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Sprechiamo tantissimo cibo, è vero. Ma siamo sicuri sia tutta colpa nostra? Siamo certi che sia tutta responsabilità del consumatore? Partiamo dai numeri: lo spreco alimentare riguarda un terzo del cibo che viene prodotto ogni anno.
Milioni di tonnellate di frutta, verdura, cereali che vengono coltivati e poi trasformati per diventare cibo, in realtà si trasformano in spreco prima ancora di finire nel nostro stomaco. Gli esperti lo chiamano food waste ed è un fenomeno di dimensioni impressionanti. In termini di cambiamenti climatici, vale l’8 per cento del totale delle emissioni di CO2 a livello globale.
Spreco alimentare, cosa c’è dietro queste due parole
Ma di chi è davvero la colpa di tutto questo spreco? La risposta più semplice è: noi. Ma è una risposta fuorviante e controproducente. Pensiamoci, non appena nominiamo la parola spreco, la nostra mente visualizza immediatamente il sacco dell’immondizia di casa, il contenitore dell’umido che, anche questa volta, ospita suo malgrado la carota raggrinzita rimasta in un anfratto del frigo per lunghi mesi, l’insalata del giorno prima che nessuno ha più voglia di mangiare e quel vasetto di yogurt comprato in offerta al supermercato che è scaduto chissà da quanto tempo. Diciamo la verità, siamo talmente abituati a questa immagine che oramai ci sembra normale riversare tutte le responsabilità sul consumatore, su noi stessi, reo di non prestare attenzione agli acquisti, di non programmare la spesa o, peggio, di fregarsene. In effetti, l’ultimo rapporto di Waste Watcher 2024 racconta che nelle case degli italiani ogni settimana vengono gettati 683,3 grammi di cibo pro capite. Tantissimo in assoluto, una enormità se pensiamo che l’anno prima ne veniva sprecato molto meno.
Leggendo questi dati sembra proprio che la responsabilità sia tutta nostra. Ma proprio tutta. Solo che in questo racconto mancano altri due attori protagonisti: il primo, quello subdolo, che ci spinge a consumare sempre di più. Il secondo, quello che non si vede, si verifica ancor prima che il consumatore se ne possa accorgere.
I protagonisti dello spreco alimentare
L’induzione al consumo
Viviamo nella società del consumo, siamo invogliati a comprare cibo di ogni tipo, siamo circondati di offerte mirabolanti, quando entriamo in un supermercato siamo indotti a comprare cibo che costa poco, a volte pochissimo, e che spesso non non solo non sa di nulla ma è di pessima qualità. L’induzione al consumo è uno degli elementi basilari della nostra vita e ha un impatto enorme sullo spreco.
La realtà delle campagne
Nel rapporto Siamo alla frutta, ad esempio, l’associazione Terra! Ha dimostrato che la frutta che non soddisfa i canoni estetici della Grande distribuzione organizzata, semplicemente non arriva sugli scaffali, resta a marcire in campo, diventa spreco (quello che in termini tecnici viene definita perdita alimentare, food loss). In Italia, secondo Ispra, si sprecano circa 5,2 milioni di tonnellate di cibo, il 31 per cento al momento del consumo, la metà dei quali per l’eccesso di acquisti che in parte si deve però alle offerte dei supermercati. Il 23 per cento si perdono a livello della produzione primaria, la restante parte si perde a livello dell’industria di trasformazione e della distribuzione.
Se vogliamo individuare le responsabilità e cercare soluzioni strutturali che mettano fine allo spreco, la risposta più semplice, è colpa del consumatore. È, però, anche quella fuorviante che alimenta il senso di colpa di noi poveri mortali sempre più inermi nei confronti di un sistema alimentare insostenibile.
Bisogna dunque allargare lo sguardo e iniziare a ragionare per esempio sulle perdite a monte della filiera: le norme europee e la rigidità con cui i supermercati le applicano, escludono dal mercato milioni di tonnellate di frutta solo perché esteticamente imperfetta (ma ugualmente buona). Basterebbe rivedere questa norma, basterebbe un impegno della Gdo a commercializzare questo tipo di prodotti per far scendere drasticamente la percentuale dello spreco.
Prendersela esclusivamente col consumatore è il modo perfetto per non risolvere alla radice un problema come lo spreco alimentare che, al contrario, ha bisogno di risposte strutturali.