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Entrando nel dettaglio, nel 2022 i quattro maggiori gestori patrimoniali del mondo – Vanguard, Fidelity Investments, BlackRock e State Street Global Advisors – hanno ridotto il loro supporto per le proposte degli azionisti relative a questioni ambientali e sociali, sostenendo solo il 20% delle risoluzioni ESG, rispetto al 32% del 2021. Dall’analisi globale del voto di 68 dei maggiori gestori patrimoniali su 252 proposte degli azionisti focalizzate su sfide legate alle emissioni o sociali, è emerso un aumento complessivo del supporto a tali risoluzioni, dal 60% nel 2021 al 66% nel 2022. Tuttavia, c’è stata una chiara divisione regionale. In Europa, il supporto per le proposte ambientali e sociali è aumentato di 12 punti percentuali, mentre negli Stati Uniti e nel Regno Unito è rimasto quasi stabile con un incremento di un solo punto percentuale. Il calo di supporto da parte di Vanguard, Fidelity, BlackRock e State Street, tutte con sede negli Stati Uniti, è stato ad esempio influenzato dalle posizioni anti-ecologiche delle compagnie energetiche, le quali hanno ottenuto profitti record grazie alla guerra in Ucraina. BlackRock, ad esempio, ha sostenuto solo il 16% delle risoluzioni legate al clima nelle aziende energetiche nel 2022, un drastico calo rispetto al 72% del 2021.
Gli ESG – acronimo che sta Environmental, Social, and Governance – sono dei criteri utilizzati per valutare le pratiche aziendali e il loro impatto su tre aree principali: ambientale, sociale e di governance, per l’appunto. Questi criteri, in teoria, dovrebbero aiutare gli investitori a determinare la sostenibilità e l’etica di un’azienda. Tuttavia, pare proprio che stiano attraversando una crisi, come confermato da numerosi indicatori. A fine 2023, per la prima volta, i disinvestimenti dai fondi ispirati ai criteri di rispetto dell’ambiente e dei diritti sociali hanno registrato un deflusso netto di capitali. Un fenomeno confermato dal fatto che il numero di fondi rispettosi degli ESG chiusi ha già superato quello dei nuovi fondi creati. Un ruolo chiave in quello che non è azzardato definire un passo indietro, come anticipato, lo ha sicuramente rivestito la recente ripresa bellica, la quale ha portato ad un boom di investimenti in settori tradizionalmente agli antipodi degli ideali ESG, come quello dei combustibili fossili. Di fronte a questa rinnovata corsa alle armi e al petrolio, molti investitori hanno preferito non rischiare di perdere tali opportunità di profitto. Nel frattempo, mentre gli impegni climatici assunti a livello internazionale vengono sistematicamente disattesi, le emissioni di gas serra continuano a crescere, così come il consumo di petrolio e persino di carbone, il più inquinante e climalterante dei combustibili fossili. Giusto per citarne uno, un recente rapporto dell’Energy Institute ha rivelato che il consumo di petrolio ha superato per la prima volta i 100 milioni di barili al giorno, mentre nel 2023 le emissioni di CO2 sono aumentate ancora del 2,1%. Ma nulla potrà cambiare nei tempi richiesti dal contrasto alla crisi ecologica finché le grandi aziende impattanti continueranno a operare secondo logiche di massimizzazione dei profitti, e finché gli azionisti, gli unici con il potere di cambiare le politiche aziendali, faranno altrettanto.
[di Simone Valeri]