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Nell’agenda politica italiana torna la questione migranti. Torna semplicemente perché nelle ultime ore a Lampedusa sono ricominciati gli sbarchi. E con questi i “non li vogliamo”, “stiano a casa loro”, “l’Italia non può farsi carico del problema, intervenga l’Europa”. Sono persone quelle di cui si parla, e su cui si litiga per “sbarazzarsene”. Il fatto è che ci sono vite umane che finiscono per diventare numeri. Chi mai si ricorderà il nome delle migliaia di persone affidate alle onde del Mediterraneo e alla loro buona (o spesso cattiva) sorte.
Tutta la nostra indignazione non serve a cambiare il percorso che ha consentito la sospensione sistematica dei diritti, la spersonalizzazione di chi vive certe tragedie, il disprezzo per i bisogni altrui, l’imbarbarimento di società e governi. Sì, governi, perché se da anni si continua a fare la conta dei morti come se si trattasse di una cosa ormai normale, vuol dire che dall’emergenza si è passati a un fenomeno sistematico, strutturale.
Ecco, la morte per emigrazione è una delle malattie contemporanee. Come affrontarla, o meglio ancora come guarirla non richiede indignazione - seppure tale sentimento sia utile a prendere le distanze dai “colpevoli”, liberarsi di un peso, che in realtà ci vede in qualche modo tutti responsabili. O almeno parte in causa. Nei nostri privilegi, nella nostra inazione, nella nostra inerzia.
Quello che decide la vita di milioni di persone si chiama potere. Esercitato con le leggi, le costrizioni, il denaro, il ruolo istituzionale, con accordi che passano sopra le teste dei cittadini. E che si concentra in un oggetto, simbolo del nostro posto nel mondo: il passaporto.
Quante volte avete incrociato un africano con il naso in su ad ammirare la cappella Sistina? Quante volte qualcuno vi ha presentato un amico africano in visita in Italia? Quante volte ne avete incontrato uno in vacanza nel nostro paese? La risposta è “quasi mai”. E non perché gli africani siano dei sedentari (è grazie ai lunghi cammini dell’homo sapiens africano che sono stati “colonizzati” tutti gli altri continenti). E non perché non abbiano voglia di conoscere il mondo e le sue bellezze. E neanche perché siano tutti poveri in canna e non in grado di pagarsi un viaggio aereo – andata e ritorno, naturalmente – e persino il soggiorno.
La ragione è un’altra. La ragione sta nella difficoltà di ottenere un passaporto (spesso devi essere disposto ad allungare una mazzetta ai funzionari di turno). Nella difficoltà delle lunghe ore di fila (moltiplicate per giorni) dinanzi al Consolato americano o dei paesi europei per ottenere un visto. Nel produrre documenti, assicurazioni e garanzie bancarie per fare domanda per quel visto che spesso poi non verrà rilasciato. E bisognerebbe assistere alle vessazioni ai posti di controllo a cui spesso sono sottoposti i cittadini africani in partenza dagli aeroporti “di casa loro”. Anche se hanno tutti i documenti in regola. O quando arrivano negli scali europei. Quasi sempre fermati e ispezionati. Da una parte sono i loro stessi concittadini a rendere le partenze regolari difficili – una sorta di pegno per essere quelli fortunati. Dall’altra la convinzione che deve esserci qualcosa di sbagliato se queste persone sono arrivate con un volo aereo. Insomma, un cittadino africano deve essere un clandestino. Giudicare la propria libertà sulla base di questo documento è un ottimo esercizio per capire come il mondo si divida in due categorie: i privilegiati e i controllati.
Ma andiamo con ordine. A porre confini e barriere utili a esercitare il potere e lo sfruttamento dei territori africani cominciò la Conferenza di Berlino (1884-1885) che non solo sancì il diritto di Leopoldo II re del Belgio di depredare quello che all’epoca (e in modo beffardo) era stato battezzato Stato Libero del Congo, ma fissò su carta i confini di manovra delle potenze straniere – in particolar modo, oltre il Belgio, la Francia, il Regno Unito e la Germania di Bismarck – e aprì la strada alla colonizzazione e a quella che sarebbe stata definita “Scramble for Africa” ovvero la spartizione del continente. Una spartizione che mirava a utilizzarne le risorse e che poi è diventata controllo politico, militare, economico. Controllo dei suoi confini. Insomma, abolita la schiavitù e la tratta atlantica ora tutto si giocava sull’immenso continente, diviso in “porzioni” su ognuna delle quali spiccava una bandiera straniera.
Oggi, il controllo (e il potere) si esercita in modo più subdolo. Ed è paradossalmente negli anni delle indipendenze che i confini tra gli Stati africani cominciavano a essere blindati e si iniziava a usare termini come “irregolare”, “illegale”, “sans-papiers”. Non è un caso che il Passport Index suddivida i passaporti nel mondo (dunque il “valore” della propria cittadinanza) in most powerful e least powerful. E stare in una parte anziché nell’altra rientra tra le categorie del white privilege.
Nella “classifica” 2021 i cittadini tedeschi risultano i più fortunati. Possono viaggiare in 99 paesi senza bisogno di un visto e ottenerlo all’arrivo in 36. Visa free per l’Italia in 98 paesi, 35 all’arrivo e visto richiesto in 65 paesi. E i cittadini africani, quanta libertà di movimento hanno? Nel Passaport Index bisogna arrivare al 90° posto per trovare un paese africano, ma si tratta delle Seychelles (PIL pro capite superiore alla media di qualsiasi paese africano e noto paradiso fiscale). Così pure le Mauritius (85°), anch’esso apprezzato da chi cerca “sconti” dal fisco. Per il resto, le posizioni più basse, se le contendono paesi asiatici, dell’America Latina, dell’est europeo. E naturalmente africani.
Con un passaporto gambiano o rwandese sono 139 i paesi dove occorre chiedere il visto per poterci entrare, 144 per il Senegal e Burkina Faso e ancora, proseguendo a random, se sei maliano puoi entrare solo in 24 paesi senza visto, ma per altri 150 il visto è indispensabile, i congolesi (della RDC, quella che “apparteneva” a Leopoldo II) hanno visa free solo in 12 paesi, eritrei e sudanesi solo in 9. E attenzione, nei casi dei paesi africani la possibilità di viaggiare senza visto riguarda solo alcuni paesi all’interno delle regioni del continente, per esempio quelli aderenti all’ECOWAS e all’EAC.
Quella dei visti, come si sa, è una politica basata su accordi, di solito bilaterali, sulla base di opportunità economiche, commerciali, diplomatiche. Nessuno però che avvantaggi i cittadini africani, e questa mappa sulla policy dei visti nell’area Schengen, parla chiaro.
Meno chiari sono i motivi di quelle che ci sembrano incongruenze. Per esempio: perché un cittadino italiano che vorrebbe andare in Senegal per turismo non ha bisogno di visto se la sua permanenza è inferiore ai 90 giorni, ma per un senegalese che vorrebbe fare lo stesso (entrare in Italia per turismo per un periodo non superiore ai 90 giorni) invece il visto è necessario? E con questo, assicurazione sanitaria (copertura minima 30.000 euro), dimostrazione della propria condizione lavorativa e dei propri mezzi economici, e altre garanzie.
Gli africani, dunque, sono prigionieri. Prigionieri in un continente un po’ strano, aperto a tutti da sempre, ricco di risorse indispensabili per le società moderne che però non rendono ricchi gli africani (a parte le élite, naturalmente). Un continente i cui paesi non sono andati in giro per il mondo a fare guerre (le hanno fatte e subite in casa). Un continente composto da giovani e governato da vecchi. Un continente dove i giovani guardano il mondo dalle tv e dai social e magari si chiedono perché per la maggior parte di loro la vita debba essere così diversa, perché le cose non potrebbero andare meglio. Magari partendo. Magari provando a conoscerla da vicino quell’Europa sirena. Quell’Europa dove sembra risiedere tutto il valore: quello morale, quello dei diritti umani, ma anche quello del denaro, del successo, delle possibilità. È per questo che si parte, per una possibilità. Da qualunque parte si intraprenda il viaggio. Per alcuni un viaggio possibile, consentito, senza troppi ostacoli. Per altri una puntata d’azzardo.
Secondo il “Rapporto italiani nel mondo 2020”, nel 2019 sono stati 130.936 gli italiani che hanno preso residenza all’estero (2.353 in più rispetto all’anno precedente). Il 40.9% sono giovani tra i 18 e i 34 anni, il 23.9% tra i 35 e i 49 anni. Un trend in crescita, negli ultimi 10 anni, e rallentato solo (per il momento) dalla pandemia. Nello stesso anno i migranti morti nel Mediterraneo sono stati 1.885 (552 nel tratto di mare che riguarda le nostre coste). I primi si chiamano espatriati (o expats nel gergo di chi vive all’estero), i secondi migranti economici. “Etichette” che sostanzialmente significano la stessa cosa, ma nel caso dei migranti africani assume un aspetto negativo, una formula che nega diritti invece che darne (perché, in primis, un migrante economico non ha bisogno di protezione umanitaria). Una formula il cui intento è gettare un’ombra di vergogna su questi giovani per i quali scegliere non è un’opzione. Non lo è, visto che il proprio passaporto ha così scarso valore.
Dall’inizio del 2021 sono 615 le persone annegate nel Mediterraneo sulle rotte verso la Spagna, la Grecia, l’Italia. In questo numero sono compresi quei desaparecidos annegati poche settimane fa mentre dalle coste libiche tentavano di raggiungere un approdo sicuro.
Perché attraversare paesi e deserti, passare dalle mani di trafficanti e carcerieri per finire a respirare l’ultimo tratto di speranza su una barca sfondata? Semplicemente perché non c’è scelta. Semplicemente perché un africano (uno senza appoggi e senza parentele importanti) è quasi “destinato” a diventare clandestino se decide di fare quello che agli altri è concesso di default: viaggiare, cercare un’altra vita, seguire un sogno. Sì, essere un migrante economico è reato. Punibile con la morte per chi proviene da quello strano continente che è l’Africa. E spesso passando per un paese come la Libia. Un paese senza Stato - di fatto in mano ai miliziani - e senza diritti, ma divenuto baluardo del nostro diritto alla sicurezza. E a cui l’Italia continua ad affidarsi per controllare i flussi migratori diretti verso il nostro paese.
La politica dell’esternalizzazione delle frontiere, la militarizzazione e gli abusi sui diritti umani generati da questo sistema sono da tempo fortemente criticate da ONG, esperti di diritto, società civile. Pensiamo solo a quanto sta emergendo sull’azione di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera che ha contribuito a costruire la Fortezza Europa ed è spesso stata accusata, in passato e oggi, di rispedire nelle carceri libiche migranti e richiedenti asilo.
Ma seppure negli anni tali politiche (comprensive di violazioni dei diritti umani) si sono dimostrate inefficaci, si va avanti a muso duro, incuranti delle radici del problema. Così come incuranti sembrano essere i leader africani che sui giovani annegati o morti nel deserto del Sahara non hanno nulla da dire. Come mai i leader del continente non hanno mai organizzato un incontro ufficiale per discutere dell’"emergenza migrazioni"? Perché l’Unione Africana non si è mai fatta carico della questione? Magari invitando l’Europa a discuterne in Africa. Forse perché bisognerebbe ammettere fallimenti nelle politiche sociali ed economiche, nella capacità - o mancanza di volontà - di difendere i diritti dei propri cittadini. Il fallimento nel negoziare il diritto alla mobilità. O anche perché quel che conta è conservare il potere, per sé e il proprio entourage. No, i morti per emigrazione non rappresentano una priorità, né una questione pubblica. Al contrario, è un affare privato, una storia personale. E chi non ce la fa, peggio per lui.
Ma anche chi riesce a espugnare la Fortezza Europa non ha concluso il gioco a occhi chiusi con la sorte. Espulsione e rimpatri - che comunque stanno dimostrando la difficoltà di applicazione – pendono come una spada di Damocle su questi individui che guardano all’Europa come alla terra promessa. Una terra che invece pensa solo a come liberarsene. Nel 2019, sono state 500.000 le persone oggetto di provvedimento di espulsione, ma di queste solo 142.000 sono state effettivamente rimpatriate. Il ritorno in patria, con niente in tasca, tranne l’esperienza di un viaggio disperato, è un fallimento, una vergogna. Per chi torna, per la sua famiglia, ma anche per l’Europa stessa. Un gigante che non riesce a vivere un’equilibrata relazione con un continente che non può continuare a rappresentare solo territorio di conquista e di utilizzo (sfruttamento) di quelle risorse senza le quali il benessere delle nostre società non sarebbe possibile. E che non può continuare a sperare di “convincere” i leader dei paesi africani a impedire ai cittadini di emigrare.
È in Africa la popolazione più giovane al mondo, età media 19.7 anni. E si prevede che, entro il 2030, la gioventù africana rappresenterà il 42% dei giovani a livello mondiale e sarà in Africa il 75% di quelli al di sotto dei 35 anni. Un potenziale enorme a cui però non sembra rivolta la giusta attenzione da parte di chi governa. Il livello di disoccupazione nel continente nel 2020 è stato pari al 20.7% (solo quella giovanile del 10.7%), destinata a salire di qualche punto nel 2021. Alto anche il tasso di chi ancora vive in stato di povertà estrema (con meno di 1.90 dollari al giorno), il 40% solo nell’Africa sub-sahariana. Vale a dire che due terzi della popolazione mondiale che vive al di sotto della soglia di povertà, è rappresentata da africani. Un dato ancor più sconcertante se si pensa a quanti progetti e infrastrutture siano stati realizzati (o sono in corso) finanziati dalla cooperazione internazionale e da investitori esteri.
Non c’è paese africano dove non siano in atto investimenti in ogni settore. Ma in realtà negli ultimi anni sembra essersi allargato il gap tra le due Afriche: quella delle élite, della classe medio alta, di giovani istruiti, costantemente connessi alla Rete e che inaugurano start-up di successo e poi quella della popolazione più svantaggiata, vulnerabile. Continua a crescere anche l’urbanizzazione. Oggi quasi il 44% della popolazione - e secondo le stime questa percentuale è destinata a crescere - vive nelle aree urbane. Spesso, però, senza lavoro e prospettive. Cosa che ha moltiplicato la presenza degli slum, baraccopoli ai margini delle città, prive di qualunque servizio essenziale e con ovvi problemi connessi alla salute e alla criminalità. Una vera e propria emergenza sociale.
Secondo UN-Habitat nel continente sub-sahariano, nel 2010, circa 200 milioni di persone vivevano in slum. Ma sono cifre che andrebbero evidentemente aggiornate. Così come un’emergenza sociale sono i numerosi campi profughi sparsi in varie regioni del continente. Frutto soprattutto di conflitti ed emergenze ambientali - la crisi climatica ha praticamente cambiato modelli di vita, possibilità di pascolo e coltivazioni e messo a rischio la sopravvivenza di milioni di persone. L’Africa sub-sahariana ospita oltre il 26% della popolazione mondiale di rifugiati. Alcuni di questi sono lì da decenni, diventati vere e proprie città e migliaia e migliaia di bambini che vi sono nati non conoscono una vita diversa da quella. Come il Dadaab sul confine somalo e il Kakuma tra il Sud Sudan e l’Uganda. Di tanto in tanto se ne prospetta la chiusura e quindi il problema di come e dove ricollocare milioni di persone. Luoghi di marginalizzazione dove attecchiscono ideologie violente, estremiste, come spiega questo report dell’Institute for Security Studies.
D’altra parte nell’ultima decade il terrorismo in Africa è notevolmente aumentato. La regione del Sahel, i paesi del Corno d’Africa, la Nigeria, il Mozambico: tutte aree in cui si sono moltiplicate fazioni e gruppi armati. Secondo ACLED, che fornisce dati aggiornati sui conflitti in corso nel mondo, nel 2015 c’erano stati 381 attacchi contro la popolazione civile (1.394 le vittime). Nel 2020 gli attacchi sono saliti a 7.108 (12.519 vittime).
Sono molte le ragioni di questa instabilità che ovviamente coinvolge i giovani. Ma in primis ci sono le ragioni economiche e l’immagine - diciamo così - che gli africani non riescono a costruire di se stessi. E sicuramente l’ingombrante presenza – militare, sotto forma di aiuti, sotto forma di investimenti (e di sfruttamento delle risorse) delle potenze estere, gioca il suo ruolo. In questo contesto si inserisce una classe dirigente fatta – in larga misura – di settantenni, ottantenni, molti dei quali manifestano la volontà di tenere le redini del potere fino alla morte, gestendolo spesso come “un affare di famiglia”. Gerontocrazia e nepotismo sono due aspetti assai diffusi nella leadership africana. Il leader più anziano è il presidente del Camerun, Paul Biya, che ha festeggiato 88 anni lo scorso febbraio. Capo di Stato ininterrottamente dal 1982. Altro ottuagenario è il presidente della Guinea, Alpha Condé (82 anni), capo di Stato da soli 11 anni, ma quest’anno si ripresenterà per un terzo mandato. Alassane Ouattara, della Costa d’Avorio di anni ne ha 78 ed è alla guida del paese dal 2011, anche lui è pronto alla ricandidatura delle elezioni che si svolgeranno ad ottobre. Il nigeriano Muhammadu Buhari ha 77 anni ed è stato eletto presidente più volte. Settantasei anni il presidente del Ghana, Nana Akufo Addo e Yoweri Museveni, presidente ugandese dal 1986. Molti di loro, per restare al potere, hanno chiesto al Parlamento o tramite referendum, di apportare emendamenti alle rispettive Costituzioni, abolendo i limiti di mandato e, in qualche caso, di età.
Contrariamente a una certa narrativa i giovani (e le donne) africani non restano sempre a guardare. Negli ultimi tempi sono emerse figure di spicco (vedi Bobi Wine in Uganda) che mirano a combattere e spezzare il vecchio potere. Manifestazioni di protesta ci sono state in Chad dopo la morte del presidente Idriss Déby e contro l’ingerenza della Francia negli affari del paese. Donne congolesi hanno sfilato – vestite di bianco – per chiedere al governo di porre fine alle violenze nella regione del Kivu, dove milizie armate continuano ad alimentare e proteggere il saccheggio delle ricchezze del territorio. Tutto questo vuol dire esporsi, rischiare, e lasciare da parte quelle attività quotidiane – è l’economia informale che sfama milioni di famiglie africane – indispensabili ad andare avanti.
Gli africani non stanno fermi, in nessun senso. E il movimento è parte di una costante ricerca di vita. Chi, in modo iperbolico, parla di invasione dell’Africa nella nostra Italia, nella nostra Europa finge di ignorare (o purtroppo davvero non lo sa) che la popolazione africana è pari a 1 miliardo e oltre 300 milioni di persone (quasi 747 milioni la popolazione europea al 2018) e che solo una piccola percentuale di questo miliardo e 300 milioni si mette in viaggio verso il vecchio continente. La migrazione interna ha numeri molto, ma molto più alti. Il 75% dei migranti sub-sahariani rimangono all’interno del continente, spostandosi da un paese all’altro, come afferma anche un recente studio commissionato dall’Unione Europea e che – sembra ironia – invita a un cambio di prospettiva rispetto alla polarizzazione che ha assunto la questione migratoria. E presenta una storia delle migrazioni passate e recenti, le motivazioni, le rotte.
Se c’è un mito da sfatare è, appunto, quello di un trasferimento in massa dall’Africa all’Europa. A metà del 2019 erano 26.5 milioni gli africani emigrati in altre parti del mondo (dati UNDESA), corrispondenti al solo 2% della popolazione africana. Un interessante e recente rapporto dello IOM (Organizzazione internazionale per le migrazioni) conferma che il numero dei migranti africani è di gran lunga inferiore a quello di altri paesi. Ma l’Europa negli anni ha incrementato le azioni di controllo, chiusura e respingimento. Con le buone – come accordi bilaterali con i singoli paesi per “tenere a bada” le migrazioni o l’Emergency Trust Fund per l’Africa che comprende l’assistenza umanitaria ma anche i rimpatri – o con le cattive, come lo scellerato accordo con la Libia e il potenziamento della sua Guardia costiera. Che manifesta – afferma Medici Senza Frontiere – il cinismo della politica. Del resto, come giudicare le parole del presidente del Consiglio Mario Draghi pronunciate al termine di una visita a Tripoli per rinnovare l’"amicizia" e i piani di azione contro i migranti tra Italia e Libia. “Sul piano dell’immigrazione - ha detto - noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e, nello stesso tempo, aiutiamo e assistiamo la Libia”. Salvataggi, questa la parola usata, pochi giorni prima dell’ultima strage in mare.
Parlavamo, all’inizio, di indignazione. Che, seppure non basta, è indispensabile ad aprire un dialogo, un movimento di pressione. Ma in Italia anche la diaspora africana – salvo qualche caso – appare troppo silenziosa. Impegnata a combattere sul “fronte interno” per il (sacrosanto) riconoscimento dei diritti: quello di cittadinanza in primis o a non subire discriminazioni e atti di razzismo. Eppure ci sono state risposte collettive all’uccisione di George Floyd negli Stati Uniti. Pugno alzato e inginocchiati nelle piazze. I corpi neri non hanno forse tutti lo stesso valore? Se il razzismo è strutturale non è semplicemente ricordando che i neri sono stati commerciati come schiavi che si dà un segnale forte, oggi, alle istituzioni. Perché in questo modo le migliaia di africani affogati in questi anni nel Mediterraneo resteranno sempre e solo numeri. Numeri di una impresa solitaria, impresa dettata da una legittima aspirazione: quella di partire, conoscere, migliorare.
Il traffico di esseri umani, la clandestinità, le traversate mortali si fermano con la legalità dei movimenti. Per tutti, non per una parte del mondo. Si fermano dando a tutti gli stessi diritti, si fermano non abbarbicandosi sulle posizioni e privilegi raggiunti. Perché se siamo colpiti dalla storia di Kunta Kinte o degli afro americani e delle loro battaglie civili, dovremmo anche puntare uno sguardo più attento a questi nuovi, giovani africani che stanno mostrando, senza volerlo, le lacune e la disumanità dei nostri sistemi di governo, della nostra società nel suo complesso. E con la loro pelle stanno denunciando il doppio standard sulla libertà di movimento, sul diritto alla migrazione.
“Ognuno ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni nazione. Ognuno ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”
(Articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)
Ognuno, appunto. Negli obiettivi dell’Unione Africana c’è la liberalizzazione dei visti, vale a dire accesso a tutti i 54 paesi del continente. Un cittadino africano potrà spostarsi e viaggiare in qualunque altro paese africano senza bisogno di alcuna documentazione consolare. L’idea – di un panafricanismo applicato – è di garantire la libertà delle persone, e non solo delle merci, nell’ambito dell’area di libero scambio, AfCFTA, accordo entrato in vigore nel 2019. Al momento sono 36 i paesi che lo hanno ratificato.
Ma questo è un altro discorso, riguarda soprattutto l’economia, il commercio e chissà se abolirà quell’"abitudine” degli ufficiali di frontiera di farsi pagare (bribe obbligatoria) anche laddove già è in vigore il visa free tra alcuni paesi. Una vessazione a cui gli africani sono abituati da sempre. La questione importante rimane quella dei rapporti tra la vecchia Europa e la giovane Africa. Un’Africa che accoglie, che non rifiuta mai, mai nessuno, ma che – quando è il momento – viene invece respinta e lasciata annegare.
Immagine in anteprima: Mstyslav Chernov, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons