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Il 16 luglio 2024 a Bruxelles, l’Italia si è allineata alla posizione dell’Ungheria contro i “novel foods”, termine che include insetti commestibili ma anche alternative vegetali alla carne. Eppure, secondo la Commissione europea, il consumo di alternative alla carne, ai latticini e ai prodotti ittici è quintuplicato dal 2011 e si prevede che continui a crescere. Nel 2022, un sondaggio del Boston consulting group condotto su 31 paesi ha rilevato che una media globale del 44 per cento dei consumatori “erano propensi a mangiare meno carne o a sostituirla con alternative per limitare il loro peso sul cambiamento climatico”. I millennial, inoltre, sono più propensi a cercare di evitare il consumo di carne e il 22 per cento della popolazione mondiale è già vegetariana. Si tratta di una direzione che al settore della carne e dei latticini non piace: così la lobby di settore è scesa in campo per correggere il tiro, attraverso una massiccia opera di disinformazione.
Di questo si parla all’interno dell’indagine “The new merchants of doubt”, pubblicata dalla fondazione Changing Markets e che analizza come le grandi multinazionali del settore abbiano fatto deragliare dieci politiche ambientali del Green deal europeo e la tassa sulle emissioni agricole recentemente abolita in Nuova Zelanda. E di come abbiano evitato che il settore agricolo si prendesse le sue responsabilità sulle emissioni all’interno del Global methane pledge e dell’Inflation reduction act (Ira) degli Stati Uniti, la politica climatica di punta di Joe Biden.
Le emissioni di CO2 degli allevamenti devono essere dimezzate
Da un recente sondaggio, condotto tra oltre 200 climatologi, è emerso come questi ritengano che nei paesi a reddito medio-alto le emissioni prodotte dal bestiame raggiungeranno il picco entro il 2025 e che queste debbano essere ridotte globalmente del 50 per cento entro il 2030. Ma nonostante il loro enorme impatto negativo sul clima, sulla biodiversità e sulla salute umana, le grandi aziende del settore della carne e latticini sono state in gran parte esonerate per quanto riguarda la regolamentazione ambientale. L’indagine di Changing Markets rivela che l’industria è riuscita sostanzialmente a convincere i politici dell’eccezionalismo agricolo, ottenendo una serie di concessioni, esenzioni e rinvii nell’ambito della lotta contro i cambiamenti climatici. A livello europeo, per esempio, una parte fondamentale del Green deal è stata la strategia Farm to Fork (dal produttore al consumatore), che prometteva di creare un sistema di “agricoltura verde e sana”, riducendo significativamente l’uso di pesticidi e fertilizzanti chimici. Farm to Fork ha riconosciuto che il passaggio ad una “dieta a maggior componente vegetale con meno carne rossa e lavorata” ridurrebbe l’impatto ambientale del sistema alimentare. Per questo, in sede europea sono state promesse nuove leggi e revisioni delle politiche esistenti ma la maggior parte di queste sono state decimate. Grazie alla lobby dell’industria della carne e dei latticini.
Alcuni esempi riportati nel dossier: Copa-Cogeca, la più grande associazione di categoria del settore in ambiente europeo, è riuscita ad eliminare l’obbligo di ridurre le emissioni agricole del 30 per cento dall’obiettivo climatico a lungo termine per il 2040. Inoltre, ventidue grandi aziende produttrici di carne e latticini, dal 2014 a oggi, hanno avuto oltre 600 incontri di alto livello con la Commissione europea ma solo sette imprese hanno dichiarato i loro impegni di lobby nel registro di trasparenza dell’Ue. Eppure, i gruppi analizzati spendono fino a 11 milioni di euro all’anno per esercitare pressioni sui parlamentari. Cifre che rappresentano solo la punta dell’iceberg della loro effettiva influenza: bloccare le azioni che hanno lo scopo di ridurre l’emissione di metano agricolo è ora un altro obiettivo specifico di questi lobbisti.
Ecco perché Changing Markets Foundation ha analizzato le sistematiche tattiche utilizzate dalle principali aziende produttrici di carne e latticini per distrarre, ritardare e sviare l’azione per il clima. Il rapporto pubblicato a luglio è probabilmente la più grande indagine del suo genere, dato che si estende su quattro continenti e prende in esame le 22 principali aziende produttrici a livello mondiale, tra cui Danish Crown, Tyson Foods, Jbs, Fonterra e Nestlé.
La disinformazione su carne e latticini corre sui social
L’indagine mostra come la grande industria della carne e dei latticini sia particolarmente preoccupata per le generazioni più giovani, che consumano meno carne e latticini rispetto alle generazioni precedenti. Per questo motivo, si rivolgono alla “generazione Z” con campagne pubblicitarie ingannevoli su TikTok e Instagram, spesso facendo affermazioni fuorvianti, ad esempio presentare carne e latticini come una scelta alimentare sana per i giovani consumatori in quei paesi che ne hanno già un alto consumo, come il Regno Unito. I giganti dell’industria sono supportati da consulenti e agenzie di pubbliche relazioni, tra cui aziende come Edelman, che ha una storia nota di aiuti alle Big oil e al tabacco nella creazione di narrazioni persuasive.
L’indagine ha portato alla luce anche diversi conflitti di interesse, con politici che beneficiano dei sussidi all’agricoltura che dovrebbero riformare e “porte girevoli” in cui gli esperti di politica passano dall’industria a rivestire cariche pubbliche e viceversa. Un esempio è rappresentato dal segretario all’agricoltura degli Stati Uniti Tom Vilsack, che prima di rivestire questo ruolo è stato presidente del Consiglio per l’esportazione dei prodotti lattiero-caseari degli Stati Uniti.
Il caso dell’Italia
Il rapporto contiene un caso studio sull’Italia che si concentra specificamente sul recente divieto del paese di coltivare carne e sulle restrizioni nell’etichettatura dei prodotti vegetali. Nel novembre 2023, l’Italia ha imposto il divieto alla denominazione di carne per i prodotti trasformati contenenti proteine vegetali – ad esempio “salsicce vegane” – ed è diventato il primo (ed unico) paese europeo a vietare la carne coltivata.
“Nel nostro studio italiano, abbiamo individuato dei picchi di disinformazione che sembrano strategici, sincronizzati con la conferma del divieto di produzione di carne coltivata”, confermano gli autori del rapporto. L’80 per cento dei principali “disinfluencer” (il rapporto definisce “disinfluencer” qualsiasi persona, gruppo, organizzazione o entità che diffonde informazioni fuorvianti, influenzando in modo significativo le convinzioni e le discussioni delle comunità digitali) che su X hanno prodotto disinformazione non aveva sede in Italia ma erano invece basati negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Svezia, e prevalentemente postavano in lingua inglese. I post si basavano su teorie cospirative come il grande reset, con affermazioni sulla “tutela della tradizione” e della salute, incoraggiando gli altri paesi a seguire l’esempio dell’Italia nella “lotta contro l’élite globale”. Un terzo di questi disinfluencer erano apertamente affini a ideologie di estrema destra. Tra questi, il rapporto cita Bev Turner, Emerald Robinson, Peter Immanuelsen e la dottoressa Anastasia Loupis.
La presidente del consiglio Giorgia Meloni è apparsa più volte nei post di disinformazione, definita come l’eroina della protezione delle tradizioni e dell’opposizione ai “programmi globalisti”. D’altronde, l’Italia esercita pressioni sull’Unione europea affinché ridimensioni le sue politiche verdi e si è regolarmente astenuta o ha votato contro diverse proposte in questo senso: l’Italia è stata uno degli otto paesi che hanno ritirato il loro sostegno alla Nature restoration law, sul ripristino delle aree degradati. Per fortuna, la legge è stata approvata in via definitiva dal Parlamento europeo, dove però non mancano continuano a esserci parlamentari che sostengono le proposte della lobby della carne e dei latticini: alcuni di questi sono stati “raccontati” anche dal documentario “Food for profit” di Giulia Innocenzi, tra cui il parlamentare Paolo De Castro (ora dimessosi) o il gruppo di lobby European livestock voice (Elv), a cui viene imputata anche la responsabilità di aver contribuito a far deragliare una proposta di legge europea per migliorare il benessere di centinaia di milioni di animali in Europa e porre fine all’allevamento in gabbia.