Estrazione in acque profonde: studio conferma l’impatto sulla vita marina

Lindipendente

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Il disturbo associato all’estrazione di risorse minerali sul fondo del mare ha tutte la carte in regole per rappresentare un importante fattore di stress ambientale per gli organismi delle profondità oceaniche. È quanto ha concluso un nuovo studio focalizzato sugli effetti dell’estrazione mineraria profonda, pratica sempre più attuata col fine di reperire i minerali necessari alla transizione energetica, su un organismo acquatico, la medusa elmo (Periphylla periphylla). Sebbene le operazioni minerarie punteranno ai minerali del fondale marino – hanno spiegato gli autori – queste pomperanno anche i sedimenti fini, generando “nuvole” di materiale sospeso. I sedimenti raccolti dovranno essere poi in parte scaricati nella colonna d’acqua, i quali genereranno “pennacchi di sedimenti” estesi decine o centinaia di chilometri. L’estrazione mineraria in acque profonde quindi non influenzerebbe solo le comunità animali sul fondo del mare, ma anche quelle nella colonna d’acqua sovrastante. E dato che in genere c’è poco sedimento in questo strato marino – hanno quindi precisato – si prevede che gli animali che vivono in esso saranno altamente sensibili all’effetto dei sedimenti indotti dall’attività mineraria.

La ricerca in questione è stata condotta nell’ambito del progetto Integrated Assessment of Atlantic Marine Ecosystems in Space and Time (iAtlantic) finalizzato a valutare la salute degli ecosistemi delle acque profonde e dell’Oceano Atlantico. Il lavoro interessa l’intero bacino atlantico ed è stato pensato con l’obiettivo di fornire le conoscenze necessarie per una gestione responsabile e sostenibile delle risorse oceaniche. Non è quindi un caso che uno degli studi si sia focalizzato proprio sul comprendere l’impatto delle attività minerarie in acque profonde. Negli ultimi anni, questa attività industriale emergente ha infatti attirato l’attenzione internazionale poiché è proprio tra i 400 e i 5000 metri di profondità, nei substrati di roccia di montagne sottomarine e in aree segnate da attività vulcanica, che si possono trovare le terre rare e altri elementi oggi considerati strategici per la transizione energetica. I fondali marini, in quanto distanti oltre 12 miglia dalle coste di qualsiasi Nazione, sono tuttavia un bene comune e – come ha stabilito la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 – patrimonio dell’umanità da proteggere. Per questo motivo, ad oggi, ancora non vi è stato alcun via libera ufficiale. Così, a decidere le sorti di questa “area franca” vi è l’Autorità internazionale dei fondali marini, la quale, dalla sua istituzione, ha tuttavia già concesso 31 licenze per esplorazioni estrattive pilota ad oltre 20 Paesi.

Lo scorso luglio l’ente internazionale ha deciso, solo temporaneamente, di non autorizzare la pratica – in inglese nota come deep sea mining – ma probabilmente è solo questione di tempo. Per ora, infatti, l’unico impedimento è stato il non aver trovato un accordo per regolamentare tale attività. Tuttavia, sono in molti a credere che l’estrazione dai fondali dovrebbe essere del tutto impedita e non regolamentata. Circa un mese fa, un centinaio di gruppi ambientalisti ha ad esempio chiesto una moratoria per stroncare sul nascere tale pratica potenzialmente devastante. Gli ambientalisti, in particolare, temono che la direzione intrapresa sia quella dello sfruttamento dei fondali nel prossimo futuro con la giustificazione che questo contribuirà a rendere il mondo più sostenibile aiutando la transizione energetica. Il tutto, poi, nonostante le conseguenze – ancora poco esplorate – che le miniere di profondità avranno sull’ecosistema marino. D’altronde, come dargli torto. Un altro studio pubblicato ad ottobre su Current Biology – il primo a monitorare l’impatto reale del deep sea mining e non a basarsi su stime – ha ad esempio dimostrato come appena due ore di estrazione al largo delle coste giapponesi avessero dimezzato la popolazione ittica, anche dopo più di un anno, sia nel sito di lavoro che nelle zone adiacenti ad esso. Tra l’altro – come ha affermato il direttore del Consiglio UE delle accademie nazionali delle scienze – «la narrazione secondo cui l’estrazione mineraria in acque profonde è essenziale per raggiungere i nostri obiettivi climatici sarebbe del tutto fuorviante: piuttosto, i danni generati da tale attività nei fondali potrebbero essere tanto gravi per l’equilibrio del pianeta, e dunque per le società umane che ospita, quanto irreversibili».

[di Simone Valeri]

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