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ROMA – Nella risposta all’emergenza climatica in atto “l’Italia sconta l’enorme ritardo con cui è stato affrontato il tema dell’adattamento”. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici o PNACC, sbloccato dal ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto e recentemente approvato “rappresenta certamente un importante passo in avanti, ma gli oltre 300 interventi individuati devono essere ora integrati con gli altri Piani di tutela e di mitigazione e, soprattutto, devono essere definiti i tempi e le risorse per la loro realizzazione”. Insomma, “c’è ancora molto da fare” per mettere l’Italia in grado di affrontare le aspre conseguenze del mutamento climatico. Un’esigenza viva a partire da un elemento chiave per la vita stessa, ma anche per la sicurezza alimentare degli italiani e della prosperità del settore del Made in Italy agroalimentare, l’acqua. “Negli ultimi 30 anni l’abbiamo trascurata non investendo abbastanza in manutenzione, in nuove infrastrutture ed in nuove tecnologie quali, ad esempio, quelle per il recupero delle acque reflue e la desalinizzazione”. Questi solo alcuni passaggi di una conversazione con Marco Casini, segretario generale dell’Autorità di bacino distrettuale Appennino centrale, ente pubblico non economico responsabile della programmazione e della pianificazione territoriale per la gestione del rischio idrogeologico, la tutela e la gestione delle risorse idriche, la difesa delle coste e l’uso sostenibile del suolo dell’Italia centrale.
Dopo svariati anni, è stato approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, il PNACC, è una risposta adeguata all’emergenza climatica in atto?
La necessità di aumentare la capacità di adattamento agli effetti negativi dei cambiamenti climatici e promuovere la resilienza climatica è stata sancita già nel 2015 con l’Accordo di Parigi insieme all’impegno di tenere la temperatura sotto il limite di +1,5 °C rispetto al periodo preindustriale (1851-1900). L’Italia sconta l’enorme ritardo con cui è stato affrontato il tema dell’adattamento. Il Piano rappresenta certamente un importante passo in avanti, ma gli oltre 300 interventi individuati devono essere ora integrati con gli altri Piani di tutela e di mitigazione e, soprattutto, devono essere definiti i tempi e le risorse per la loro realizzazione. C’è ancora molto da fare.
È essenziale investire in progetti che spingano l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili, stiamo facendo abbastanza?
La risposta è no, non stiamo facendo abbastanza ed è essenziale aumentare l’efficienza energetica, sia nell’industria, sia nel settore civile e almeno quintuplicare da qui al 2030 l’attuale potenza di energia rinnovabile installata a livello mondiale (la richiesta della COP28 di Dubai è di triplicarla). Ad oggi, infatti, i benefici in termini di riduzione di emissioni di gas serra dovuti al miglioramento dell’efficienza e alle nuove installazioni di impianti da fonti rinnovabili non riescono a compensare il costante aumento nella domanda di energia dovuto all’aumento della popolazione, che nel 2022 ha raggiunto gli 8 miliardi di persone, e all’incremento della richiesta di raffreddamento e riscaldamento dovuta al cambiamento del clima. A questo si aggiungono le emissioni derivanti dal maggior utilizzo del carbone a scapito del gas all’interno del mix energetico. Il risultato è un aumento continuo delle emissioni di gas serra legate all’energia che nel 2022 hanno raggiunto un nuovo record assoluto di 36,8 Gt, con una crescita dello 0,9% (321 Mt) rispetto al 2021. In sostanza, nonostante gli sforzi, anziché ridurre le emissioni, stiamo continuando ad aumentarle. L’umanità ha immesso nell’ambiente più CO2 dal 1990 ad oggi di quanta ne abbia emessa dall’inizio della rivoluzione industriale sino al 1990.
Anche l’IPCC pur mantenendo l’attenzione sulla mitigazione, la riduzione delle emissioni, sottolinea l’emergenza di piani di adattamento elaborati caso per caso, paese per paese, in modo sartoriale secondo le necessità, e i rischi, specifici. È questa la strada? Abbiamo perso la battaglia delle emissioni?
La battaglia contro le emissioni ha consentito di ritardare alcuni fenomeni, senza tuttavia impedirli. Il clima è cambiato, questo è un fatto. Questa battaglia non va tuttavia interrotta, ma assolutamente potenziata per due motivi. Il primo è quello di farci guadagnare tempo, il secondo è che, indipendentemente dalla lotta ai cambiamenti climatici, ridurre le emissioni di gas serra, derivanti essenzialmente dalla combustione, consente di ridurre l’inquinamento atmosferico che, ad oggi, costituisce una delle prime cause di morte a livello mondiale.
Di sicuro il clima è cambiato molto più rapidamente di quanto ci si aspettasse, con una fortissima accelerazione negli ultimi 10 anni che sono stati i più caldi mai registrati dal 1880 ad oggi. Il riscaldamento globale in atto nell’ultimo secolo, e che riguarda la temperatura dell’aria, la temperatura degli oceani, lo scioglimento dei ghiacci, l’acidificazione e l’innalzamento del livello dei mari, ha innescato una serie di variazioni a catena nel clima terrestre, dalla circolazione atmosferica al regime delle precipitazioni (frequenza, intensità, tipologia), con un conseguente incremento degli eventi estremi. Questi comportano siccità, ondate di calore, flash flooding, tempeste e inondazioni con danni sempre più ingenti alle persone e all’ambiente e conseguenti maggiori rischi per la salute, la sicurezza alimentare, l’accesso all’acqua. Anche il fenomeno dei flussi migratori in continua crescita è in parte conseguenza di questi disagi dovuti al clima.
Da qui l’assoluta necessità, già a partire dall’accordo di Parigi del 2015, di affiancare alle misure di mitigazione quelle di adattamento per aumentare quanto prima la resilienza climatica, fino all’introduzione di sistemi di allerta precoce per le popolazioni. La sfida è oggi diventata quella di adattarsi ad un clima che è cambiato e che sta cambiando molto rapidamente.
Con la siccità che abbiamo sperimentato nel 2022 c’è stata una risalita del cuneo salino per 30 metri al delta del Po, non ci stiamo preoccupando abbastanza? E come si recuperano quei terreni?
Il fenomeno della risalita del cuneo salino sta interessando dal secondo dopo guerra a oggi sempre più corsi d’acqua, con risalite verso l’entroterra sempre più importanti. Oltre al Po, il fenomeno interessa altri fiumi dell’Adriatico quali l’Adige, il Piave e il Tagliamento con evidenti danni ai terreni agricoli e agli ecosistemi. Per contrastare la risalita dell’acqua salata dal mare e la conseguente contaminazione di terreni e falde, devono essere attuati un insieme di rimedi che comprendono sia la realizzazione di interventi dedicati (barriere anti-intrusione, bacini di raccolta dell’acqua piovana, impianti di desalinizzazione), sia misure gestionali evitando prelievi eccessivi. Il fenomeno non è irreversibile, ma tenerlo a freno non è semplice.
L’acqua: sperimentiamo siccità a gennaio in Piemonte o in Sicilia, quando l’acqua arriva o travolge tutto o si perde, non utilizziamo le acque reflue e siamo in ritardo con le opere per la sicurezza idraulica. Cosa abbiamo contro l’acqua?
Non abbiamo nulla contro l’acqua, ma certamente negli ultimi 30 anni l’abbiamo trascurata non investendo abbastanza in manutenzione, in nuove infrastrutture ed in nuove tecnologie quali quelle per il recupero delle acque reflue e la desalinizzazione. Nel frattempo, è proseguito il consumo di suolo del nostro territorio e il clima è cambiato. La maggiore pressione climatica, la maggiore copertura artificiale dei suoli e la crescente inadeguatezza delle infrastrutture hanno determinato uno squilibrio nel rapporto tra la domanda e l’offerta di acqua, esponendo tutti i settori, civile, agricolo e industriale, a situazioni di severità idrica e di conflitto nell’uso della risorsa.
Gli effetti dei cambiamenti del clima sono oggi amplificati, fino a situazioni di vera emergenza, quali le condizioni in cui si trovano le infrastrutture e i servizi idrici, la mancanza di una efficace programmazione sul territorio della domanda rispetto all’offerta, le modalità di gestione e utilizzo dell’acqua, i comportamenti individuali. Per far fronte ai problemi di sicurezza dell’approvvigionamento idrico è necessario passare ad un modello di gestione dell’acqua quanto più possibile circolare, incentrato sulle attività di Raccolta, Ripristino, Riuso, Recupero e Riduzione (le cosiddette 5-R del modello Circular water).
L’Osservatorio ritiene che si debba adottare una strategia operativa che preveda l’integrazione di misure di breve termine, orientate prevalentemente alla minimizzazione degli impatti, e interventi di medio-lungo termine, finalizzati all’efficientamento delle reti, al recupero delle risorse idriche disperse o inutilizzate, a un maggiore accumulo idrico e, più in generale, al miglioramento della resilienza dei sistemi di approvvigionamento idrici. Altrettanto importante risulta la necessità di aumentare il grado di interconnessione tra i differenti sistemi idrici e, ove tecnicamente possibile, la connessione a sistemi di approvvigionamento idrico multi-risorsa.
Alcuni politici dicono che è tutta colpa del fiume non curato, delle nutrie, degli ambientalisti da salotto – una specie di nutrie evidentemente – ma non si tratta solo di questo, giusto?
Le cause del rischio idrogeologico sono numerose e legate sia ad aspetti naturali che antropici. Il nostro Paese è certamente un paese fragile dal punto di vista geologico e sismico rispetto al resto d’Europa. A questo si aggiungono un consumo di suolo elevatissimo (2,4 mq al secondo) e un atavico ritardo nella manutenzione e nell’ammodernamento delle infrastrutture per la difesa del territorio. In questo quadro si è di prepotenza inserito il cambiamento del clima che, negli ultimi 20 anni, ha trasformato problemi già esistenti in situazioni sempre più gravi ed evidenti, rendendo l’impegno verso l’adattamento un fatto emergenziale.