Gli attivisti scozzesi che sfidano il governo Johnson contro gli abusi nei confronti di migranti e richiedenti asilo

ValigiaBlu

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Lo scorso maggio, le immagini di Kenmure Street, a Glasgow, hanno fatto il giro del mondo. Una protesta pacifica ha bloccato il furgone dell'Home Office (il Ministero dell’Interno britannico), giunto a prelevare due immigrati. Le persone hanno continuato ad affluire per tutto il giorno, finché i due non sono stati rilasciati.

Mobilitazioni simili non nascono all'improvviso, per impeto di solidarietà e passaparola attraverso i social. Sorgono invece a partire da un attivismo comunitario in prima linea per sostenere richiedenti asilo e migranti, e contro la pratica dei raid a sorpresa – i dawn raids. Già dalla fine di aprile, lo Scottish Refugee Council di Glasgow lanciava l'allarme sulla possibilità che i raid venissero usati come una tattica di sfratto, colpendo così quei richiedenti asilo che, a causa della pandemia, sono ospitati in strutture di emergenza.

I raid sono formalmente legali, e rientrano in quella visione politica che dal 2012 prende il significativo nome di Hostile environment: un insieme di norme e pratiche in materia di immigrazione volto a creare un "ambiente ostile" contro chiunque non sia regolare. Come Valigia Blu abbiamo sentito al riguardo Tatora Mukushi, avvocato esperto di immigrazione e membro della Commissione Scozzese per l'Uguaglianza e i Diritti Umani.

«L’Home Office ha la facoltà di trattenere e deportare le persone che sono qui illegalmente» ci dice. «Può trattarsi anche di persone con cui l’Home Office non riesce ad avere alcun contatto. Ma può riguardare anche le persone che vivono qui e hanno richiesto asilo, oppure un altro tipo di permesso di soggiorno, ed è stato loro rifiutato. In attesa di una decisione definitiva, si possono trovare in quella che si chiama “ammissione temporanea”, il che significa che l’Home Office può decidere quando ritirare loro diritto di residenza. E se l’Home Office ritiene esista il pericolo di fuga, allora può ricorrere al raid».

Si tratta tuttavia di una pratica degradante e traumatica. «È tra i modi peggiori di trattare una persona, quasi inumano», puntualizza Mukushi. «Queste persone sono prese all’alba mentre dormono, non hanno possibilità di prendere i propri beni, magari medicinali di cui hanno bisogno, salutare amici, parenti o parlare con un avvocato, un medico». Possono quindi esserci degli aspetti potenzialmente impugnabili legalmente, se viene interrotto il rapporto tra cliente e avvocato facendo venire meno il principio del giusto processo, o è violata la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Dal punto di vista politico, si tratta di una complessa zona discrezionale: trovarsi nella condizione di irregolarità può essere un fatto burocratico, senza intenzioni di dolo. Ma in caso di errori, inefficienze o abusi, ogni conseguenza è scaricata sul singolo. Nel migliore dei casi, è come se chi migra o richiede lo status di rifugiato debba dimostrare di non essere un criminale attraverso lunghe ed estenuanti prove.

Sono perciò molte le realtà che, in varie città del Regno Unito, si oppongono agli abusi nei confronti di migranti e richiedenti asilo. Solo a Glasgow ci sono lo Unity Centre, la cui sede è a circa cento metri di distanza dalla sezione locale dell’Home Office, e quindi può monitorare le partenze dei furgoni, il già citato Scottish Refugee Council, e collettivi come No Eviction Network.

«Gli attivisti provengono da ogni classe sociale» ci spiega Savan Nelson, membro di No Eviction Network da circa sei mesi, quando gli chiediamo della composizione del collettivo. «Quando hai un contesto umanitario, le persone tendono a sentirsi coinvolte, e dimenticano lo status sociale. Così hai gente con un PhD, o con lavori ben pagati, gente della classe operaia, o dei ceti medi. È una combinazione che riflette la società reale».

Alla trasversalità dei militanti si associa un’altra caratteristica, il coordinamento tra territorio e network digitali. Quando per esempio viene avvistato un furgone dell’Home Office, o si hanno segnalazioni di raid, account come No Eviction Network lanciano l'allarme via tweet, chiamando a raccolta sul posto le persone. Una volta terminato l’allarme, il tweet viene cancellato.

Un altro ambito consiste nel fornire informazioni utili. Dopo l’azione di Kenmure Street, per esempio, su Instagram circolava un post che suggeriva chi contattare e cosa rispondere in caso di arresto o fermo. Ci sono inoltre consigli e suggerimenti che si rivolgono ad ampio spettro a chiunque voglia collaborare all’interno di una comunità, senza che vi sia una militanza effettiva. Ad esempio, proprio lo scorso maggio venivano diffuse informazioni sui diritti da esercitare, e su come evitare di fornire informazioni agli agenti dell’Home Office impegnati in controlli e raid. Questo perché, nel cercare persone irregolari su cui si hanno informazioni parziali, molto spesso gli incaricati si rivolgono a persone che vivono nella zona di ricerca, o a negozianti.

L'essere collegati ad altre realtà di altre città permette a collettivi come No Evictions di ampliare il raggio d'azione quando si tratta di sensibilizzare l'opinione pubblica. «Lavoriamo insieme sotto molti aspetti – dice Savan – ad esempio abbiamo organizzato una campagna sul trattamento dei richiedenti asilo alloggiati negli hotel e in altro strutture». La campagna ha visto tra l’altro la creazione di un sito satirico mascherato da agenzia immobiliare, Asylum Landlords. Al posto di appartamenti e recensioni, troviamo immagini e video delle condizioni degrandanti di chi è ospitato, oltre alle testimonianze raccolte.

Online è inoltre messo a disposizione materiale per chi vuole creare un gruppo nella propria città. Qui entra in gioco un’altra caratteristica di questo attivismo: l'idea di trasmettere il più possibile le pratiche di lotta nonviolenta, sempre unendole a una forte responsabilizzazione. In rete è così possibile trovare modelli di Foia facilmente utilizzabili per fare pressione a livello locale. Nella guida How to Set Up An Anti-Raids Group, realizzata da Haringey Anti-Raids, si passa dal come aprire un banchetto alle raccomandazioni sull’evitare il più possibile azioni che portino a problemi legali: «Se il tuo gruppo – si legge – blocca un raid attraverso l’azione diretta, ma in seguito deve sospendere ogni attività per un anno per fare supporto legale, questo può non essere l’approccio più efficace».

Creare consapevolezza, quindi, è legato a doppio filo alla formazione. Sempre circa il No Evictions Network, Savan ci conferma che «Non intraprendiamo azioni se abbiamo dubbi, non vogliamo mettere a repentaglio gli attivisti e chi fa campagne. E quando agiamo, ciascuno è messo al corrente dei rischi che corre, effettuiamo costanti aggiornamenti sugli aspetti legali».

Rispetto ad altri collettivi presenti nel Regno Unito, la Scozia presenta alcune peculiarità. Prima di tutto, essendo un paese di circa cinque milioni di abitanti, l’attivismo riesce facilmente a chiamare in causa direttamente il Parlamento scozzese. Inoltre l’opposizione ai raid ha una tradizione consolidata, che nasce nel 2005, dall’esperienza delle Glasgow Girls. Quell’anno, un gruppo di 15enni si mobilita per un’amica, Agnesa Murselaj, che insieme alla sua famiglia, composta da rom kosovari, viene prelavata all’alba e portata in un centro di detenzione, in attesa di essere deportata.

In questo gruppo c’è anche Roza Salih, di origine curde, anche lei figlia di richiedenti asilo. La mobilitazione inizia con una petizione rivolta a studenti e insegnanti, e poi, tra fax, telefonate e sit-in arriva fino al Primo Ministro scozzese Jack McConnell. I raid all’alba nelle abitazioni sono così sospesi, Agnesa Murselaj e la sua famiglia sono liberati. Il successo della campagna è così dilagante che le Glasgow Girls, negli anni, saranno soggetto di due documentari e persino di un musical.

Quindici anni dopo, Roza è ancora in prima linea per un sistema più equo verso immigrati e richiedenti asilo. «A Glasgow – racconta a Valigia Blu – ora le persone sono molto più consapevoli dei problemi che affrontano i richiedenti asilo, ad esempio il non poter lavorare. La nostra è stata la prima campagna a gettare luce sui raid nelle abitazioni, inoltre la città ora sa che esiste una vasta comunità di rifugiati e richiedenti asilo».

Una consapevolezza che tocca tutta una seria di corpi politici, dai quartieri cittadini fino al parlamento di Edimburgo. Dopo Kenmure Street, infatti, vari parlamentari scozzesi – laburisti, verdi e membri dello Scottish National Party – hanno firmato una lettera indirizzata all’Home Office per rimarcare la differenza fondamentale nell’approccio verso gli immigrati, i «nuovi scozzesi». Nella lettera si chiede inoltre di abbandonare la pratica dei raid per sfrattare le persone dagli alloggi per richiedenti asilo.

Lo scontro, dunque, è anche istituzionale, in una Scozia che dopo le ultime elezioni ha una maggioranza parlamentare pro-indipendenza. C’è un complesso gioco di equilibri legato alle competenze: sull’immigrazione l’autorità spetta al governo britannico, mentre la polizia, che per esempio interviene durante proteste o manifestazioni, è un potere devoluto al governo scozzese. Il sito di informazione The Ferret ha rivelato che, durante le ore in cui a Kenmure Street montava la protesta, le email inviate dal governo scozzese sono state completamente ignorate dall’Home Office. Al di là quindi delle competenze specifiche, lo scenario consegna una volontà di strapotere da parte di Londra, senza rendere conto in alcun modo a Edimburgo.

Salih, che alle elezioni di maggio ha sfiorato l’elezione con l’SNP, anche attraverso le settimane di campagna elettorale ha maturato uno sguardo molto lucido e diretto su questo scenario: «Il fatto di non avere potere a riguardo è il problema principale. Gli scozzesi vogliono un approccio differente, un sistema di immigrazione basato sulla dignità, e credo sarebbe un sistema senza centri di detenzione, senza raid. Se avessimo un sistema centrato sul Parlamento Scozzese, dove i nostri parlamentari prendono le decisioni, questo approccio diventerebbe fattibile».

Siamo partiti da Kenmure Street, e prima di concludere è bene tornarci, per ricordare che i manifestanti urlavano «sono i nostri vicini! Lasciateli andare!». A ridosso di quella giornata, la ministra Priti Patel ha dichiarato, durante un evento sull’immigrazione, che chi manifesta contro i prelievi e i raid protegge assassini e stupratori. Questa retorica “Legge e ordine” può far presa tanto più si è distanti dal cuore del dissenso, e se si pensa ai raid in astratto.

Ma è proprio questo il problema, nei rapporti tra Scozia e governo Johnson. L’idea che un potere esterno irrompa nelle case, strappi via le persone da una comunità, rischia di essere visto come un pericolo contro cui difendersi, spostando così consensi in chiave pro-indipendenza. Anche solo per inseguire per ironia della sorta un controllo dei confini che non passi per Londra. Ironia della sorte, il "take back control" della Brexit potrebbe ritorcersi contro i conservatori.

C’è inoltre un altro aspetto che rischia di rendere impopolare l’Hostile environment, e tutta una serie di provvedimenti da linea dura. Dopo la Brexit, e in particolare dopo il 30 giugno, anche i cittadini europei possono trovarsi in una zona grigia fatta di detenzioni forzate, controlli aggressivi e abusi di potere. Nell’incertezza delle regole che ha caratterizzato le trattative tra Gran Bretagna e Unione Europea, è già accaduto in decine di casi che dei cittadini europei fossero prelevati e detenuti senza che fosse necessario.

Quello che gli attivisti hanno cercato di mostrare per anni, ossia che criminalizzare in nome della sicurezza chi emigra è un atto ideologico, che dietro la retorica securitaria si nascondono ingiustizie sistemiche, è qualcosa che ora riguarda anche chi, come noi europei, nel viaggiare ha sempre potuto esercitare un privilegio.

Foto in anteprima via Jerseyeveningpost.com

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