L’UE cede alle proteste degli agricoltori e a un sistema agro-alimentare insostenibile e fallimentare

ValigiaBlu

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“La proposta originaria di dimezzare i pesticidi nell’Unione Europea entro la fine del decennio è diventata un simbolo di polarizzazione”. Le parole della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, sintetizzano il ricatto clima/cibo in cui si trova invischiata l’Unione Europea e manifesta, inconsapevolmente, la resa e tutta l’inettitudine di una classe dirigente incapace di attuare un modello di sviluppo e di sostentamento diverso da quello su cui si è retto finora il pianeta. 

“No farm, no food”, “La nostra fine, significherà la vostra fame”, si legge sugli striscioni imbracciati dagli allevatori e dagli agricoltori praticamente di tutta Europa. Non solo in Germania, in Francia, nei Paesi Bassi. Le proteste si sono estese in Spagna, in Grecia, in Romania, in Lituania, Polonia e anche in Italia, coi trattori che avrebbero voluto salire fin sul palco di Sanremo per partecipare, anche loro, al fatto sociale totale che ogni febbraio incanta il nostro paese e le nostre discussioni.

Per ora, dopo l’incontro con il ministro Lollobrigida e le rassicurazioni della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, 150 trattori in carovana hanno percorso il grande raccordo anulare di Roma. In mattinata, quattro trattori hanno attraversato il centro di Roma.

Gli agricoltori protestano per motivi diversi: per la percentuale di suolo da sottrarre alla produzione e destinare a foresta (quelle che ci servono – se ne è parlato tante, troppe volte – per ripristinare i polmoni verdi delle nostre regioni), per i sussidi tolti per il diesel e per i pesticidi (e abbassare le emissioni), per l’eccessiva burocrazia delle regolamentazioni dell’Unione Europea, per la scarsa protezione rispetto all’importazione di prodotti provenienti dai paesi terzi e al rincaro dei costi dell’energia, dei fertilizzanti e dei trasporti. Molti ritengono inoltre di avere troppo poco controllo sui prezzi dei propri prodotti, che sono influenzati da quanto le grandi aziende che li vendono o li trasformano sono disposte a pagare.

“Dopo le nostre province e regioni, estenderemo le proteste a tutta la Spagna e poi andremo a Bruxelles”, ha dichiarato Donanciano Dujo, vice-presidente dell’Asaja, l’organizzazione più rappresentativa degli agricoltori spagnoli. E le dichiarazioni sono un po’ ovunque dello stesso tenore. 

Una buona parte, soprattutto le grandi organizzazioni agricole d’Europa, ha individuato nella burocrazia europea e nelle politiche climatiche la causa dei loro problemi, nonostante l’agricoltura sia responsabile del 30% delle emissioni globali di gas serra e riceva un terzo del bilancio dell'Unione Europea, soprattutto sotto forma di sussidi, pur rappresentando poco più dell'1% dell'economia europea e impiegando il 4% della popolazione totale, scrivono Somini Sengupta e Monika Pronczuk sul New York Times

Secondo le posizioni delle grandi organizzazioni agricole le politiche climatiche sono insostenibili: il denaro extra che l'UE fornisce per gli “eco-sistemi” non copre i loro costi e la burocrazia necessaria per ottenere questi sussidi è così onerosa che ne vale a malapena la pena. E così il Green Deal europeo, la strategia Farm to Fork (che punta a ridurre i pesticidi e i fertilizzanti e a rimodellare le pratiche agricole), sono gli obiettivi verso i quali le proteste di questi giorni puntano il dito, seguendo una scorciatoia che pone in alternativa il clima al cibo: o le politiche climatiche o la sicurezza alimentare, delle due l’una. Uno schema che abbiamo già visto in altre circostanze contrapporre salute e lavoro, transizione ecologica e sviluppo industriale, clima e sicurezza ora energetica, ora alimentare.

Invece di smantellare questo schema, i leader europei hanno finito per avverarlo e dargli sostanza. Alcuni per calcoli elettorali, altri per sfruttare l’ennesima occasione (prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina e la crisi del gas, ora le proteste degli agricoltori e il rischio di una crisi alimentare) per instillare l’idea che “la mitigazione climatica tanto non serve a niente, che il cambiamento sarà in ogni caso irreversibile, che non c'è nessuna utilità nella decarbonizzazione”, come scrive Ferdinando Cotugno in un post su LinkedIn, e sabotare le politiche climatiche, altri ancora perché vorrebbero farsi trasportare sui trattori per andare a comandare.

“Molti [agricoltori] si sentono messi all'angolo, meritano di essere ascoltati. Ma l'agricoltura europea deve passare a un modello di produzione più sostenibile e più rispettoso dell'ambiente”, ha affermato Ursula von der Leyen. A parole, dunque, la Presidente della Commissione Europea ha riconosciuto l’ineludibilità delle politiche climatiche, nei fatti le ha indebolite, dilatate, sacrificate. Procrastinando una volta di più l’introduzione di un importante regolamento per la tutela della biodiversità e la protezione della salute del suolo, ridimensionando il ruolo dell’agricoltura nel nuovo documento che punta a ridurre le emissioni di gas serra dell’UE del 90% (rispetto agli anni Novanta) entro il 2040 (non si parla più di percentuali di riduzione di metano e protossido di azoto), proponendo di accantonare la riduzione dell’uso dei pesticidi. 

Anche i provvedimenti intrapresi dai singoli Stati membri vanno nella stessa direzione: la Germania ha attenuato i piani di taglio dei sussidi per il gasolio, la Francia ha rinunciato al previsto aumento della tassa sul gasolio e ha promesso aiuti mirati per oltre 400 milioni di euro, l’Italia ha proposto di mantenere l’esenzione dall'Irpef agricola per i redditi fino a 10mila euro e promesso maggiori controlli per evitare la vendita sottocosto dei prodotti dei campi.

Tutte soluzioni tampone a breve termine che non vanno alla radice delle questioni e finiscono anzi per esacerbarle. E così facendo continuiamo a trascinarci problemi, che vengono puntualmente rilevati, ma che restano irrisolti. 

La storia recente è lastricata di occasioni in cui si poteva intervenire sulle cause e invece poi si è deciso di trattare solo i sintomi e lasciare tutto come era. “Negli ultimi anni gli agricoltori hanno fatto i conti con cambiamenti climatici, pandemia, crisi economiche, strapotere della grande distribuzione organizzata, prezzi sempre meno equi, guerra per i contributi europei, inflazioni, speranze e timori per una transizione ecologica tutta da attuare. Con le politiche, nazionali e comunitarie, di destra e di sinistra, amiche e nemiche a seconda della prospettiva, del pezzo di mondo agricolo da raccontare. Ognuno con istanze e interessi diversi. Sono stati gli anni del Green Deal e, in particolare, delle strategie Farm to Fork e Biodiversità 2030, ma anche gli anni di preparazione alla nuova PAC (Politica Agricola Comune) oggi in vigore, che avrebbe dovuto accompagnare queste strategie e, in generale, la transizione”, ricostruiscono su Il Fatto Quotidiano Luisiana Gaita e Gianni Rosini. 

La PAC avrebbe dovuto coniugare il sostentamento del pianeta con la mitigazione dei cambiamenti climatici e portare a una radicale trasformazione delle politiche comunitarie sull’agricoltura, sui meccanismi di sostegno degli agricoltori e delle aree rurali e di erogazione dei finanziamenti. E, invece, continuando a dare l’80% dei sussidi al 20% delle grandi aziende agricole e a sostenere monocolture e allevamenti intensivi, facendo dei timidi passi in avanti in tema di contrasto dello sfruttamento dei lavoratori, ci ha portato al punto in cui siamo.

“Spesso è più facile ridurre o ritardare quelle che sembrano politiche ambientali onerose che trasformare le dinamiche di potere dell'attuale sistema alimentare”, commenta Sophia Murphy, direttrice esecutiva dell'Institute for Agriculture and Trade Policy, un'organizzazione no-profit di ricerca del Minnesota. 

“La sfida è ripensare un sistema di produzione alimentare che sfami le persone e allo stesso tempo non sia dannoso per l'ambiente e per il clima”, aggiunge la giornalista del New York Times Monika Pronczuk.

Vanno in questa direzione le richieste di altri settori del mondo agricolo, come i piccoli agricoltori e tutte quelle realtà che lottano per una nuova agricoltura. I francesi di Confédération paysanne chiedono ad esempio “l’introduzione di prezzi garantiti per i nostri prodotti agricoli, la definizione di prezzi minimi d’ingresso nel territorio nazionale, il sostegno economico alla transizione agro-ecologica commisurato alle problematiche in gioco, la priorità alla creazione e non all’ampliamento delle aziende agricole, il blocco dell’artificializzazione dei terreni agricoli”, riporta Luca Martinelli su Altreconomia. Il coordinamento europeo di Via Campesina ha diffuso un “Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi”:

“Chiediamo un bilancio adeguato affinché i sussidi della Politica agricola comune (Pac) vengano ridistribuiti per sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. Tutti gli agricoltori già impegnati e che vogliono impegnarsi in processi di transizione verso un modello agroecologico devono essere sostenuti e accompagnati nel lungo periodo. È inaccettabile che nell’attuale PAC la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, mentre la maggioranza degli agricoltori europei non riceve alcun aiuto, o solo le briciole”.

Solo un riorientamento della politica agricola, europea e nazionale, potrà fornire risposte durature alla crisi, afferma in un articolo su Le Monde un collettivo di rappresentanti di associazioni e sindacati, tra cui Cécile Duflot, di Oxfam France, e Laurence Marandola, della Confederazione dei contadini. L’Europa sta decidendo, invece, ancora una volta di prendere tempo. Chissà quanto ce n'è rimasto.

Immagine in anteprima: frame video via Il Fatto Quotidiano

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