Il governo Meloni ha dato il via libera all’estrazione di “materie prime critiche”

Lindipendente

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La caccia alle cosiddette “materie prime critiche”, cioè gli elementi necessari per assemblare batterie e più in generale quasi ogni tipo di dispositivo tecnologico, sta iniziando anche sul suolo europeo. Ieri il Consiglio dei ministri italiano ha approvato un decreto legge per unirsi alla corsa. Cobalto, rame, litio, magnesio, grafite, nichel, silicio, tungsteno, titanio ed altre ancora: sono 34 le «materie critiche» definite come fondamentali per il futuro europeo ed italiano, di cui 17 sono considerate «strategiche». Materiali che il governo ritiene necessari per «promuovere la transizione digitale e verde» dell’industria nazionale, e che ora vuole ricercare proprio nel sottosuolo italiano. Secondo il ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso – propulsore del dl insieme al ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin – in Italia di materie critiche ne abbiamo almeno 15. Alcune ricerche sono già iniziate, e sono vari i permessi di ricerca rilasciati negli ultimi anni ad aziende per esplorare il sottosuolo italiano, ma con il nuovo decreto legge si avrà una notevole accelerata su tutto l’iter processuale.

Uno dei punti fondamentali è proprio la semplificazione delle procedure autorizzative: i permessi infatti verranno rilasciati entro un tempo massimo di diciotto mesi per le attività estrattive e di dieci mesi per quelle volte alla lavorazione e al riciclaggio. Vengono accelerati anche i giudizi in materia di progetti strategici in relazione a controversie di riconoscimento o rilascio di titoli abilitativi, sul modello dei giudizi amministrativi in materia di PNRR.
Via alla mappatura dei siti dismessi, semplificazione e velocizzazione di norme, controlli e autorizzazioni. Si ricerca soprattutto cobalto e litio, che in Italia si concentrano in Piemonte e nel Lazio settentrionale (cobalto) e tra Toscana, Lazio – soprattutto nell’area a nord di Roma – e Campania (litio). Ma il sud della Sardegna contiene altre terre rare, il rame è in Veneto, Toscana e Lombardia, il manganese in Abruzzo, Sicilia e Calabria. E si potrebbe continuare. Insomma: poche regioni rischiano di essere escluse dalla riapertura delle ricerche minerarie. Dei giacimenti sono già stati individuati, ma «si tratterà di vedere le condizioni di estraibilità, che saranno da valutare caso per caso» afferma il ministro Pichetto Fratin.

Nasce infatti un Programma di esplorazione nazionale delle materie prime critiche, attualmente con una dotazione di 3,5 milioni di euro, che dovrà essere promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) entro il 24 maggio 2025 e sottoposto a riesame quinquennale come previsto dal Critical Raw Materials Act, il documento europeo che delinea i progetti estrattivi nel continente. Le nuove norme introducono poi un nuovo sistema di royalties, che superano la vecchia legislazione – con la relativa tariffa di 16 euro l’ettaro l’anno – e assicurano «dal 5 al 7% ripartito tra Stato e Regioni» per le concessioni minerarie di progetti strategici. In sostanza, come già avviene per il petrolio e il gas estratti in Italia, le licenze verranno affidate ai privati e allo Stato rimarrà solo una piccola percentuale dei proventi.

Nel decreto viene inoltre «rafforzato e indirizzato il fondo nazionale del Made in Italy che ha una dotazione iniziale di un miliardo – annuncia Urso – «per sviluppare la filiera strategica di estrazione delle materie prime così anche per far nascere un grande attore nazionale, che oggi non abbiamo». Il decreto prevede inoltre l’istituzione, presso il Ministero delle imprese e del made in Italy, del Comitato tecnico permanente per le materie prime critiche e strategiche, al quale è affidato il monitoraggio delle catene di approvvigionamento, oltre alla predisposizione di un Piano Nazionale delle materie prime critiche.

Il Critical Raw Materials Act e il ritorno delle miniere

La nuova legge avrebbe il compito di adeguare la normativa nazionale sul settore minerario agli standard europei previsti dal regolamento del Critical Raw materials Act. La rottura dei commerci globali durante la pandemia e poi, soprattutto, le sanzioni imposta alla Russia e la guerra commerciale in atto con la Cina hanno spinto l’Europa a cercare metodi di ritorno a una qualche forma di sovranità energetica; è in questa cornice che ha visto la luce il Critical Raw Materials Act, pacchetto di misure europeo approvato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo l’11 aprile, di fatto per cercare di ridurre la dipendenza dalla Cina, che detiene un sostanziale monopolio nella raffinazione ed estrazione di alcuni minerali fondamentali.

Più miniere, aumentare la capacità di lavorazione sul territorio europeo e diversificare i partner commerciali: questi gli obbiettivi europei principali, che mirano ad arrivare almeno al 10% di estrazioni delle materie prime critiche consumante nell’Unione in miniere europee entro il 2030. Il 40% inoltre dei materiali consumati dovrà essere lavorato sul suolo europeo.

Alla nuova ondata estrattiva europea si sta cercando di dare un volto verde, e se si parla molto di green economy, transizione energetica e riciclo, spesso si dimentica nel discorso pubblico uno dei motivi fondamentali della ricercata autonomia mineraria: la guerra. Molti di questi materiali strategici infatti sono necessari per la costruzione di armi e strumenti di difesa – e attacco – militari. I venti di guerra che stanno iniziando a soffiare in Europa, spinti dalla stessa classe dirigente made in UE, possono far intuire che quel 10% dei materiali critici utilizzati che verranno estratti nel sottosuolo dell’Unione, quando sarà «necessario» saranno in primis utilizzati per il settore militare.

[di Monica Cillerai]

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