumentare i test, fornire più tende, offrire alle persone servizi igienici, acqua e sapone sufficienti e mettere in atto interventi di prevenzione», ha dichiarato Belkis Wille, ricercatrice senior di Crisi e Conflitto di Human Rights Watch. «Obbligare le persone, alcune delle quali ad alto rischio di malattie gravi o di morire, a vivere in condizioni di sporcizia e poco igieniche, tutte assieme in spazi ristretti, è la chiave per diffondere il virus, per non parlare del degrado e delle condizioni disumane».

I sindacati del personale di polizia di Atene, dell'Attica nord-orientale e dell'Attica occidentale hanno dichiarato, in un comunicato del 26 marzo, che le misure igieniche a Malakasa sono "inesistenti" aggiungendo, relativamente al COVID-19, che è "matematicamente certo che produrrà una bomba che lentamente esploderà a causa della mancanza di protezioni sanitarie di base (servizi igienici, pulizia, mascherine, guanti, numero di persone residenti nelle tende)".

Le condizioni nel sito di Serres, dove le tende sono raggruppate all'interno di un recinto sul letto di un fiume prosciugato, sono persino peggiori di quelle di Malakasa, raccontano Katy Fallon, Bashar Deeb e Daniel Howden in un articolo del Guardian. Le persone trattenute affermano di non avere elettricità per caricare il cellulare.

Spyros Leonidas, sindaco del villaggio più vicino, Promaxonas, ha dichiarato che il campo è "inadatto per gli animali, figurarsi per le persone". «Ci sono neonati e donne incinte. E non c'è acqua calda», ha detto.

In un'intervista rilasciata dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis a Christiane Amanpour della CNN , il capo del governo greco ha chiarito che la sospensione delle richieste di asilo era temporanea (a causa dell'apertura delle frontiere turche) e che dall'1 aprile tutto sarebbe ritornato come prima.

«È mio dovere, e l'ho detto molto chiaramente, proteggere i miei confini. E questo è esattamente ciò che ho fatto. La Grecia o l'Unione europea non saranno ricattate dalla Turchia per questa questione. Per cui abbiamo chiarito che si trattava di una misura temporanea. È scaduta oggi (1 aprile), quindi mi aspetto un pieno ritorno alla normalità per quanto concerne le domande di asilo. Abbiamo modificato la procedura. Vogliamo semplificare la domanda di asilo e renderla molto più rapida. Le persone a cui verrà concesso avranno pieno diritto, se scelgono di farlo, di rimanere in Grecia e noi li accoglieremo. Quelle a cui non verrà offerta protezione internazionale dovranno tornare in Turchia o nei propri paesi di origine» ha dichiarato ad Amanpour.

Ma è da settimane che ONG (tra cui Medici Senza Frontiere), medici e accademici chiedono di evacuare i campi profughi greci a causa della pandemia di nuovo coronavirus che potrebbe provocare conseguenze devastanti.

L'Unione europea è stata, infatti, esortata da più parti a trasferire i richiedenti asilo dalle strutture sovraffollate delle isole greche per cercare di salvare vite umane.

Anche l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ha chiesto l'evacuazione dei richiedenti asilo che popolano i campi profughi delle isole elleniche.

In un'intervista rilasciata a Deutsche Welle Turkish, Boris Cheshirkov, rappresentante dell'UNHCR in Grecia, ha posto l'attenzione sugli spazi angusti dei campi e gli scarsi servizi igienico-sanitari.

Cheshirkov ha dichiarato che l'UNHCR ha offerto ai rifugiati un aiuto economico per permettere loro di acquistare disinfettanti e alle amministrazioni dei centri sostegno affinché sia garantita l'igiene in caso di epidemia.

Il 23 marzo la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) del Parlamento europeo ha scritto al Commissario europeo per la gestione delle crisi Janez Lenarčič per chiedere l'evacuazione delle 42.000 persone che abitano nei campi - e che già vivono in una situazione precaria - come misura "preventiva urgente" per evitare "molti decessi" a causa del nuovo coronavirus.

“Non vi è alcuna possibilità di isolamento o di distanziamento sociale, né è possibile garantire condizioni igieniche adeguate”, si legge nella lettera. “Ci sono solo sei posti nei reparti di terapia intensiva sull'isola di Lesbo e sulle isole non sono attualmente disponibili le attrezzature sanitarie necessarie”, ha aggiunto la Commissione che il 31 marzo è ritornata nuovamente sulla questione sottolineando come l'attuale pandemia sia una prova del fatto che nessun paese può affrontare da solo certe sfide e chiedendo chiarimenti sulla tempistica riguardante il trasferimento di 1.600 minori non accompagnati in otto paesi dell'Unione europea che si sono resi disponibili all'accoglienza.

Anche Mitsotakis ha esortato l'Unione europea a fornire maggiore assistenza per tenere il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 lontano dai campi profughi delle isole.

«Le condizioni sono tutt'altro che ideali», ha detto Mitsotakis. «Ma devo anche sottolineare che la Grecia sta affrontando questo problema fondamentalmente da sola. Non abbiamo ricevuto dall'Unione europea il sostegno che volevamo».

In un'intervista rilasciata giovedì scorso a Deutsche Welle la Commissaria europea per gli affari interni e le migrazioni, Ylva Johansson, ha dichiarato che l'Unione europea deve fare di tutto per evitare uno scoppio della pandemia nei campi profughi con un piano di emergenza preparato di concerto con le autorità greche che preveda l'evacuazione dei soggetti più vulnerabili che devono essere messi al sicuro in camere d'albergo o in appartamenti, l'invio di attrezzature mediche e di personale, il trasferimento di minori non accompagnati (non prima di essere sottoposti al tampone) negli otto Stati europei (Croazia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Portogallo) che hanno espresso disponibilità, la collaborazione di IOM e UNHCR.

«È compito di tutti mostrare solidarietà concreta nei confronti della Grecia e dei migranti», ha aggiunto Johannson che poco prima, durante un collegamento video con il Parlamento europeo, aveva descritto l'epidemia di Ritsona come un "segnale di allarme".

In base ai dati raccolti dall'IOM attualmente la Grecia ospita circa 100.000 richiedenti asilo, di cui 40.000 nei campi profughi situati su cinque isole del mare Egeo.

Konstantinos Moutzouris, governatore delle isole del mar Egeo settentrionale, ha dichiarato - come riportato da Deutsche Welle - che la "rimozione immediata" dei residenti nei campi è indispensabile per evitare la potenziale diffusione del virus, ma il governo di Atene ha escluso il trasferimento di migranti sulla terraferma greca.

La Grecia, che ha decretato la quarantena forzata generale a partire da lunedì 23 marzo, ha registrato (alla data del 5 aprile 2020) 1.735 casi di infezione e 73 morti per COVID-19.

Kayvan Bozorgmehr, medico e professore dell'Istituto di Salute Pubblica dell'Università di Bielefeld in Germania, ha dichiarato ad Al Jazeera che, a causa delle terribili condizioni in cui versano, i campi profughi greci rappresentano potenziali focolai per la diffusione del virus.

«I rifugiati nei campi sono esposti ad alto rischio di contrarre malattie infettive a causa del sovraffollamento, unito a scarsa igiene e a servizi igienico-sanitari precari», ha aggiunto Bozorgmehr, che è tra gli accademici che hanno chiesto in un appello l'evacuazione di Moria, il campo profughi dell'isola di Lesbo con una capacità di accoglienza di 2.200 posti che attualmente ospita circa 20.000 migranti.

«È altamente probabile che i rifugiati possano contrarre il virus nelle comunità ospitanti o negli ospedali. Una diffusione incontrollata in contesti come i campi profughi, tipo quelli delle isole greche, può provocare un disastro per la salute pubblica poiché le misure di distanziamento sociale e la quarantena sono impraticabili in quegli scenari».

Il primo caso di COVID-19 sulle isole è stato registrato a Lesbo all'inizio del mese di marzo quando una donna greca di Plomari è risultata positiva.

Dal 16 marzo a nessun visitatore, inclusi membri di ONG e agenzie, è consentito l'accesso nei centri di accoglienza delle isole greche. Il provvedimento ha sancito la sospensione di tutte le attività e la chiusura di strutture speciali come scuole, biblioteche e aree adibite all'esercizio fisico e il controllo medico dei nuovi arrivi che in caso di positività saranno posti in quarantena.

Per chiedere l'immediata evacuazione del campo profughi più grande d'Europa e scongiurare il rischio di diffusione del nuovo coronavirus circa 6.000 medici in tutta Europa hanno aderito alla campagna #SOSMoria.

Nell'appello che hanno sottoscritto si legge: “Se l'Europa distoglie lo sguardo adesso, questa situazione potrebbe degenerare in un disastro sanitario e ciò rappresenterebbe una grave violazione delle norme e dei valori dell'assistenza sanitaria europea. È nostro dovere impedire che ciò accada. Per i rifugiati, per il popolo greco, che è stato nel limbo per anni, e per l'Europa. Come medici abbiamo prestato giuramento promettendo di fornire assistenza medica a tutte le persone, indipendentemente dalla loro storia personale. Come medici europei siamo obbligati a fare tutto il possibile per prevenire questa catastrofe”.

Il 24 marzo ventiquattro organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno chiesto al governo greco di ridurre immediatamente la congestione di migranti e richiedenti asilo nei centri di accoglienza nelle isole dell’Egeo per evitare una crisi pandemica.

“Migliaia di persone, tra cui anziani, malati cronici, bambini e minori non accompagnati, donne incinte, neo-mamme e disabili, sono intrappolate sulle isole greche in condizioni deplorevoli e di sovraffollamento estremamente pericolose. Costringere i richiedenti asilo a rimanere in una situazione che viola i loro diritti umani e che mette in pericolo la loro salute, il loro benessere e la loro dignità non può essere giustificato da alcuna ragione sanitaria”, si legge nella richiesta.

“Alla data del 22 marzo, la popolazione degli hotspot di Lesbo, Chio, Samo, Kos e Leros superava di quasi 31.400 unità la capacità di accoglienza prevista, con 37.427 persone presenti in strutture che ne possono ospitare 6.095. Le condizioni nei centri non possono essere definite adatte a una vita dignitosa e umana. L'accesso estremamente limitato all'acqua corrente, ai servizi igienici e alle docce, nonché le lunghe file d'attesa per ore per la distribuzione del cibo e per l'accesso al personale medico e infermieristico insufficiente, rendono impossibile rispettare le linee guida per la protezione dal nuovo coronavirus, esponendo le persone a un rischio significativamente maggiore rispetto alla minaccia crescente della trasmissione di COVID-19”, proseguono le ONG.

Al governo greco viene chiesto di adottare misure adeguate per prevenire un focolaio e di preparare un piano da attuare immediatamente quando sarà individuato il primo caso di COVID-19 in un centro di accoglienza. Se dovesse scoppiare un focolaio, la quarantena intrappolerebbe decine di migliaia di persone sane costrette a vivere con persone infette, senza poter contare su una risposta medica adeguata.

Ma sarebbe ipotizzabile riuscire a mantenere la distanza sociale in un centro di rifugiati sovraccarico come Moria dove la situazione sanitaria era grave già prima che il nuovo coronavirus arrivasse in Grecia? In un contesto del genere possono essere rispettate le misure raccomandate per prevenirne la diffusione tra cui lavarsi le mani regolarmente quando non ci sono abbastanza acqua e sapone?

Deutsche Welle lo ha chiesto all'esperto di migrazione Gerald Knaus, cofondatore del think tank European Stability Initiative nonché artefice dell'accordo sui rifugiati siglato da Unione europea e Turchia nel marzo 2016. Per Knaus la crisi umanitaria si può ancora prevenire ma bisogna intervenire immediatamente perché nei centri di accoglienza le persone non hanno la possibilità di mantenere la distanza sociale, perché non possono lavarsi le mani e per il numero esiguo di posti letto in terapia intensiva.

La necessità di agire subito - spiega Knaus - non è solo nell'interesse dei rifugiati ma della Grecia e dell'intera Unione europea. Il primo passo da compiere è una presa di posizione da parte della Grecia nei confronti dei partner europei. L'immobilismo può produrre solo una crisi devastante per tutti.

Poiché certamente nei prossimi mesi nessun migrante rientrerà in Turchia dalle isole, a causa della chiusura dei confini, Knaus individua una possibile soluzione nel trasferimento di 35.000 rifugiati dalle isole alla terraferma, prevedendo 15.000 posti letto in tendopoli temporanee che potrebbero essere allestite dall'IOM, altri 10.000 letti negli alberghi greci attualmente vuoti, mentre altre 10.000 persone potrebbero essere ospitate da paesi, come la Germania, in centri che già accolgono chi è in possesso dello status di rifugiato. Una decisione del genere invierebbe un segnale forte alla popolazione greca che non si sentirebbe più isolata nella gestione di un'emergenza ormai diventata permanente, creando un tipo di solidarietà europea che sarebbe ricordata a distanza di decenni.

Lo stratega dell'accordo firmato nel 2016 tra Unione europea e Turchia ritiene che la sua creatura ormai non esista più. Se da un lato è convinto che abbia funzionato per quattro anni, avvantaggiando i siriani in Turchia e riducendo drasticamente il numero di arrivi e di morti, dall'altro pensa che non sia stato efficace per le isole greche.

Quando alla fine di febbraio, Ankara è venuta meno al proprio impegno aprendo le frontiere turche al confine con la Grecia - a seguito dell'uccisione di 36 soldati turchi in un bombardamento a sud di Idlib, in Siria, e dopo aver accusato l'Unione europea di non aver rispettato le promesse economiche fatte e del mancato sostegno alle operazioni militari in Siria - permettendo ai migranti di avvicinarsi alla frontiera terrestre ellenica, l'accordo del 2016 è definitivamente morto.

Per Knaus se l'Unione europea desidera rinnovare la cooperazione con la Turchia è necessario un nuovo impegno reciproco, una nuova dichiarazione tra le parti. Ma nonostante il dialogo sia stato avviato sono due attualmente gli ostacoli più grandi: un'inadeguata proposta economica della Commissione europea e la scarsa concretezza della Turchia che vuole risolvere rapidamente il problema in un momento in cui l'Unione europea si trova a gestire una delle crisi più profonde della sua storia.

foto anteprima EPA/ORESTIS PANAGIOTOU via InfoMigrants

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