https://www.open.online/2024/07/02/wopke-hoekstra-commissario-ue-clima-intervista
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L’esperienza di Wopke Hoekstra alla Commissione europea è diversa, almeno in parte, da quella di tutti i suoi colleghi. Il politico olandese del Ppe è stato catapultato a Bruxelles a legislatura ben avviata. Anzi, quasi finita. L’approdo nel collegio dei commissari presieduto da Ursula von der Leyen è avvenuto ufficialmente solo a ottobre 2023, appena sette mesi prima delle elezioni europee. Eppure, il portafoglio che Hoekstra si è ritrovato a gestire è tutt’altro che trascurabile: «Azione per il clima», mica poco per un blocco di Paesi che si è candidato a diventare la prima economia al mondo a raggiungere la neutralità climatica. Quando è arrivato Bruxelles, Hoekstra, che è stato per quattro anni ministro olandese delle Finanze, si è ritrovato a raccogliere un’eredità piuttosto ingombrante: quella di Frans Timmermans, suo connazionale ma di orientamento socialista, artefice di quel Green Deal che è diventato tratto distintivo dell’ultima Commissione europea.
Hoekstra ha optato per un approccio più soft rispetto al suo predecessore, che prima di dimettersi dall’esecutivo Ue per candidarsi in Olanda era diventato il bersaglio prediletto di ogni esponente della destra europea. Lo stile adottato da Hoekstra è sicuramente diverso, sia per appartenenza politica che per esperienze passate (prima di diventare ministro ha lavorato per Shell e McKinsey). Il suo posto, inoltre, sembra già essere stato prenotato da Teresa Ribera, ministra spagnola alla Transizione ecologica e probabile prossima commissaria europea al Clima. Incontriamo Wopke Hoekstra nella sede della rappresentanza in Italia della Commissione Europea, a Roma. Una città che l’attuale commissario europeo al Clima (in carica fino a settembre circa) conosce molto bene, se non altro perché ci ha vissuto durante gli anni dell’università. «Sono innamorato di Roma e l’Italia è un Paese fantastico. Ho un legame molto speciale ed è sempre bello per me tornare qui», racconta Wopke Hoekstra in questa intervista a Open, rilasciata venerdì 28 giugno, poco prima di dirigersi alla training session organizzata dall’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore.
Riavvolgiamo il nastro della sua esperienza da commissario europeo al Clima. Qual è la cosa di cui è più orgoglioso? E c’è invece un dossier su cui sperava di fare qualcosa in più?
«Orgoglio non è la parola che userei, ma ciò di cui sono più soddisfatto, e che penso sia un enorme risultato dell’Europa e del mondo, è il successo della Cop28. A Dubai abbiamo assistito a una grande vittoria della diplomazia. Abbiamo avuto un gruppo straordinario di ministri europei che hanno fatto un lavoro fantastico. E poi siamo riusciti a tenere viva una super maggioranza di 140-150 Paesi a favore di un’azione più incisiva per il clima. Come con qualsiasi accordo internazionale, bisognerà aspettare qualche anno per capire se ha funzionato. Ma è stato un risultato fantastico e inaspettato».
E il rimpianto qual è?
«Ne ho molti, ma la cosa che mi fa dormire tranquillo di notte è sapere che stiamo facendo le cose giuste in termini di politiche per il clima. Il vero problema è che la finestra di opportunità per agire si sta chiudendo e abbiamo poco tempo a disposizione. Se avessimo iniziato ad agire venti o trent’anni prima, oggi saremmo in una situazione diversa. Ci ritroviamo invece a dover agire in fretta e non possiamo assolutamente temporeggiare».
C’è una sensazione diffusa secondo cui le ultime elezioni potrebbero convincere l’Unione europea ad abbassare l’asticella dell’ambizione nelle politiche per il clima. Sarà così?
«Io sono più ottimista. Si può ignorare il punto di vista di un partito politico, ma alla fine non si può mettere in discussione la gravità della situazione in cui ci troviamo. Il fatto è che non si può negoziare con il pianeta. Esiste una realtà scientifica e cioè che il mondo si sta riscaldando, in Europa ancora più velocemente che altrove. Il danno al pianeta, ma anche all’economia e anche alla sicurezza, è già molto significativo e potenzialmente enorme. Quindi non c’è una soluzione alternativa: dobbiamo affrontare il cambiamento climatico indipendentemente da dove ci collochiamo nello spettro politico. È estremamente importante non solo continuare con l’azione per il clima, ma anche riuscire a combinarla con la competitività delle nostre aziende e con una transizione giusta per i nostri cittadini».
Giorgia Meloni si è astenuta sul bis di Ursula von der Leyen alla Commissione europea, ma potrebbe comunque fornire alcuni voti per aiutarla a essere eletta. Un maggiore coinvolgimento dei conservatori di Ecr potrebbe influenzare l’agenda climatica europea?
«La presidente von der Leyen ha svolto un lavoro davvero straordinario con la crisi energetica, il covid-19, il clima e l’orribile guerra che i russi stanno conducendo in Ucraina. Quindi sono felice che i capi di governo abbiano preso quella decisione. Detto questo, non dipende da me. L’unica cosa che posso dire, e so che ha attirato molta attenzione in Italia, è che io sono pienamente d’accordo con chi dice che in Europa le cose si fanno tutti insieme. È di eccezionale importanza che l’opinione di tutti e 27 i Paesi sia presa in considerazione in ogni momento. E penso che sia pienamente comprensibile e giusto che anche i politici del vostro Paese lo abbiano chiesto. Ora tocca al Parlamento costruire una maggioranza solida e ampia per fare le cose giuste per il futuro dell’Europa».
Quindi non teme che ci possano essere scossoni politici?
«Credo che il governo italiano abbia svolto un lavoro molto solido in termini di sostegno all’Ue, sostegno alla Nato, aiuto ai nostri amici ucraini e gestione dell’immigrazione. Quindi posso solo lodare il governo italiano per l’ottimo lavoro che ha svolto. E il mio caro amico Antonio Tajani, con cui ho sempre lavorato eccezionalmente, è stato un architetto chiave di tutto ciò. Lo stesso vale per il ministro Pichetto Fratin e gli altri membri del governo».
Che fine farà il Green Deal? Quali dovrebbero essere le priorità della «fase 2» dell’agenda verde europea?
«Dobbiamo tirare dritto con le politiche per il clima, ma combinandole con la competitività e la transizione giusta. Questi elementi devono andare di pari passo, ma ci sono molte cose su cui dobbiamo lavorare. Innanzitutto, continuare a correre con le rinnovabili. L’Italia, tra l’altro, ha il più grande impianto di produzione di pannelli di tutta Europa (la 3Sun in Sicilia – ndr). In secondo luogo, penso che abbiamo effettivamente bisogno di investimenti molto più significativi, ad esempio nel campo della CCS (Carbon Capture and Storage, i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 – ndr) e delle batterie. E poi dobbiamo investire molto di più nelle nostre reti. Stiamo elettrificando la nostra economia molto rapidamente, anche al di là delle più rosee aspettative, e le infrastrutture devono essere in grado di reggere l’urto».
Pensa che siano stati commessi errori con il Green Deal?
«La perfezione non esiste. La priorità per il futuro, come dicevo, è combinare l’azione per il clima con la competitività e una transizione giusta. Detto questo, a volte in Europa trascuriamo che dovremmo essere molto più proattivi per far sì che anche altri Paesi si impegnino a ridurre le emissioni. Il cambiamento climatico colpisce indiscriminatamente tutta l’umanità, non importa se la CO2 viene rilasciata in Argentina, Svezia o Cina. È dannoso per tutti. L’Europa produce il 7% delle emissioni, dobbiamo lavorare di più per abbattere anche quel restante 93%».
E come si potrebbe fare?
«Per esempio, aiutandoli a fissare un prezzo per le emissioni di CO2, come l’Unione europea già ha fatto, e a passare rapidamente alle energie rinnovabili. Mi lasci citare una statistica che mi ha sempre colpito. Vengo da un piccolo Paese (i Paesi Bassi – ndr) dove piove la maggior parte del tempo. Ecco, in quel piccolo Paese ci sono più pannelli solari che in tutta l’Africa messa insieme. Possiamo vederlo come un problema, e in effetti lo è. Ma possiamo anche considerarla un’enorme opportunità».
Nel 2020, quando era ancora ministro delle Finanze, si oppose alla creazione di uno strumento per aiutare i Paesi più indebitati come l’Italia attraverso un programma di debito comune. Oggi sarebbe favorevole a un programma simile per finanziare la transizione ecologica?
«Innanzitutto, mi lasci dire che sono molto favorevole al tipo di strumento che alla fine è venuto fuori, perché abbiamo stabilito un legame molto forte tra investimenti e riforme. E penso che sia una buona ricetta perché i politici non spendono i propri soldi, ma quelli di cittadini e aziende che pagano le tasse. Per quanto riguarda la possibilità di un nuovo programma di debito comune per la transizione ecologica, direi che il centro di gravità si sta spostando altrove. La mia sensazione è che la prossima Commissione investirà di più nella geopolitica e nell’innovazione».
Spostiamoci per un attimo sullo scacchiere internazionale. La lotta ai cambiamenti climatici è una delle poche questioni su cui Paesi molto diversi tra loro riescono ancora a sedersi allo stesso tavolo. Misure come i dazi contro le auto elettriche importate dalla Cina non rischiano di esporre l’Ue a possibili ritorsioni da parte di Pechino?
«L’umanità non ha alternative: dobbiamo lavorare tutti insieme per risolvere questo problema. Nell’azione per il clima l’Europa sta facendo anche più di quanto gli spetterebbe, ma non dovremmo essere gli unici. Credo che la Cina, i Paesi del Golfo e un buon numero di altri Paesi con maggiore influenza dovrebbero assumersi maggiori responsabilità. Per quanto riguarda i dazi sui veicoli cinesi, c’è bisogno di giocare ad armi pari. Se continuassi ad accettare che l’Europa sia inondata da prodotti sovvenzionati da aiuti statali e concorrenza sleale, allora metterei davvero a repentaglio il sostegno delle nostre aziende e dei nostri cittadini per le politiche climatiche. In sintesi, dobbiamo essere molto chiari: veniamo in pace, ma siamo disposti a intervenire laddove necessario per difendere la parità di condizioni, l’integrità del mercato unico e l’insieme di regole che ci siamo dati. Solo così continueremo a essere protagonisti del commercio internazionale».
L’altra grande incognita sul piano internazionale riguarda le prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Che impatto avrebbe una vittoria di Donald Trump sulle politiche per il clima?
«Non abbiamo alternative che non siano lavorare con qualsiasi leader democraticamente eletto degli Stati Uniti. Indipendentemente dalle nostre preferenze individuali, nel campo della geopolitica, della sicurezza e dell’azione per il clima, continueremo a lavorare insieme ai nostri amici americani».
La cop28 di Dubai, dove lei è stato capo negoziatore per l’Ue, ha raggiunto un risultato storico. Eppure, la sensazione è che ci sia una buona fetta di Paesi che non ha intenzione di onorare davvero gli impegni presi. Come se ne esce?
«È vero, è un problema reale. Il primo passo di un accordo è concordare qualcosa, il secondo passo è eseguirlo. Dobbiamo continuare a lavorare per far sì che venga realizzato ciò che si è deciso negli Emirati Arabi Uniti. Dovremmo essere tutti custodi di quell’accordo e certamente noi europei continueremo ad esserlo. Dopodiché, ci sono buoni motivi per essere ottimisti. Se i paesi pensassero davvero che questi accordi hanno poco significato e possono semplicemente tirarsi indietro da un momento all’altro, allora forse non combatterebbero così ferocemente per difendere la loro posizione e sarebbe molto più facile raggiungere un accordo. La realtà però ci dice il contrario. Anche se non esiste un obbligo legale da seguire, questi accordi acquisiscono una dinamica propria una volta approvati. O almeno, questo è ciò che abbiamo imparato dal passato».
La scorsa settimana lei era a Baku, in Azerbaigian, sede della prossima conferenza Onu sul clima. Cosa dovremmo aspettarci dalla Cop29?
«Come lo scorso anno, il contesto non è facile ma abbiamo l’imperativo di raggiungere un buon risultato. Le mie priorità sono tre. Primo: i new collective quantified goals (Ncqg), ossia spingere sulla finanza sostenibile. Secondo: fare progressi sui punti dell’accordo raggiunto alla conferenza di Dubai. Terzo: fissare un prezzo alle emissioni di anidride carbonica, perché è una delle cose più utili che possiamo fare. So che è una questione tecnica e che molte persone faticano a comprenderla, ma è anche una delle politiche più efficaci che abbiamo a disposizione. Vorrei vedere più Paesi metterla in pratica, perché incentiva le aziende a fare ciò che è giusto, ossia emettere meno».
In copertina: Il commissario europeo all’Azione per il Clima, Wopke Hoekstra (EPA/Ronald Wittek)