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Spesso si ritiene che l’energia da fonti petrolifere sia molto più economica rispetto alle fonti rinnovabili: una convinzione che si dimentica di un dettaglio non trascurabile, quello delle enormi sovvenzioni pubbliche che le attività estrattive e le multinazionali che le guidano ricevono dagli Stati sotto forma di finanziamenti diretti o indiretti. Questo fiume di denaro continua a scorrere, ed anzi, nel 2022 – nonostante la tanto decantata transizione verde – ha fatto segnare un nuovo record. Nell’anno appena trascorso, infatti, i soli Paesi del G20 hanno speso 1.400 miliardi di dollari per finanziare i combustibili fossili. A stimare l’enorme cifra è stato un rapporto dell’Istituto Internazionale per lo Sviluppo Sostenibile (IISD), sommando sussidi diretti, investimenti da parte di imprese statali e prestiti da parte di istituzioni finanziarie pubbliche. Secondo i dati raccolti, le venti principali economie al mondo hanno superato di gran lunga la cifra sborsata per i combustibili fossili negli anni precedenti, arrivando a spendere più del doppio rispetto al 2019.
All’epoca, d’altronde, la “crisi dei prezzi energetici” – guidata dalle sanzioni alla Russia e dalle speculazioni di borsa – non si era ancora manifestata, e con essa la rinnovata corsa dei Paesi occidentali a rilanciare l’attività fossile per ridurre la dipendenza dal gas di Mosca. Un terzo dei finanziamenti stanziati dagli Stati per ridurre i prezzi delle forniture, infatti, non è stato destinato ai cittadini per ridurre il caro bollette, ma direttamente versato nelle taste delle aziende estrattive per “stimolare gli investimenti nella produzione di nuovi combustibili fossili”. Logica conseguenza, poi, è che in termini di costi l’energia pulita continui a risultare meno competitiva, il che – secondo gli autori del rapporto – produce una drastica riduzione delle “possibilità di raggiungere gli obiettivi climatici fissati dall’accordo di Parigi”. Quello stesso accordo di Parigi che nel 2015 i paesi del G20 ratificarono, impegnandosi a rendere “i flussi finanziari coerenti con un percorso verso basse emissioni di gas serra e uno sviluppo resiliente ai cambiamenti climatici”.
Un dato di fatto utile a fare luce sull’ambientalismo di facciata degli Stati, che negli scorsi anni hanno assunto i più svariati impegni green e imposto frequenti limitazioni ai cittadini (dal divieto di circolare con auto vecchie che colpisce specialmente i più poveri, a quello di utilizzare le stufe a legna) con il pretesto della lotta alle emissioni inquinanti. Basterà tornare con la mente al 2009, quando i governi del G20 promisero di eliminare gradualmente gli “inefficienti sussidi ai combustibili fossili”: un impegno che i leader mondiali scelsero di perseguire ulteriormente nel 2021, in occasione della COP26. Promesse su promesse che stando ai fatti non sono al momento state mantenute dal G20, che a quanto pare anziché arginare le attività fossili le sta incrementando in maniera notevole.
Quello dell’IISD non è il primo rapporto a mettere nel mirino gli incoerenti sostegni finanziari alle attività petrolifere. Un rapporto pubblicato lo scorso febbraio dall’Agenzia Internazionale l’Energia (AIE), ad esempio, sottolineava come l’entità dei sussidi destinati ai combustibili fossili nel 2022 rappresentasse un “segnale preoccupante per le transizioni energetiche”, mentre in un rapporto dello scorso giugno la Banca Mondiale certificava che “ogni anno i paesi spendono sei volte di più per sovvenzionare il consumo di combustibili fossili rispetto a quanto dovrebbero in base agli impegni assunti con l’accordo di Parigi”.
[di Raffaele De Luca]