Cosa possiamo aspettarci sul clima dopo la vittoria di Trump

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Rinnovabili, petrolio, gas, Accordo di Parigi. Cosa cambierà nella battaglia sul clima con Donald Trump presidente.

Che l’azione sul clima non sarebbe a probabilmente al centro dei programmi del 47esimo presidente degli Stati Uniti lo si era compreso già prima del risultato delle elezioni che ha sancito il ritorno alla Casa Bianca del climatoscettico Donald Trump. Durante la campagna elettorale, il problema del riscaldamento globale è stato sostanzialmente assente dal dibattito tra il miliardario americano e la candidata democratica Kamala Harris. I due si sono limitati, infatti, a parlare di questioni legate alle politiche energetiche, con Trump che ha affermato di voler aumentare la produzione di idrocarburi. La sua rivale si era allineata alla promessa di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra entro il 2030 avanzata dall’amministrazione di Joe Biden. Ma anche lei, durante il faccia a faccia televisivo, aveva parlato in modo molto vago di “fonti d’energia diversificate”, senza aggiungere altro.

Gli Stati Uniti torneranno a parlare con due voci contrapposte, ma un pezzo di America proseguirà la battaglia sul clima

L’azione climatica, già insufficiente, degli Stati Uniti, sarà dunque certamente più complicata nei prossimi quattro anni. La speranza è che, come già accaduto nel corso del suo primo mandato, possa esserci una parte dell’America che continuerà, nonostante tutto, a mantenere la barra dritta. In questo senso, in un comunicato successivo al trionfo del candidato repubblicano, il World Resources Institute ha spiegato che “non si può negare che un’altra presidenza Trump bloccherà gli sforzi nazionali per affrontare la crisi climatica e proteggere l’ambiente, ma la maggior parte dei leader di stati, enti locali e del settore privato degli Stati Uniti sono impegnati ad andare avanti. E si può contare su molti che confermano che non volteranno le spalle agli obiettivi su clima e natura”. Di conseguenza, secondo il Wri, “il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca non equivarrà alla morte della transizione verso l’energia pulita che si è rapidamente accelerata negli ultimi quattro anni”.

Laurence Tubiana, amministratrice delegata della European climate foundation, è dello stesso avviso: “Il risultato delle elezioni americane è una battuta d’arresto per l’azione climatica globale, ma l’Accordo di Parigi si è dimostrato resiliente e più forte delle politiche di ogni singolo Paese. Il contesto odierno è molto diverso da quello del 2016. C’è un forte slancio economico dietro la transizione globale. Rispondendo alle richieste dei loro cittadini, le città e gli stati di tutti gli Stati Uniti stanno intraprendendo azioni coraggiose”. E chi vuole continuare ad agire sul clima “rappresenta il 65 per cento della popolazione e il 68 per cento del Prodotto interno lordo”.

Il peso politico sui negoziati internazionali non sarà evitabile

Resta il fatto che il restante 32 per cento dell’economia statunitense è necessario, considerando soprattutto che quanto fatto finora è largamente insufficiente per centrare gli obiettivi climatici fissati dalla comunità internazionale. In questo senso, a partire dai negoziati internazionali che si terranno a Baku nei prossimi giorni nell’ambito della ventinovesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite (Cop29), il peso politico del ritorno di Trump si farà inevitabilmente sentire. E a partire da quella successiva, la Cop30 che sarà ospitata dal Brasile, i delegati saranno scelti direttamente dalla nuova amministrazione di Washington. Assisteremo nuovamente, perciò, a due Americhe che si presenteranno a questi appuntamenti cruciali: quella ufficiale, governativa, climatoscettica, e quella che negli anni del primo mandato di Trump si raccolse sotto la bandiera del “We are still in” (“Noi siamo ancora dentro”, in italiano).

Trump annuncia l'uscita dall'Accordo di Parigi
Donald Trump annuncia l’uscita dall’Accordo di Parigi. È il 1 giugno 2017 © Win McNamee/Getty Images

Il riferimento era alla scelta dirompente che proprio l’ex e futuro presidente degli Stati Uniti assunse il 1 giugno del 2017, annunciando l’avvio della procedura di uscita dall’Accordo di Parigi sul clima. Un pezzo degli Usa, all’epoca, dichiarò appunto di essere comunque rimasto “dentro”: allineato agli obiettivi del documento, ovvero tentare di limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, rispetto ai livelli pre-industriali, e rimanendo il più possibile vicino agli 1,5 gradi.

“Trivelliamo ovunque”: il programma sull’Energia di Trump

Certo, occorrerà in ogni caso verificare con quale “forza” Trump deciderà di affrontare le politiche energetiche, e di conseguenza quelle climatiche. Perché anche se il mondo sta andando nella direzione della transizione in modo più marcato rispetto a otto anni fa, il miliardario americano potrebbe non ascoltare nessuno (cosa che non gli capita d’altronde di rado). Il leader repubblicano ha promesso durante la campagna di “trivellare ovunque”, al grido di “Drill, baby, drill!”. “Abbiamo più oro liquido a disposizione di qualsiasi altra nazione al mondo”, ha dichiarato facendo riferimento ai giacimenti di petrolio presenti negli Stati Uniti. “Più dell’Arabia Saudita o della Russia”, ha aggiunto.

Trump si è d’altra parte impegnato a chiare lettere ad “annullare tutti i fondi non ancora spesi” nell’ambito del grande piano di transizione varato da Biden nel 2022 (che prende il nome di Inflation reduction act e che in realtà non riguarda solamente il clima). Tale legge ha permesso di iniettare liquidità nelle energie pulite, grazie soprattutto a un meccanismo di crediti d’imposta che ha mobilitato miliardi di dollari. Nelle intenzioni del tycoon americano, ora, ciò che ancora è a disposizione dovrebbe essere utilizzato per rilanciare soprattutto petrolio e gas.

Soldi al petrolio e stop alla moratoria sui nuovi terminal per il gas

Non a caso, un’altra promessa avanzata in campagna elettorale è quella di annullare la moratoria sulla costruzione di nuovi terminal per l’esportazione di gas naturale liquido. Più complessa la questione relativa alle auto elettriche: occorrerà verificare su questo punto quale sarà il peso di Elon Musk, che come noto si è speso moltissimo a favore di Trump e potrebbe chiedere qualcosa in cambio per le sue aziende, Tesla compresa.

Elon Musk
Elon Musk, ceo di SpaceX e Tesla © Daniel Oberhaus/Flickr

Altro tema di particolare importanza per il clima è quello relativo alla concorrenza globale. Nel corso del primo mandato Trump aveva imposto dazi doganali, ad esempio, sulle importazioni di pannelli solari provenienti dall’Asia. Inoltre, già in passato la Cina ha spiegato che se gli Stati Uniti smettessero di soddisfare determinati standard ambientali e climatici nelle loro produzioni, anche nella nazione asiatica sarebbero costretti, se non a fare altrettanto, per lo meno a snellire le richieste imposte alle aziende locali. Poiché altrimenti i costi cinesi lieviterebbero troppo e si genererebbe una concorrenza sleale. Considerando che Stati Uniti e Cina, assieme, valgono all’incirca il 45 per cento delle emissioni globali di CO2, si comprende come un loro disimpegno (o anche solo diminuito impegno) sia molto difficile da compensare per il resto del mondo.

Christiana Figueres: “Le energie pulite rimarranno comunque vincenti”

“Le azioni degli Stati Uniti in materia di cambiamenti climatici a livello nazionale e globale determineranno il modo in cui l’Africa, un continente che è il meno responsabile della crisi climatica ma che soffre maggiormente degli impatti del clima, percorrerà il proprio percorso di sviluppo”, ha ammesso in questo senso Raila Odinga, ex primo ministro del Kenya e candidato alla presidenza della Commissione dell’Unione Africana.

Per questo, occorrerà che chi ha a cuore la questione climatica moltiplichi gli sforzi: “Continueremo ad attuare le nostre leggi sul clima e a collaborare con i partner internazionali a tutti i livelli di governo, della società civile e del settore privato per una rapida e piena attuazione dell’Accordo di Parigi”, ha commentato Jennifer Morgan, sottosegretaria di stato e inviato speciale per l’azione internazionale sul clima della Germania. “Rimanere con il petrolio e il gas equivale a rimanere indietro in un mondo in rapida evoluzione. Le tecnologie energetiche pulite continueranno a competere con i combustibili fossili, non solo perché sono più sane, più veloci, più pulite e più abbondanti, ma perché li scalzano nel punto in cui sono più deboli: la loro irrisolvibile volatilità e inefficienza”, ha osservato Christiana Figueres, che dal 2010 al 2016 ha guidato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).

D’altra parte, “il disimpegno dell’azione interna degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump danneggerà gli sforzi per limitare il riscaldamento a 1,5 gradi. Le prospettive di mantenere aperto l’obiettivo dipenderanno in ultima analisi dal livello di azione intrapreso da tutti gli altri Paesi nei prossimi anni e anche da ciò che faranno gli Stati Uniti dopo la conclusione della presidenza Trump”, ha spiegato Bill Hare, amministratore delegato di Climate analytics ed ex membro del Panel intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc).

L’azione sul clima nel mondo è già insufficiente

Il mondo, ad oggi, è in effetti molto lontano da una traiettoria che possa consentire di centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi. Le promesse avanzate dai governi, secondo i calcoli del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), anche qualora fossero rispettate per intero, ci porteranno ad un aumento della temperatura media globale di almeno 2,6 gradi (3,1 nel caso in cui si rimanesse sui trend attuali). E il 2024 sarà con ogni probabilità il primo anno solare in cui abbiamo superato la soglia stessa degli 1,5 gradi. Servirà perciò davvero uno sforzo titanico – ancor più grande dopo l’elezione di Trump – per salvare il clima della Terra e garantire un futuro sereno alle prossime generazioni.

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