https://www.lifegate.it/vertice-nato-75-anni
- |
La Nato alla prova dell’età, così come Joe Biden. Il presidente degli Stati Uniti ha accolto ieri a Washington i leader dei paesi membri dell’Alleanza atlantica per celebrare i 75 anni dalla sua istituzione. Il vertice potrebbe fungere da spartiacque per quanto riguarda il futuro delle scelte politico-militari dell’alleanza e le pretese di contare veramente nelle sfide globali. Sul banco, ovviamente, il sostegno militare all’Ucraina e il suo ingresso, temi su cui la Nato non vuole indietreggiare, come si è capito dalle dichiarazioni fatte nella giornata inaugurale. Ma a contare al vertice di questi giorni sarà anche ciò che non verrà incluso nei tanti discorsi celebrativi che si susseguiranno. Un non detto che parla di una Nato fiaccata, segnata da un storia fatta di spaccature interne ricorrenti, e che la questione russa, da sola, non potrà ricompattare. Un’istituzione in crisi esistenziale che, più che determinare nuove dinamiche mondiali, rischia di esserne travolta.
Come è andata la prima giornata del vertice Nato a Washington
Nella giornata inaugurale sono già arrivate indiscrezioni che non sembrano lasciare spazio a interpretazioni. Citando un funzionario ucraino, Politico ha anticipato che i paesi membri dichiareranno che il percorso dell’Ucraina verso l’adesione all’alleanza è “irreversibile”, precisando che nella dichiarazione finale sarà messo nero su bianco la scadenza per l’ingresso di Kiev nella Nato. Nel frattempo, ieri il presidente Biden ha tenuto un discorso diretto e privo delle esitazioni oggetto di critica nelle ultime settiman, in cui ha sostenuto che “l’Ucraina può fermare Putin e lo farà. La Russia non prevarrà. L’Ucraina prevarrà”. Biden ha dunque rimarcato il sostegno all’Ucraina, annunciando che Stati Uniti, Germania, Paesi Bassi, Romania e Italia forniranno Zelensky cinque sistemi di difesa aerea Patriot nei prossimi mesi. Una richiesta che da tempo era stata avanzata da Kiev, ma nonostante ciò Zelensky ha subito definito la fornitura di Patriot insufficiente, aggiungendo che “l’Ucraina necessita immediatamente di almeno 128 aerei da combattimento F-16 forniti dall’Occidente, altrimenti non sarà in grado di competere con l’aeronautica russa”.
Ad intervenire ieri è stato anche il segretario generale uscente Jens Stoltenberg, autore di un “lavoro straordinario” secondo le parole di Biden, che citando il nuovo rapporto annuale dell’alleanza sul cambiamento climatico e la sicurezza, ha quantificato in oltre 29 miliardi di euro i danni climatici causati dall’invasione russa dell’Ucraina.
A ottobre Stoltenberg cederà ufficialmente il testimone al segretario designato Mark Rutte. Ex capo del governo dei Paesi Bassi, Leader conservatore di orientamento liberale, apertamente pro-mercato e alfiere dei “paesi frugali” dell’Unione europea per la sua linea rigorosa sui conti pubblici, Rutte ha saputo ritagliarsi un ruolo di rilievo nella politica nazionale e comunitaria nell’ultimo decennio. Alla guida dei Paesi Bassi Rutte ha saputo fronteggiare diverse crisi, coalizzandosi strategicamente di volta in volta con partiti di estrema destra o riformisti per mantenere il governo. Non a caso è risultato il leader continentale più longevo dopo Angela Merkel fino alla sua uscita di scena nel 2021. Nemmeno lo scandalo che lo ha coinvolto nel 2021, costringendolo alle dimissioni, gli ha impedito di ambire alla prestigiosa guida della Nato, per la quale ha incassato il sostegno fondamentale di Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania.
La nascita della Nato e l’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico
La storia dell’Alleanza atlantica, celebrata in queste ore, si snoda attraverso tutta la seconda metà del Novecento per arrivare fino ai giorni nostri. La nascita formale della Nato, avvenuta il 4 aprile del 1949, è stato l’atto formale che ha sancito l’abbandono definitivo della politica isolazionista degli Stati Uniti nei confronti dell’occidente, all’indomani della Seconda guerra mondiale. Già due anni prima il presidente Harry Truman aveva lanciato la dottrina del contenimento – o dottrina Truman, appunto – mirata a contenere l’espansionismo sovietico in Europa, che in quegli anni appariva evidente soprattutto in Grecia e Turchia. Per accelerare ulteriormente il processo, nel giugno del 1948 il senato statunitense ha approvato la risoluzione Vandenberg che permetteva al presidente di stringere accordi di difesa comune con paesi esteri. In due anni si è arrivati alla firma del Trattato del Nord Atlantico, a cui hanno aderito Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca.
Il documento è stato ratificato dai parlamenti nazionali con estrema rapidità e non senza contestazioni laddove i partiti comunisti erano particolarmente forti, come nel caso di Italia e Francia. La Svezia, invitata a partecipare, ha rifiutato per preservare la sua storica neutralità. Gli obiettivi iniziali dell’alleanza erano essenzialmente tre: neutralizzare la Germania post-bellica, indirizzandone la ricostruzione istituzionale; difendersi dalla minaccia sovietica e costruire un legame robusto tra gli Stati Uniti e l’Europa. Dal punto di vita politico-militare, la Nato si presentava come un’entità a scopo difensivo, come norma l’articolo 5 del trattato istitutivo:
“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica”.
Il travagliato rapporto tra la Nato e la Francia
In 75 anni la Nato è divenuta il simbolo più pragmatico e concreto del concetto di occidente nella sua versione novecentesca, ma ciononostante la sua storia non è stata risparmiata da frizioni interne legate ai pesi delle potenze partecipi, fasi di tensione e distensione con il nemico esterno e processi di allargamento. All’inizio anni Sessanta, l’allora presidente francese Charles de Gaulle ha iniziato un processo di divergenza dall’alleanza. De Gaulle, che aveva contribuito a liberare la Francia dai nazisti grazie agli Alleati, era critico nei confronti della centralità statunitense. Decise quindi di costruire una forza di difesa indipendente per il suo paese, che gli avrebbe permesso di agire autonomamente rispetto al blocco occidentale anche nel caso di guerra con l’Unione Sovietica.
Nel 1966, tutte le forze armate francesi furono rimosse dal comando militare integrato della Nato, alle cui truppe in servizio sul suolo francese fu chiesto di lasciare il paese. Tuttavia, la Francia restò formalmente nell’alleanza con l’impegno di supportare la Nato in caso di attacco esterno. Nell’aprile del 2009 la Francia ha fatto ritorno alla piena adesione dell’organizzazione compreso il rientro nella struttura di comando militare della Nato mantenendo, tuttavia, un deterrente nucleare indipendente.
La diplomazia dei missili durante la Guerra Fredda
Gli anni precedenti il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sono stati caratterizzati da alterne fasi di distensione e escalation tra i blocchi. in questa fase come le scelte statunitensi erano motivate prevalentemente dalla necessità di evitare il faccia a faccia con l’Unione Sovietica, reso possibile dalla proliferazione armamenti, in particolare missili a medio raggio, di quegli anni. Dopo una prima fase di distensione sotto la presidenza Nixon, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta è iniziata una lunga fase di escalation transitata per l’ammodernamento dei sistemi missilistici delle due potenze, l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 e l’arrivo alla presidenza di Ronald Reagan. In questa fase gli Stati Uniti hanno aumentato considerevolmente le spese militari e dato avvio al programma mai realizzato denominato Strategic Defense Initiative, passato alla storia come lo “scudo spaziale”, per proteggere il paese da attacchi di missili balistici con testate nucleari.
L’approccio aggressivo nei confronti di un’Unione Sovietica ormai allo stremo spinse il presidente Michail Gorbaciov a trattare con Washington per ridurre i rispettivi arsenali nucleari e convenzionali. Un passo decisivo in questo senso avvenne nel 1990 con la firma del trattato Start I che prevedeva la riduzione del 50 per cento delle armi nucleari strategiche. Con il crollo dell’Unione Sovietica, molti studiosi si aspettavano che l’alleanza si sciogliesse, avendo completato la sua missione. Invece, la Nato trovò una nuova ragion d’essere trasformandosi da alleanza militare difensiva in una forza per il cambiamento politico ampio in Europa, cominciato con la dissoluzione della Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta.
1999: le bombe sul Kosovo
Gli anni Novanta hanno significato per la Nato un lungo, complesso e costoso impegno militare nei Balcani, lacerati dalle guerre etniche nella ex Jugoslavia. Con le guerre jugoslave tra il 1990 e il 1995, infatti, l’Europa ha vissuto il primo conflitto armato dalla fine della Seconda guerra mondiale sul proprio territorio combattuto in particolare tra Serbia e Croazia, con la Bosnia ed Erzegovina come terreno di scontro privilegiato. Ma è dalla violenza inaudita della guerra in Kosovo che la Nato è uscita più debole e controversa.
Nel marzo del 1999, l’allora segretario generale spagnolo Javier Solana diede il via all’operazione Allied Force, che prevedeva una serie di bombardamenti sui territori di Serbia e Kosovo. L’operazione fu una risposta militare dopo che il leader serbo Slobodan Milošević – che aveva iniziato un’operazione di “serbizzazione” del Kosovo – si era rifiutato di ascoltare le richieste della comunità internazionale. I bombardamenti andarono avanti per 78 giorni, provocando un numero imprecisato e mai definitivamente chiarito di vittime civili. Le bombe della Nato, giustificate come “intervento umanitario”, danneggiarono oltre 300 scuole e ospedali, distrussero più di 60 ponti e misero in ginocchio il sistema infrastrutturale e industriale della Serbia causando danni per oltre 30 miliardi di euro.
L’espansione della Nato e le tensioni con la Russia
La Nato ha intrapreso anche un lento e complesso processo di espansione volto a radicare istituzioni democratiche e di mercato libero nelle nazioni europee dove il comunismo si era ritirato. Al vertice di Washington del 1999, che celebrava il 50º anniversario della Nato, l’alleanza accolse quindi la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria come nuovi membri, arrivando a 19. Nel 2009 i paesi membri erano diventati 28, complice l’effetto globale degli attentati dell’11 settembre 2021 e la guerra al terrorismo che ne è conseguita. Tra i nuovi membri c’erano anche Polonia ed Estonia, che vedevano la Nato principalmente come un mezzo per legare gli Stati Uniti alla loro sicurezza in chiave anti-russa, e a questo proposito hanno costruito legami con le forze speciali e i servizi di intelligence statunitensi. La spinta verso est della Nato è diventata fatale con il vertice di Bucarest del 2008, quando Bush, ignorando le raccomandazioni dei suoi consiglieri, forzò la mano ai riluttanti capi di stato europei per promettere l’adesione futura alla Nato per Ucraina e Georgia. La Russia invase quest’ultima nello stesso anno, mentre nel 2014 procedette all’annessione della Crimea.
Sono proprio le vicende di Georgia e Ucraina ad aver determinato una nuova direzione nelle scelte dell’alleanza atlantica. Nell’ultimo decennio, il centro di gravità della strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti si è progressivamente allontanato dall’anti-terrorismo per abbracciare una nuova era di sfide tra grandi potenze. Per gli Stati Uniti, questo significa innanzitutto la Cina. Ma per gli europei, ha coinciso con il ritrovarsi ancora una volta faccia a faccia con la Russia. L’invasione su larga scala della Russia in Ucraina nel 2022 e la guerra in corso ne sono l’esempio lampante.
Il vertice in corso a Washington sarà il primo a vedere la partecipazione della Svezia, entrata nell’alleanza nel 2023, circa un anno dopo la Finlandia. Entrambe hanno così abbandonato una storica neutralità nella ricerca di una maggiore protezione militare in chiave anti-russa. In termini strategici, l’inclusione di Svezia e Finlandia potrebbe essere considerata una vittoria netta dell’alleanza nei confronti di Mosca, che a seguito dell’invasione dell’Ucraina risulta ancora più “accerchiata”. La Nato ha infatti aumentato considerevolmente la propria proiezione a nordest, rassicurando anche paesi Baltici e Polonia ed eliminando al contempo il “cuscinetto” che in quell’area si era venuto a creare. “A livello di capacità” – si legge da un’analisi dell’Ispi – “Finlandia e Svezia potrebbero portare un contributo in termini di difesa aerea. La Finlandia è inoltre uno dei pochi paesi ad aver mantenuto un servizio di leva obbligatoria, garantendo così al Paese, dalla popolazione limitata, un’importante e addestrata riserva”. Con l’invasione russa dell’Ucraina il supporto dei cittadini di Svezia e Finlandia alla difesa nazionale, prevista anche dalla costituzione finlandese, è cresciuto ancora di più.
La tarda età dell’Alleanza atlantica
Nel corso dei suoi 75 anni la Nato non è mai stata immune da crisi. La crisi di Suez del 1956, la fine della Guerra Fredda, le divergenze con i paesi europei sull’intervento nel Kosovo e l’opposizione di Francia e Germania all’invasione dell’Iraq da parte di Bush sono tutti momenti che hanno alimentato posizioni e analisi circa la fine dell’alleanza. Una fine nei fatti mai arrivata.
Ma la situazione odierna è nettamente diversa rispetto al passato. Le forze che stanno spingendo la Nato verso “un precipizio”, come ha scritto Stephen Walt su Foreign Affairs, “vanno oltre le inclinazioni personali dei singoli leader come Trump o Marine Le Pen”. Oggi sono le mutate dinamiche mondiali a configurare l’alleanza nata sulle ceneri della Seconda Guerra Mondiale come un’entità radicata nel passato, che accusa i colpi del tempo come i leader chiamati a risollevarla. Oggi l’Europa non ha più un ruolo chiave, né dal punto di vista politico né di sviluppo industriale, sorpassata da paesi che crescono al doppio della velocità.
Nel frattempo, la Cina è arrivata a giocare a viso aperto al tavolo degli Stati Uniti: “Oggi, la quota dell’Asia nell’economia mondiale e del 54 per cento, sostanzialmente maggiore del 17 per cento dell’Europa. Anche il suo contributo alla crescita economica globale è maggiore”, continua Walt. Questo non vuol dire che l’Europa non abbia alcuna importanza, ma non occupa più il posto d’onore tra gli interessi strategici degli Stati Uniti. E con Trump all’orizzonte, questo divario potrebbe allargarsi ulteriormente.