Crisi climatica, la riapertura del dialogo tra Cina e Stati Uniti potrebbe essere la svolta di Cop27 in Egitto

ValigiaBlu

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Il G20 in Indonesia potrebbe avere ricadute importanti anche sull’agenda climatica e dare una piccola scossa alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima in corso in Egitto. Il 14 novembre, alla vigilia del G20 in Indonesia, si sono incontrati il presidente statunitense Joe Biden e quello cinese Xi Jinping. È il primo contatto diretto dopo il congresso in Cina e le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. I due leader hanno fatto dei passi in avanti l’un l’altro verso la riapertura del dialogo sul clima, soddisfacendo le richieste dell’inviato speciale per il clima degli USA, John Kerry, che appena tre settimane fa aveva esortato i due paesi a riprendere i negoziati. 

“Il mondo si aspetta, credo, che Cina e Stati Uniti svolgano un ruolo chiave nell'affrontare le sfide globali, dai cambiamenti climatici all'insicurezza alimentare, e che siano in grado di lavorare insieme. Gli Stati Uniti sono pronti a fare proprio questo, a lavorare con voi, se questo è il vostro desiderio”, ha detto Biden. Dopo l'incontro, la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che i due leader “hanno concordato di conferire ai principali alti funzionari il potere di mantenere la comunicazione e approfondire gli sforzi costruttivi” sul cambiamento climatico e su altre questioni. Anche il Ministero degli Affari Esteri cinese ha rilasciato un comunicato in cui dichiara che “sono in corso grandi cambiamenti come mai prima d'ora. L'umanità si trova di fronte a sfide senza precedenti. Il mondo è arrivato a un bivio. Verso dove dobbiamo andare?”.

Gli Stati Uniti e la Cina sono i due maggiori emettitori di gas serra che hanno portato le temperature globali in media a 1,1°C oltre i livelli preindustriali, vicini alla soglia di 1,5°C oltre la quale potrebbero esserci cambiamenti irrimediabili per il pianeta. L’intesa tra i due paesi aveva contribuito ad arrivare all’accordo di Parigi, nel 2015, il primo patto sul riscaldamento globale in cui sia i paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo si sono impegnati a ridurre i gas serra. “È inimmaginabile mantenere l’aumento delle temperature globali entro 1,5°C senza che Stati Uniti e Cina si parlino per il resto di questo decennio”, ha commentato Li Shuo, consulente politico di Greenpeace a Pechino. “I due paesi devono dare il segnale che il cambiamento climatico rappresenta una minaccia esistenziale per l'umanità per cui vale la pena mettere da parte le divergenze”.

I colloqui tra i due Stati sono stati congelati per mesi tra le crescenti tensioni sul commercio, su Taiwan e una serie di questioni di sicurezza. Durante questa prima settimana di COP in Egitto, l’inviato USA per il clima, Kerry, e la sua controparte per la Cina, Xie Zhenhua, non hanno avuto incontri formali, per quanto in molti li hanno visti diverse volte insieme. 

“Non c'è modo di affrontare la sfida climatica che abbiamo di fronte senza la cooperazione di tutti i membri del G20 e in particolare senza la cooperazione delle due maggiori economie, gli Stati Uniti e la Cina. E sono molto felice che i due paesi abbiano avuto un vertice oggi”, ha commentato il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.

“Agli Stati piace nascondersi dietro USA e Cina e dire: ‘Se i due maggiori inquinatori non stanno lavorando insieme, perché dovremmo farlo noi?’”, spiega Bernice Lee, esperta di politica climatica presso l'istituto britannico Chatham House. Per questo, la riapertura dei dialoghi tra Cina e Stati Uniti potrebbe dare una scossa ai colloqui alla COP27 in Egitto proprio nella settimana in cui si dovrà arrivare a concordare un testo finale. Anche se non è ancora chiaro come la rinnovata cooperazione tra Washington e Pechino possa tradursi in accordi concreti entro il 18 novembre, giorno di chiusura della Conferenza sul Clima. 

Anzi, i due paesi sono in disaccordo su diversi fronti. A partire dall’istituzione di un nuovo fondo per aiutare i paesi poveri a far fronte alle perdite e ai danni causati dai continui disastri climatici, come le devastanti inondazioni in Pakistan e Nigeria o la necessità di trasferire le comunità insulari per l'innalzamento del livello del mare. Ipotesi alla quale si oppone l’amministrazione Biden, scrive il New York Times, “in parte perché è improbabile che riesca a ottenere fondi dal Congresso, e in parte perché l'amministrazione non vuole essere ritenuta responsabile dell'aumento vertiginoso dei costi dei disastri globali”. Kerry ha aggiunto che non potrebbe esserci un nuovo fondo senza il coinvolgimento della Cina, scatenando così il risentimento dell’inviato per il clima cinese. Pechino – che, invece, si aggrappa al suo status di paese in via di sviluppo e non di nazione industrializzata all’interno dell’organismo ONU per il clima – sarebbe disposta a spendere denaro per aiutare i paesi più poveri, ma solo attraverso canali separati. Poi c’è la questione degli impegni per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Nei giorni scorsi girava voce che la Cina volesse opporre resistenza a menzionare questo obiettivo nel testo ufficiale della COP27 ma, riporta Reuters, l’inviato cinese Xie Zhenhua ha dichiarato che la Cina non si oppone a farvi riferimento esplicito nel documento finale della Conferenza sul clima.

In ogni caso, scrive il think tank Ecco, i colloqui in Indonesia, durante il vertice dei paesi G20, potrebbero essere utili in Egitto per sbloccare lo stallo in cui si trovano i negoziati sul clima dopo la prima settimana di COP27. 

Finora si è parlato più di adattamento agli effetti della crisi climatica che di mitigazione del cambiamento climatico. Ma, come osserva l’analista Annalisa Perteghella su Twitter, “senza una riduzione delle emissioni, gli impatti climatici sono destinati ad aumentare, e con essi la quantità di fondi richiesta per riparare i danni. 

La lentezza dei negoziati ha fatto serpeggiare a un certo punto il timore che l’accordo finale potesse sacrificare il limite di 1,5°C, tornando in qualche modo all’epoca pre-Parigi 2015. “Ci sono troppe questioni irrisolte. Se creiamo un ingorgo nel processo, non otterremo un risultato degno della crisi”, ha commentato alla BBC il segretario esecutivo della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Simon Stiell.

Qui il sito britannico Carbon Brief sta tenendo traccia dell’andamento dei negoziati: 

Secondo due rapporti pubblicati in questi giorni, a cura rispettivamente del Global Carbon Project (GCP) e di Climate Action Tracker, l’andamento delle emissioni di Co2 e le azioni intraprese per fronteggiare la crisi energetica stanno accelerando il momento in cui supereremo la soglia dei fatidici 1,5°C. 

Nel 2022, mostra lo studio di Global Carbon Budget, abbiamo immesso nell’atmosfera 40,6 miliardi di tonnellate di Co2. Di questo passo, scrive Ferdinando Cotugno su Twitter, “a oggi abbiamo una possibilità su due di superare la prima soglia critica di +1.5°C già tra nove anni”. Se, invece, le emissioni proseguissero ai livelli attuali, supereremmo gli 1,5°C in circa sei anni e mezzo. Per arrivare a zero emissioni entro il 2050, spiega il rapporto, serve una riduzione di 1,4 miliardi di tonnellate di Co2 ogni anno, in pratica quanto accaduto nel 2020 grazie ai lockdown per la pandemia, ma questa volta con un cambiamento strutturale a lungo termine dell'economia. Il che restituisce la portata immensa della sfida che abbiamo davanti. 

Lo studio di Climate Action Tracker rileva, invece, che la realizzazione di tutti progetti gas naturale liquefatto (GNL) in fase di costruzione, approvati e proposti da qui al 2050, minaccia seriamente il raggiungimento dell’obiettivo di 1,5°C.

Le conclusioni di Climate Action Tracker suggeriscono, dunque, che qualsiasi aumento della produzione di combustibili fossili, compreso il gas, sarebbe in diretto contrasto con gli obiettivi dell'Accordo di Parigi. Anzi, il punto di partenza di ogni politica energetica dovrebbe prevedere la sospensione di investimenti in espansione, esplorazione e produzione di nuovi combustibili fossili. E invece la scorsa settimana la presidenza egiziana ha sottolineato “il ruolo vitale del petrolio e del gas nella transizione energetica”, in evidente contrasto con le richieste di molti leader africani per una transizione alle energie rinnovabili e che hanno parlato di "colonialismo energetico": la corsa dell'Occidente al gas di paesi più poveri e più colpiti dalla crisi climatica che finisce con l’imprigionarli in progetti inquinanti di combustibili fossili con pochi benefici economici o energetici per le comunità la cui terra, acqua e patrimonio saranno sacrificati. Si stima che in tutta l'Africa 600 milioni di persone non abbiano ancora accesso all'elettricità, in gran parte perché la maggior parte degli investimenti in combustibili fossili è diretta alle infrastrutture per l'esportazione piuttosto che alla fornitura di energia a valle agli africani, scrive Nina Lakhani sul Guardian. “Mentre spingiamo per una rapida transizione, dobbiamo pensare in modo più critico agli investimenti e alla loro regolamentazione, in modo che l'energia sia meno estrattiva, che le aziende siano ritenute responsabili e che le comunità traggano beneficio attraverso la comproprietà o la proprietà comunitaria”, spiega Thea Riofrancos, docente di scienze politiche al Providence College ed esperta di estrazione di risorse, energia rinnovabile, cambiamento climatico e movimenti sociali. “Una transizione equa dipende da sistemi energetici che funzionano per tutti”, osserva Lakhani.

Anche l'Agenzia Internazionale dell'Energia (IEA), in un nuovo rapporto pubblicato il 15 novembre, ha affermato che "il mondo deve muoversi rapidamente per ridurre in modo significativo le emissioni di anidride carbonica prodotte dal carbone per evitare i gravi impatti dei cambiamenti climatici, chiedendo un'azione politica immediata per mobilitare rapidamente finanziamenti massicci per le energie pulite alternative al carbone e per garantire transizioni sicure, accessibili ed eque, soprattutto nelle economie emergenti e in via di sviluppo".

Da questo punto di vista, l’India ha avanzato una proposta dirompente chiedendo di allargare a tutti i combustibili fossili la transizione ecologica. Secondo quanto riportato da Bloomberg, l’India starebbe spingendo infatti affinché COP27 si concluda con una decisione sulla riduzione graduale di tutti i combustibili fossili, e non solo il carbone, dunque. Il vicepresidente della Commissione europea Timmermans si è espresso a favore, a condizione che questo non "sminuisca" l'accordo sulla riduzione graduale del carbone raggiunto alla COP26 di Glasgow. Contestualmente, aggiunge Reuters, l’India ha presentato un rapporto in cui afferma che darà priorità alla transizione graduale verso combustibili più puliti e alla riduzione dei consumi domestici per raggiungere le zero emissioni nette pari entro il 2070, rispettando così gli impegni di decarbonizzazione assunti nel 2021. Il piano a lungo termine dell'India si concentra su sei aree chiave, tra cui l'elettricità, l'urbanizzazione, i trasporti, le foreste, la finanza e l'industria. “La novità del piano è che si concentra sulla riduzione dei consumi a livello individuale o domestico, oltre a includere la cattura, l'uso e lo stoccaggio del carbonio”, spiega Taryn Fransen, esperta di politiche internazionali sul cambiamento climatico presso l'istituto no-profit World Resources Institute.

Infine, per quanto riguarda la questione delle “perdite e danni”, ovvero degli impatti che possono essere riparati e di quelli irreversibili, per la prima volta è entrata nell’agenda ufficiale dei negoziati l’ipotesi della creazione di un fondo dedicato, con l’impegno a trovare una soluzione entro il 2024. Tuttavia, come detto, le divisioni tra paesi industrializzati ed emergenti è netta. Biden ha rilanciato la proposta del G7 tedesco del Global Shield, che prevede dei meccanismi assicurativi ma non contempla la parte dei risarcimenti, “elemento fondamentale di giustizia climatica richiesto dai paesi in via di sviluppo”, commenta sempre Perteghella. La prima ministra delle Barbados, Mia Mottley, ha lanciato ufficialmente la Bridgetown Initiative, la sua idea di riforma del sistema finanziario internazionale e delle banche multilaterali di sviluppo. 

La situazione è critica, ha avvertito al Guardian l’Amministratore del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Achim Steiner: “Attualmente 54 paesi in via di sviluppo sono a rischio default e se ci saranno altri shock - innalzamento dei tassi di interesse, prestiti più costosi, aumento dei prezzi dell'energia e dei prodotti alimentari - diventerà quasi inevitabile vedere un certo numero di queste economie incapaci di pagare”. E un eventuale default “non aiuterà di certo l'azione [per il clima]... la questione del debito è diventata un problema così grande per molte economie in via di sviluppo che affrontare la crisi del debito diventa un prerequisito per accelerare effettivamente l'azione per il clima”. 

Alcuni paesi in via di sviluppo rischiano di abbandonare i negoziati sul clima delle Nazioni Unite se i governi delle nazioni sviluppate non manterranno la promessa fatta da tempo di fornire assistenza per 100 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici a ridurre le emissioni di gas serra e ad adattarsi agli impatti degli eventi climatici estremi. 

Nel frattempo, la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) ha pubblicato una bozza di testo sul finanziamento delle “perdite e danni” sulle quali potrebbero convergere i paesi alla fine della COP27. Secondo questa bozza ci sarebbero due opzioni di finanziamento delle perdite e danni: una prima prevede che il processo porti a “disposizioni di finanziamento” entro novembre 2024 attraverso uno strumento di finanziamento delle Nazioni Unite; una seconda rimanderebbe al 2023 la decisione sul ruolo dell’organismo dell’ONU per il clima in un più ampio “mosaico” di opzioni per finanziare perdite e danni. “Il finanziamento delle perdite e dei danni per le nazioni in via di sviluppo e il sostegno nazionale alle industrie dell'energia pulita possono essere politicamente difficili, ma sono investimenti necessari”, commenta Frank Jotzo, professore alla Crawford School of Public Policy e direttore del Centre for Climate Economics and Policy dell'Australian National University. 

Un gruppo di media ha chiesto di imporre una tassa sul clima ai giganti dei combustibili fossili

Il Guardian e decine di testate internazionali hanno pubblicato un editoriale congiunto per chiedere una riflessione radicale su come finanziare l'azione per il clima nei paesi più poveri. “L'umanità deve porre fine alla sua dipendenza dai combustibili fossili. I paesi ricchi rappresentano oggi solo una persona su otto nel mondo, ma sono responsabili della metà dei gas serra. Queste nazioni hanno la chiara responsabilità morale di dover aiutare gli altri”, si legge nell'editoriale congiunto, coordinato dal Guardian. “Il cambiamento climatico è un problema globale che richiede la cooperazione di tutte le nazioni. Non è il momento per l'apatia o l'autocompiacimento; l'urgenza del momento è su di noi”. [Continua a leggere qui]

TuNur, il modello di esportazione di energia verde dal Nord Africa all’UE

Un'impresa britannico-tunisina sta progettando una gigantesca centrale solare nel deserto della Tunisia, un impianto che richiede un enorme consumo d’acqua. L’energia verde però andrà solo all’Europa, scrivono Arianna Poletti e Aïda Delpuech su Irpi. «Non ci opponiamo alle rinnovabili, ma chiediamo una transizione energetica equa, che prenda in considerazione le rivendicazioni sociali e ambientali locali e non riproduca le dinamiche dell’industria fossile», ripetono le comunità che osservano l’installazione dei pannelli solari europei dalla finestra di casa. [Continua a leggere qui]

Un patto sul clima guidato da Stati Uniti e Giappone offrirà all'Indonesia 15 miliardi di dollari per abbandonare il carbone

USA, Giappone e altri paesi offriranno collettivamente un accordo di finanziamento per il clima del valore di almeno 15 miliardi di dollari per aiutare l'Indonesia ad abbandonare il carbone, riporta Bloomberg. L'accordo consentirebbe all'Indonesia di accelerare gli sforzi per fermare la produzione di combustibili fossili in eccesso e di limitare i progetti di energia a carbone, fattori che attualmente ostacolano lo sviluppo delle energie rinnovabili. [Continua a leggere qui]

Lo spaventoso ritiro del ghiacciaio di Fellaria in un time-lapse: "Non è facile trovare gli aggettivi per descrivere cos'è successo negli ultimi 4 mesi"

Lo spaventoso ritiro del ghiacciaio di Fellaria in un time-lapse della torrida estate 2022. Il video è stato realizzato dal Servizio Glaciologico lombardo e testimonia la fusione vissuta dal Ghiacciaio di Fellaria, nell'Alta Valmalenco, negli ultimi 4 mesi, con diverse comparazioni anche pluriennali a partire dal 2019. 

"Non è facile trovare gli aggettivi giusti - scrivono gli esperti del Servizio Glaciologico - per descrivere cos'è successo negli ultimi 4 mesi sui ghiacciai lombardi, italiani, alpini. È pur vero che in un regime climatico caratterizzato da temperature in aumento i record si battono più facilmente, ma l'anno idrologico 2021-2022 è stato qualcosa di più, qualcosa di talmente anomalo da costringerci ad aggiornare tutte le scale grafiche per i nostri bilanci di massa, qualcosa che speravamo non potesse arrivare così presto e con questa forza". [Continua a leggere qui]

Immagine in anteprima: Frame video Bloomberg via YouTube

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