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- Probabilmente non ci avete mai pensato, ma dire che qualcosa è “color carne”, riferendosi alla carnagione delle persone bianche, è discriminatorio perché implica che quella sia la norma, lo standard.
- La campagna italiana “Color carne” sta contribuendo a cambiare le cose e si è anche aggiudicata un premio agli European diversity awards a Londra.
- L’obiettivo è quello di spingere sempre più persone a spostare il proprio sguardo da quello che è considerato come normale e standard per creare una realtà più inclusiva.
Se lo scorso febbraio avessimo aperto il dizionario Devoto Oli, alla voce “color carne” avremmo letto: “Color rosa pallido simile a quello della pelle umana”. Oggi, oltre al Nuovo Devoto Oli, hanno cambiato la loro definizione di color carne anche il Dizionario Garzanti di Italiano, il Nuovo De Mauro per Internazionale, la Treccani e lo Zingarelli-Zanichelli.
Tutto questo è merito di una campagna di comunicazione lanciata da due donne, Cristina Maurelli e Giuditta Rossi, che sono riuscite a spostare un piccolo grande tassello rispetto a quello che consideriamo lo status quo. Cristina Maurelli è un’autrice e regista che si occupa di cinema per il sociale, insegna discipline dello spettacolo all’università e lavora come consulente per le aziende così come Giuditta Rossi, che è una brand strategist e che si occupa di campagne multicanale e branding. Si sono conosciute lavorando a un progetto comune di consulenza e poi sono diventate partner d’affari prima, e partner di attivismo poi.
“Color Carne” è una campagna nata lo scorso febbraio
“Un giorno ho detto a Giuditta che sotto a un abito che indossava un giorno avrebbe dovuto mettere un reggiseno color carne: non appena ho finito di pronunciare quella frase mi sono sentita morire. L’avevo detto proprio io, che mi sono sempre battuta per i diritti e che su questi argomenti ho centrato mille spettacoli teatrali e documentari. Lei si è messa a ridere, perché le succede sempre di andare in un negozio per chiedere qualcosa del suo color carne e ricevere in cambio una cosa rosa, ma per me è stata come un’epifania. Semplicemente non ci avevo mai pensato” racconta Cristina Maurelli a proposito della nascita della campagna. La questione è tanto semplice quanto importante: dando per scontato che la normalità sia avere la pelle bianca, si escludono automaticamente tutti quelli che non ce l’hanno.
“Questa uscita ci ha dato però lo spunto per lavorarci, così abbiamo messo in pratica il nostro mestiere e abbiamo strutturato una campagna di advocacy integrata e pensata in modo tale che le persone potessero loro stesse dare la propria opinione sulla tematica”, integra Giuditta Rossi. “L’obiettivo era quello di creare un tipo di comunicazione assolutamente non colpevolizzante. Volevamo fare una cosa leggera, che però rivela un tema enorme, ovvero quante cose non vediamo, non sentiamo e diamo per scontate.”
Il linguaggio e la rappresentazione in qualche modo contribuiscono a creare la realtà: il nome che diamo alle cose è indicativo di quello che pensiamo e proviamo in proposito. Allo stesso modo delle questioni legate all’identità di genere, il colore della pelle della maggior parte dei parlanti di una lingua ha portato nel tempo a definire uno standard che è arrivato il tempo di decostruire come tale.
La campagna di sensibilizzazione è stata lanciata con una chiamata all’azione sia da parte delle persone che dei brand. Questi ultimi oggi hanno il dovere di far sentire le persone rappresentate attraverso le proprie narrazioni, i propri prodotti, ma anche attraverso la cultura aziendale. “Color carne” diventa un po’ l’emblema, il simbolo di tutte quelle cose che si danno per scontate ma che, cambiandole, possono portare nel mondo una visione più inclusiva e accogliente. “Siamo stati contattati ad esempio da diversi traduttori e traduttrici per la cosmesi e da network attivi nella moda sostenibile. Nelle aree dove il discorso del colore della pelle ha un riscontro pratico la questione ha avuto un successo maggiore. Così come presso i brand emergenti, che hanno più margine di manovra” spiega Giuditta Rossi.
Decostruire lo standard
“La grande fatica infatti è stata in un primo momento capire come impostare la campagna e come riuscire a trovare un risultato tangibile, quindi ci siamo date come obiettivo quello di cambiare i dizionari. Per farlo abbiamo lavorato sia con le parole che con le immagini: abbiamo creato delle card per i social con cui abbiamo “hackerato” l’algoritmo di Google perché la gente ha cominciato a condividere card non solo rosa quindi adesso se scrivi color carne il wall non è più solo rosa chiaro o beige, ma ma è di tutti i colori. Dopo la campagna social qualcosa si è mosso e alcuni dizionari, ai quali avevamo scritto anche prima, hanno cambiato la dicitura”, continua Cristina Maurelli. “Poi è arrivato il risultato più tangibile, è arrivata prima la candidatura e poi il premio agli European diversity awards, in una serata con più di 600 persone che si occupano proprio di queste tematiche, per l’Italia c’eravamo solo noi. È stata una soddisfazione ed un riconoscimento del lavoro dell’intera community che si è adoperata per portare avanti il messaggio”.
Tra i partecipanti alla community anche tanti ragazzi e bambini, da chi ha portato la questione come tesina di terza media al bambino che non vede differenze tra le carnagioni. L’Italia oggi è molto più multiculturale rispetto anche solo a cinquant’anni fa, quindi è un terreno più ricettivo per un messaggio come quello di “Color carne”, che punta ad allargare lo spettro del significato che attribuiamo a questa espressione.
“È per questo che pensiamo che sia importante occuparsi di questi aspetti del linguaggio. L’Italia sarà sempre più meticcia, una terra di incontro tra le persone: bisogna occuparsi di questo cambiamento. Trovare le parole, le immagini e le modalità perché ogni persona si senta rappresentata e la sua identità venga mostrata. L’incarnato pallido è il colore anche della pittura del Cinquecento, è evidente come sia radicata lì l’idea che l’Europa e gli europei bianchi siano il centro del mondo, la norma. L’italiano come tutte le lingue neolatine ha dei problemi di rappresentazione, oltre al color carne pensiamo al plurale maschile sovraesteso, ad esempio. Ci sono tante cose sulle quali bisogna fare un lavoro di sistemazione”.
“Color Carne” vuole essere la dimostrazione di come concetti che sembrano inoffensivi, in particolare nel linguaggio e nelle rappresentazioni visive, possano invece nascondere bias, pregiudizi e discriminazioni. Intende sensibilizzare le persone e invitare gli editori e i brand a cambiare il loro vocabolario e a pensare a nuovi prodotti inclusivi, per una società in cui chiunque possa sentirsi rappresentato.