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La tribù aborigena degli Jagalingou in Australia, le comunità indigene delle Filippine e dell’Amazzonia brasiliana e colombiana. Un articolo di DW ha raccontato come questi gruppi stanno lottando per la conservazione dei loro territori. In tutto il mondo, le popolazioni indigene devono lottare per i loro diritti fondamentali. La difesa dei loro diritti coincide con una migliore protezione dell'ambiente e del clima. Sebbene però siano considerate custodi delle risorse naturali, le tribù indigene spesso devono affrontare repressioni, discriminazioni e razzismo di massa. E pagano con la vita.
Tra il 2012 e il 2021, gruppi e organizzazioni per i diritti umani hanno documentato la morte di oltre 1.700 difensori dell'ambiente e delle loro terre in circa 60 paesi. Secondo i dati pubblicati dall'organizzazione ambientalista e per i diritti umani Global Witness, oltre il 35% delle persone uccise erano indigeni.
Al centro dei conflitti ci sono spesso grandi progetti dell'industria mineraria, il disboscamento a scopo agricolo, le dighe per i bacini idrici e l'estrazione di petrolio, gas e carbone.
La lotta degli Jagalingou contro la costruzione di una miniera di carbone
“Il nostro popolo ha vissuto in questo continente per oltre 60.000 anni”, raccontat a DW Adrian Burragubba, il principale custode culturale degli Jagalingou, una tribù aborigena australiana che per anni ha combattuto contro la costruzione della miniera di carbone di Carmichael, voluta dalla società indiana Adani nello Stato del Queensland. Alla fine hanno perso: nel 2021 la miniera di carbone ha iniziato la produzione. Durante i 60 anni di vita previsti, la miniera potrebbe emettere quasi il 2% della quantità totale di anidride carbonica ancora disponibile per l'uomo per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.
Secondo alcuni rapporti, l’attività estrattiva potrebbe causare l'abbassamento del livello dell'acqua delle sorgenti sotterranee. Per gli indigeni, le sorgenti sono sacre e sono essenziali per la sopravvivenza dell’ecosistema locale. Inoltre, si teme che il traffico marittimo aggiuntivo in prossimità della Grande Barriera Corallina, al largo della costa australiana, possa infliggere ulteriori danni al delicato ecosistema, già provato dalle conseguenze del riscaldamento globale.
Se le loro terre non verranno riconsegnate, gli Jagalingou continueranno la loro battaglia sul piano dei diritti umani, frequentando i loro luoghi sacri vicino all'area mineraria per celebrare i propri rituali. Le pratiche religiose sono un diritto fondamentale, spiega Barragubba: “Nessuno può impedircele”.
Il prezzo dell'oro: la lotta delle comunità indigene filippine per salvaguardare l’ambiente dalle attività estrattive
Nel nord-est delle Filippine, le comunità indigene del fiume Didipio lottano per il diritto di poter vivere nelle loro terre contaminate dalle attività estrattive. Nell’area, infatti, la società mineraria australiana OceanaGold possiede una miniera di oro e rame. La licenza, scaduta nel 2019, è stata rinnovata nel 2021 per altri 25 anni. Nella prima metà del 2023, la miniera di Didipio ha prodotto 65.241 once d'oro e 6.911 tonnellate di rame. Spesso nel corso del processo di estrazione vengono utilizzate sostanze chimiche tossiche come arsenico e mercurio. Un rapporto delle Nazioni Unite del 2019 ha stabilito una correlazione tra la morte degli alberi nelle vicinanze della miniera e l'acqua presumibilmente contaminata dall'attività estrattiva.
“Il problema dei metalli pesanti è che quando si beve acqua da loro contaminata non ci si rende conto immediatamente della sua pericolosità. Si ha un processo di accumulo di avvelenamento per decenni e quando ci si accorge delle conseguenze è troppo tardi”, spiega a DW Pedro Arrojo-Agudo, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani all'acqua potabile e ai servizi igienici. A lungo termine, ci potrebbero essere ripercussioni gravissime sulla salute anche delle milioni di persone che vivono più a valle, all’interno dell'intero bacino fluviale
Le comunità indigene che vivono lungo il fiume Didipio si battono per proteggere la terra, la foresta, il fiume, l’acqua potabile. Negli ultimi due anni, ci sono state ripetute proteste da parte dei gruppi indigeni locali, in alcuni casi represse brutalmente dalla polizia e dall'esercito. Diversi esperti delle Nazioni Unite hanno invitato il governo filippino a non discriminare le comunità indigene a favore degli interessi economici.
I custodi della foresta amazzonica
L'Amazzonia è una delle regioni più ricche di biodiversità al mondo. Si estende su nove paesi ed è abitata da circa 1,5 milioni di indigeni e oltre 380 gruppi etnici. Sono considerati i custodi della foresta che, negli ultimi decenni, si è drasticamente ridotta a causa della deforestazione legale e illegale, del traffico di droga, dei progetti infrastrutturali, dell'agricoltura e della corruzione.
Molto spesso gli indigeni finiscono sempre sotto il fuoco incrociato dei cartelli della droga, dei militari, del personale di sicurezza delle aziende private, delle milizie e dei guerriglieri. Buona parte delle uccisioni di attivisti ambientali indigeni avviene in Colombia e Brasile.
In Amazzonia, nella valle del Yavarí, sono stati uccisi lo scorso anno il giornalista del Guardian, Dom Phillips, e l’esperto brasiliano dell’ente di protezione dei popoli indigeni, Bruno Pereira. Stavano indagando sullo sfruttamento della foresta e sulle crescenti minacce a cui sono sottoposte le popolazioni indigene. La valle del Yavarí – uno dei luoghi più isolati del pianeta, una riserva di 85mila chilometri quadrati coperta dalla foresta amazzonica, senza strade, dove ci si sposta navigando il fiume e al cui interno vivono circa 23 gruppi indigeni che non hanno contatti esterni – è un territorio ambito per la pesca, la caccia, l’abbattimento degli alberi e l’estrazione mineraria illegale, ed è una zona interessata dalle reti di narcotraffico al confine tra Brasile, Perù e Colombia.
La distruzione dell'Amazzonia costringe le tribù indigene a spostarsi e a reinsediarsi in altri territori con ricadute anche sulla cura della foresta. “I gruppi indigeni svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione e nel ripristino della foresta”, spiega a DW Mercedes Bustamante, membro dell'Accademia brasiliana delle scienze. “I tassi di deforestazione nei territori indigeni sono i più bassi del Brasile e anche di altre parti del Sud America. E hanno anche le conoscenze, quelle tradizionali, su come gestire, preservando, le foreste”.
Il 6 luglio scorso il governo brasiliano ha annunciato che nei primi sei mesi dell’anno sono stati distrutti 2.649 chilometri quadrati di foresta amazzonica, il 33,6% in meno rispetto allo stesso periodo del 2022. Il presidente Lula, in carica dall’1 gennaio, si è impegnato a mettere fine alla deforestazione entro il 2030. All'inizio di quest'anno, Lula ha decretato sei nuove riserve indigene, vietando l'estrazione mineraria e limitando l'agricoltura commerciale. In Colombia, dove secondo i dati ufficiali lo scorso anno la deforestazione è diminuita del 26%, il nuovo presidente Gustavo Petro sta legando i processi di pace con i gruppi armati alla questione ambientale.
Quando nel 2016 il governo colombiano ha firmato un accordo di pace con le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc), altri gruppi armati - incluse le fazioni ribelli dissidenti che avevano rifiutato l'accordo - hanno approfittato dell'assenza delle Farc per spianare centinaia di ettari alla volta. Recentemente, una fazione ribelle dissidente, composta da ex combattenti delle Farc, ha ordinato ai contadini locali di smettere di tagliare gli alberi come “gesto di pace”, nella speranza di raggiungere un accordo con il governo di Petro.
Lo scorso giugno, il Comune di Guajara-Mirim, su spinta della comunità indigena Warì che da secoli abita l’Amazzonia brasiliana occidentale, ha approvato una legge che definisce il fiume Komi Memem e i suoi affluenti come entità viventi con diritti che vanno dal mantenimento del loro flusso naturale alla protezione della foresta circostante. Il Komi Memem, affluente di un fiume più grande non protetto, è ora il primo tra le centinaia di fiumi dell'Amazzonia brasiliana ad avere una legge che gli conferisce lo status di persona.
“L’acqua è vita per noi. Non possiamo permettere che l’acqua muoia. È come se fosse una persona per noi”, spiega ad Associated Press, Francisco Oro Waram, insegnante e leader della comunità indigena, promotore della legge nel consiglio comunale.
Non si tratta del primo caso di questo tipo. Nel 2018, la Corte Suprema della Colombia, decidendo su una causa intentata da un gruppo di giovani ambientalisti, aveva riconosciuto diritti analoghi all’ecosistema del Rio delle Amazzoni da considerare, secondo il parere della massima Corte colombiana, “come entità, soggetto di diritti e beneficiario della protezione, della conservazione, della manutenzione e del ripristino”.
Questa è sentenza è arrivata pochi mesi prima dell’atteso incontro di Belém, in Brasile, dove dopo ben 14 anni, sono tornati a riunirsi i paesi sudamericani che ospitano la foresta amazzonica con l’obiettivo dichiarato di “proteggere la bio-regione e affrontare la criminalità organizzata”, e di costruire un “blocco amazzonico” che, fra tre anni, nel 2025, si presenti compatto alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima che si terrà proprio a Belém. «Riconcilieremo la tutela dell’ambiente con lo sviluppo economico sostenibile», aveva detto in apertura il presidente brasiliano Lula.
Era un vertice molto atteso considerato che in 45 anni i paesi sudamericani che fanno parte dell'Organizzazione del trattato di cooperazione amazzonica si sono riuniti appena tre volte. E, invece, scrive Claudia Fanti su Il Manifesto, la due giorni di incontri si è chiusa con una dichiarazione vaga, nessun obbligo rispetto a deforestazione ed estrazioni e il mancato ascolto degli appelli di indigeni e società civile.
I 600 rappresentanti indigeni accorsi a Belém per discutere il loro modello di Amazzonia sono stati esclusi dal programma ufficiale e costretti a riunirsi per conto proprio nel quadro dell’Assemblea dei popoli per la terra. Tra i loro obiettivi: “Lo stop alla deforestazione illegale entro il 2025; l’azzeramento di quella legale entro il 2027; la rigenerazione delle aree degradate; il riconoscimento di tutti i territori dei popoli indigeni, degli afrodiscendenti, delle comunità tradizionali, assicurando la sicurezza giuridica e fisica della proprietà collettiva dei popoli originari; il deciso avvio di una transizione energetica «giusta, popolare e inclusiva», rinunciando ad aprire nuovi fronti di sfruttamento dei combustibili fossili in tutta la regione”.
La Dichiarazione di Belém, con i suoi 113 principi e impegni, invece, non fissa alcun obiettivo concreto: la “deforestazione zero”, promessa da Lula per il Brasile entro il 2030 è definita un “ideale” da raggiungere non si sa bene quando, mentre sui combustibili fossili non si va oltre l’invito ad avviare un dialogo sulla loro sostenibilità.
Inascoltato anche l’appello alla decarbonizzazione del presidente colombiano Petro che ha denunciato – accanto al negazionismo tipico di una destra nemica della scienza – l’esistenza tra le forze progressiste di “un altro tipo di negazionismo: la retorica della transizione”, a cui i governi ricorrono di frequente per giustificare la continuità degli investimenti nel petrolio e nel gas.
Immagine in anteprima via Impakter.com