Agricoltori controcorrente, quelli che si battono contro il cambiamento climatico: «Le politiche green Ue? Necessarie» – Le interviste

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Il movimento dei trattori ha messo nel mirino le misure Ue a tutela dell’ambiente. Ma c’è un’altra parte di agricoltori, altrettanto numerosa, che difende le politiche verdi e chiede di mettere un freno all’agricoltura «industriale». Ecco le loro storie

Maggio 2018. Il cambiamento climatico stenta a raggiungere le prime pagine dei giornali, nessuno sa ancora chi sia Greta Thunberg e a parlare di Green Deal c’è solo qualche sparuto gruppo di ambientalisti. Eppure, c’è già chi sente sulla propria pelle gli effetti del clima che cambia ed è costretto a farci i conti tutti i giorni. È il caso di Giorgio Elter, un agricoltore di Cogne, in Valle d’Aosta, che si unisce in una causa collettiva contro l’Unione europea, accusata di non impegnarsi abbastanza per mitigare i cambiamenti climatici. Sono passati quasi sei anni da quel momento e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: l’onda verde dei Fridays for Future, gli allarmi (in larga parte inascoltati) degli scienziati dell’Ipcc, ma anche la nascita del Green Deal, quel pacchetto di leggi per l’ambiente e per il clima attraverso cui l’Unione europea ha promesso di rivoluzionare la propria economia nel segno dell’ecologia e della sostenibilità. Oggi, paradossalmente, a contestare questo percorso sono proprio gli agricoltori, che a inizio 2024 sono scesi in piazza in tutta Europa per protestare contro le politiche verdi di Bruxelles.

Custodi della natura

La causa di Giorgio Elter contro l’Unione europea non ha fatto molta strada: è stata giudicata inammissibile e non se ne è più parlato. In un certo senso, però, una vittoria c’è stata. «L’obiettivo non era ottenere una condanna, ma avere un riscontro mediatico e fare pressione sulla politica. Se ne è parlato molto in quel momento», ricorda l’agricoltore aostano, che oggi ha 60 anni. Pochi anni dopo quell’azione legale, Bruxelles ha adottato ufficialmente il Green Deal, candidandosi di fatto a diventare la prima grande economia al mondo a raggiungere la neutralità carbonica. Un percorso che ha incontrato diversi ostacoli e battute d’arresto, tra cui proprio le proteste degli agricoltori. Il «movimento dei trattori», come è stato subito ribattezzato, è stato cavalcato da una parte della politica per scagliarsi contro l’agenda verde di Bruxelles, ma c’è anche una comunità altrettanto numerosa di agricoltori che rivendica la necessità di fare la propria parte nella lotta ai cambiamenti climatici. «L’agricoltore si fregia di questa identificazione come custode del territorio e della natura, ma non è così», spiega Giorgio Elter, che gestisce una piccola azienda agricola di 4 ettari a Cogne, dove coltiva ortaggi, piccoli frutti e piante aromatiche. «Il problema – aggiunge – è che ormai quasi tutta l’agricoltura è intensiva e sfrutta il suolo senza preoccuparsi delle conseguenze».

L’altro lato delle proteste

Elter giudica «strumentali» le proteste dei trattori dei mesi scorsi. Il vero obiettivo, secondo l’agricoltore aostano, non sono «le politiche dell’Europa», ma «il fatto che i prodotti agricoli sono sottopagati». È dello stesso avviso anche Giacomo Zattini, attivista per il clima e figlio di agricoltori, che fino a non molti anni fa aiutava nell’azienda agricola di famiglia: «Non me la sento di dire che tutti quelli scesi in strada a protestare sono scoppiati o fuori di testa. Alcuni sono effettivamente contro le misure ecologiche, ma molti altri sono solo spazientiti». Quando il movimento dei trattori è arrivato anche in Italia, Zattini ha pubblicato un video sui social per mandare un messaggio a chi stava protestando: «Gli agricoltori e le agricoltrici possono e devono essere i migliori alleati per la transizione ecologica a livello italiano ed europeo, ma questa deve passare per una giusta retribuzione», diceva il giovane attivista seduto sul trattore di famiglia. «Quella parte di mondo agricolo che è sceso in piazza chiedendo uno stop alle misure ambientali europee si è dimostrato miope e contro se stesso. Il Green deal è uno specchietto per le allodole che serve a fomentare chi era già ostile all’Unione europea», aggiunge oggi Zattini.

Verso l’«agroecologia»

Secondo il giovane attivista, non ci può essere alcuna contrapposizione tra agricoltura ed ecologia. Anzi, è solo abbracciando pratiche più sostenibili che il settore può garantirsi un futuro degno di questo nome. «Siamo di fronte a una scelta: vogliamo un’agricoltura industriale che pensa solo alla massimizzazione dei profitti oppure vogliamo scegliere l’agroecologia, quell’agricoltura che è dentro la natura e la rispetta?», si chiede Zattini. C’è chi questa domanda se l’è fatta per davvero e ha finito per stravolgere il proprio metodo di lavoro. È il caso della Cascina Isola Maria, un’azienda agricola alle porte di Milano gestita da Dario Olivero e Renata Lovati, marito e moglie. «La nostra impresa è nata nel 1980. Eravamo un’azienda che produceva latte allevando bestiame razza frisona», spiega Olivero. A un certo punto, i due titolari di Cascina Isola Maria entrano in contatto con alcuni movimenti ambientalisti e decidono di rivoluzionare la gestione della propria azienda. «Nel 2009 abbiamo abbandonato questa logica della massimizzazione produttiva e dello sfruttamento di terreno e animali», spiega Olivero. Oggi la sua azienda ha abbracciato l’agricoltura bio, dicendo addio una volta per tutte ai pesticidi per i terreni e agli ormoni per gli animali. «Non l’abbiamo fatto solo per scelta ideologica, ma anche perché economicamente non stavamo più in piedi. Finalmente siamo andati in positivo e abbiamo puntato, più che sull’agrochimica, sulla produzione di latte di qualità», racconta l’agricoltore.

Le storture della Pac

La protesta dei trattori ha fatto venire a galla il disagio del settore agricolo. Un movimento che «va assolutamente tenuto in considerazione», osserva Olivero, ma che «ha sbagliato completamente gli obiettivi contro cui battersi». Il terreno di scontro è la Politica agricola comune (Pac), il principale strumento attraverso cui l’Unione europea regola i sussidi destinati al settore. L’ultima riforma è stata approvata nel 2021 e stanzia complessivamente 387 miliardi di euro, circa un terzo del totale del bilancio Ue, da distribuire tra il 2023 e il 2027. Uno degli aspetti più criticati della Pac riguarda i due pilastri attraverso cui vengono elargiti i fondi. Il primo pilastro punta a sostenere le aziende in misura proporzionale alla loro dimensione, indipendentemente da ciò che coltivano e dalle pratiche agricole che mettono in atto. Il secondo pilastro, meno rilevante in termini di risorse, prevede l’erogazione di sussidi pubblici solo in cambio di una serie di pratiche indirizzate alla tutela ambientale o al rispetto dei diritti sul lavoro. «Negli ultimi 20 anni il numero di aziende agricole in Italia è diminuito della metà. Ma non è scomparso il 50% del terreno: semplicemente, ogni volta che una piccola azienda scompariva, una più grossa si accaparrava quei terreni e diventava ancora più grande», spiega l’agricoltore milanese. Secondo Olivero, l’impostazione attuale della Pac premia una visione “industriale” dell’agricoltura e sta facendo scomparire «quel tessuto sociale composto da tante piccole aziende agricole».

L’agricoltura bio in Italia

Nonostante tutto, c’è chi si sta rimboccando le maniche per provare a portare avanti un’agricoltura più sostenibile. Con oltre 2 milioni di ettari, l’Italia è il Paese Ue con la più alta percentuale di superfici agricole biologiche sul totale nazionale: 19%, contro l’11% di Spagna e Germania e il 10% della Francia. Più della metà dei produttori bio si concentra in cinque regioni: Sicilia, Puglia, Emilia-Romagna, Toscana e Calabria. «L’agricoltura industriale è quella a cui dà più fastidio un’impostazione green, ma ci sono tanti piccoli produttori che lavorano da sempre per un’agricoltura più sostenibile», spiega Olivero. Il merito è anche del ricambio generazionale. Chi studia scienze agrarie oggi in università è più consapevole dei rischi che derivano da un uso massivo e sistematico di pesticidi, diserbanti e altri prodotti chimici sui terreni. La vera sfida, a questo punto, è riuscire ad allargare questa consapevolezza a tutti i lavoratori del settore. «Molti agricoltori – osserva Giorgio Elter – forse non hanno nemmeno la preparazione culturale per vedere che si può fare questo lavoro in modo diverso. Ma la speranza è l’ultima a morire. Le rivoluzioni si fanno così: con il lavoro quotidiano».

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