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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Qual è il futuro del pianeta? In che direzione sta andando il riscaldamento globale? C’è speranza per evitare il peggio? Siamo ancora in tempo per fermare l’aumento delle temperature? Sta facendo molto discutere un sondaggio del Guardian che ha chiesto a 380 scienziati climatici del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC) cosa prevedono per il futuro del nostro pianeta. Secondo la maggior parte degli esperti contattati, entro il 2100 le temperature globali saliranno di almeno 2,5°C rispetto ai livelli pre-industriali, quasi la metà un riscaldamento globale di 3°C, mentre appena il 6% ritiene che il limite di 1,5°C concordato con l’accordo di Parigi nel 2015.
Il limite di 1,5°C è stato indicato dalla comunità internazionale come soglia oltre la quale non andare per evitare l’innescarsi di pericolosi effetti a catena che potrebbero pregiudicare irrimediabilmente alcuni ecosistemi del nostro pianeta con conseguenze catastrofiche per l’umanità. Secondo un nuovo studio, l'estate del 2023 è stata la più calda degli ultimi due millenni per l'emisfero settentrionale, al di fuori dei tropici, in coerenza “con una tendenza al riscaldamento indotta dai gas serra”, e le attuali politiche climatiche fanno sì che la Terra sia sulla buona strada per raggiungere circa 2,7°C.
Molti scienziati prevedono un futuro “semi-distopico”, con carestie, conflitti e migrazioni di massa, causate da ondate di calore, incendi, inondazioni e tempeste di intensità e frequenza ben superiori a quelle che ci stanno già colpendo ovunque.
“Penso che siamo destinati a un grande sconvolgimento della società entro i prossimi cinque anni”, afferma Gretta Pecl, dell'Università della Tasmania. “Le autorità saranno sopraffatte da un evento estremo dopo l'altro, la produzione alimentare sarà interrotta. Non potrei provare maggiore disperazione per il futuro”.
“Sono estremamente preoccupata per i costi in vite umane”, aggiunge Leticia Cotrim da Cunha, dell'Università statale di Rio de Janeiro.
I più pessimisti sono gli scienziati più giovani, riporta il Guardian: il 52% degli intervistati sotto i 50 anni prevede un aumento delle temperature globali di almeno 3°C, quelli sopra i 50 anni sono il 38%.
“A volte è quasi impossibile non sentirsi senza speranza e distrutti”, dice la scienziata del clima Ruth Cerezo-Mota. “Dopo tutte le inondazioni, gli incendi e le siccità degli ultimi tre anni in tutto il mondo, tutti legati al cambiamento climatico, e dopo la furia dell'uragano Otis in Messico, il mio paese, pensavo davvero che i governi fossero pronti ad ascoltare la scienza, ad agire nell'interesse della gente”, prosegue Cerezo-Mota, che aggiunge: “È molto frustrante perché molte di queste cose potevano essere evitate. Ed è sciocco pensare: ‘Beh, non mi interessa se il Messico viene distrutto’. Abbiamo visto questi eventi estremi accadere ovunque. Non c'è un posto sicuro per nessuno”.
Di fronte a un pericolo così colossale, perché la risposta del mondo è così lenta e inadeguata? Gli esperti non hanno dubbi: oltre il 75% degli esperti intervistati nel sondaggio chiama in causa l’inerzia dei governi che perseguono altre strade e priorità politiche e industriali, nonostante le prove scientifiche fornite siano ormai chiare ed evidenti. E il 60% punta il dito contro gli interessi aziendali acquisiti, con chiaro riferimento all’industria dei combustibili fossili.
“La risposta del mondo fino ad oggi è riprovevole: viviamo in un'epoca di pazzi”, ha commentato uno scienziato sudafricano, che ha chiesto di restare anonimo.
“Il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale per l'umanità e la mancanza di volontà politica e gli interessi aziendali consolidati ci impediscono di affrontarlo. Sono preoccupata per il futuro che erediteranno i miei figli", afferma Lorraine Whitmarsh, dell'Università di Bath nel Regno Unito.
“Tutta l'umanità deve unirsi e cooperare: questa è un'opportunità monumentale per mettere da parte le differenze e lavorare insieme”, osserva Louis Verchot, del Centro Internazionale per l'Agricoltura Tropicale in Colombia. “Mi chiedo quanto profonda debba diventare la crisi prima che tutti inizino a remare nella stessa direzione”.
Eppure in molti invitano a non sentirsi sopraffatti, a continuare a lottare indipendentemente dall'aumento della temperatura globale, perché ogni frazione di grado evitata significa minore sofferenza umana. Come Peter Cox, dell'Università di Exeter, nel Regno Unito: “Il cambiamento climatico non diventerà improvvisamente pericoloso a 1,5°C - lo è già. E non sarà 'game over' se supereremo i 2°C, cosa che potrebbe accadere”.
“Sono convinto che abbiamo tutte le soluzioni necessarie per un percorso di 1,5°C e che le attueremo nei prossimi 20 anni”, afferma Henry Neufeldt, del Centro per il clima di Copenhagen delle Nazioni Unite. “Ma temo che le nostre azioni possano arrivare troppo tardi e che si verifichino uno o più punti critici”.
Questo però non significa che ci sia arresi e ci si stia preparando alla sconfitta. “La buona notizia è che lo scenario peggiore è evitabile”, spiega Michael Meredith, del British Antarctic Survey. “Abbiamo ancora la possibilità di costruire un futuro migliore dal punto di vista climatico rispetto a quello che ci aspetta attualmente”. Ma con la consapevolezza che “le nostre società saranno costrette a cambiare e le sofferenze e i danni alle vite e ai mezzi di sussistenza saranno pesanti”, prosegue. “Credo nei punti di svolta sociali”, in cui piccoli cambiamenti nella società innescano un'azione climatica su larga scala, aggiunge Elena López-Gunn, della società di ricerca Icatalist in Spagna
Sono tanti i possibili punti di svolta collettivi individuati dagli esperti sentiti dal Guardian. Tra le azioni che ognuno di noi può intraprendere individualmente, la maggior parte (76%) ha indicato il momento del voto, quando eleggiamo i nostri rappresentanti nei parlamenti nazionali e nei consessi internazionali. La nuova maggioranza di estrema destra dei Paesi Bassi ha già annunciato, ad esempio, l'intenzione di voler abbandonare le principali politiche per il clima.
Gli scienziati hanno raccomandato di votare per quei politici che si impegnano a prendere misure forti per il clima. Da questo punto di vista, il 2024 è un anno molto cruciale considerato che si vota negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in India, in Messico, in Sudafrica e verrà rinnovato il parlamento europeo con la configurazione della nuova Commissione Europea.
L’ambito su cui si può più intervenire è quello dei trasporti attraverso la transizione dai mezzi a combustibili fossili a quelli elettrici e pubblici. Inoltre, gli scienziati del clima consigliano vivamente di ridurre i voli in aereo, l’attività più inquinante che un individuo possa intraprendere. I “super emettitori”, che volano di frequente e che rappresentano appena l'1% della popolazione mondiale, causano la metà delle emissioni di carbonio del settore dell'aviazione. Due terzi dei partecipanti al sondaggio hanno dichiarato di aver ridotto il proprio numero di voli.
Tra le azioni individuali, quasi il 30% degli esperti ha dichiarato che mangiare meno carne è l'azione più efficace per il clima. Una percentuale leggermente minore ha invece sostenuto la riduzione delle emissioni derivanti dal riscaldamento o dal raffreddamento delle case, installando ad esempio pompe di calore.
Tuttavia, se è vero che ciascuno di noi può incidere nel proprio piccolo, le azioni individuali possono arrivare solo fino a un certo punto, per quanto sono importanti per aumentare la consapevolezza collettiva del problema, come spiega Hiroyuki Enomoto, docente dell'Istituto Nazionale di Ricerca Polare del Giappone. Sono le azioni sistemiche e le politiche adottate a fare la differenza in termini di mitigazione delle emissioni, di adattamento agli effetti della crisi climatica, di ridefinizione dei meccanismi di finanziamento e di riduzione del debito di quei paesi particolarmente esposti agli eventi meteorologici estremi, vulnerabili economicamente e meno responsabili del riscaldamento globale.
“Sono necessari tagli rapidi e profondi alle emissioni di carbonio provenienti da petrolio e gas, oltre che da altri settori come quello dei trasporti, che sono al di fuori del controllo del singolo individuo", dichiara Shobha Maharaj, scienziata dell'impatto climatico di Trinidad e Tobago. “L'azione individuale può essere solo una goccia nel mare: solo i cambiamenti sistemici saranno sufficienti”, afferma David Wrathall, professore dell'Oregon State University negli Stati Uniti.
E allora, che fare? “Lottare per un mondo più giusto”, è il messaggio di un ricercatore francese che rispecchia il pensiero di gran parte degli intervistati. “Se il mondo, incredibilmente ricco com'è, resta a guardare e non fa nulla per affrontare la situazione dei poveri, alla fine perderemo tutti”, aggiunge Dipak Dasgupta, economista ed ex consulente del governo indiano, ora all’Energy and Resources Institute di Nuova Delhi.
Oltre all’esercizio del voto, molti scienziati hanno dichiarato di aver partecipato a proteste per il clima, in quanto cittadini profondamente preoccupati per il riscaldamento globale, e di essersi impegnati in prima persona in progetti che proteggano i cittadini dagli impatti della crisi climatica.
“Lavoro di più su progetti con le comunità vulnerabili, in modo che migliorino il loro adattamento ai cambiamenti climatici, i cui impatti già sperimentiamo e che aumenteranno in futuro”, ha detto la professoressa Carolina Vera dell'Università di Buenos Aires in Argentina.
Numerosi scienziati hanno dichiarato, inoltre, di aver prestato il loro tempo come testimoni esperti in cause legali sul cambiamento climatico e altri hanno detto che stavano aiutando dei gruppi a sviluppare nuove politiche climatiche.
E sono proprio i giovani a rappresentare una porta aperta verso il futuro: “La mia unica fonte di speranza è il fatto che, come educatrice, vedo la prossima generazione così intelligente e capace di comprendere le politiche da intraprendere”, ha commentato Lisa Schipper, dell'Università di Bonn in Germania.
Parole che riecheggiano in un editoriale dell'ex negoziatrice chiave delle Nazioni Unite per il clima, Christiana Figueres, secondo la quale: “L'ottimismo ostinato può essere la nostra unica speranza. Dobbiamo costruire una consapevolezza collettiva, la sensazione che il cambiamento sia possibile e lo slancio per un progresso sistemico più ampio”.
Inoltre nel round-up sulla crisi climatica di questa settimana:
Le Nazioni Unite hanno approvato una procedura di reclamo e appello contro il mercato del carbonio per salvaguardare le comunità locali
Tra le azioni messe in campo per contrastare il cambiamento climatico, paesi e compagnie energetiche possono compensare le proprie emissioni di carbonio attraverso progetti di compensazione, come ad esempio, la piantumazione di terreni in quei paesi che emettono meno ma che sono più esposti agli effetti della crisi climatica. In altre parole, un paese o una società che producono tante emissioni di gas climalteranti possono ottenere dei crediti di carbonio e compensare parte delle proprie emissioni in cambio di progetti. Tuttavia, queste azioni possono portare alle espropriazione dei terreni e avere effetti devastanti sulle comunità locali.
È quanto è accaduto, ad esempio, in Congo, dove un progetto di compensazione del gigante petrolifero Total ha messo in crisi i contadini locali, espropriati dei loro campi per permettere la piantumazione di alberi su una superficie di 40.000 ettari e la realizzazione della Forest Neutral Congo (FNC). Secondo il progetto di Total, gli alberi di acacia piantati sui 40mila ettari di terreno consentirebbero il sequestro di oltre dieci milioni di tonnellate di CO2 in 20 anni. Il progetto genera crediti di carbonio che Total utilizzerebbe per compensare alcune delle proprie emissioni. Ma il progetto, come testimoniato da Pulchérie Amboula in un’inchiesta di SourceMaterial e Unearthed, sta avendo un costo elevato per le famiglie degli altopiani di Batéké che hanno vissuto di queste terre per generazioni
La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno approvato una procedura di appello e reclamo per il meccanismo di accreditamento dei crediti di carbonio. “Stiamo creando nuove strade per dare potere alle comunità e agli individui vulnerabili, assicurando che le loro voci siano ascoltate e che i loro diritti siano sostenuti”, ha dichiarato Maria AlJishi, presidente dell'organismo incaricato di istituire il mercato.
Isa Mulder, ricercatrice del gruppo Carbon Market Watch, ha detto a Climate Home che l'accordo sulle politiche di contestazione dei progetti di crediti di carbonio prima e dopo la loro attuazione rappresenta “un passaggio piuttosto importante”.
Il precedente mercato del carbonio delle Nazioni Unite non prevedeva procedure di questo tipo.
Studio su Science: “Gli interventi per proteggere gli ecosistemi funzionano”
A livello globale, la biodiversità si sta riducendo a causa della distruzione degli habitat, della diffusione delle specie invasive, dell’agricoltura intensiva e degli effetti della crisi climatica. Ma c’è una buona notizia. Le azioni e le misure adottate in vari luoghi dalle comunità locali per invertire la perdita di biodiversità e proteggere gli ecosistemi funzionano. È quanto emerge da uno studio pubblicato su Science da parte di un team guidato dall'organizzazione per la conservazione Re:wild, dalle università di Oxford e Kent e dall'Unione internazionale per la conservazione della natura, che ha analizzato i risultati di 186 studi relativi a 665 sperimentazioni di diversi interventi di conservazione a livello globale nel corso di un secolo.
Gli interventi di conservazione – spiegano gli autori dello studio in un articolo su The Conversation – hanno migliorato lo stato della biodiversità o ne hanno rallentato il declino nella maggior parte dei casi (66%) rispetto a quando non si faceva nulla e, soprattutto, quando gli interventi di conservazione funzionano, sono altamente efficaci.
Tra gli esempi citati dagli autori dello studio, c'è la gestione dei predatori autoctoni invasivi su due isole della Florida, che ha portato a un miglioramento immediato e sostanziale della nidificazione delle tartarughe marine. Nei paesi dell'Africa centrale del bacino del Congo, la deforestazione è stata ridotta del 74% sui terreni soggetti a un piano di gestione forestale rispetto a quelli che non lo erano. Nell'Amazzonia brasiliana, le aree protette e le terre indigene hanno registrato una deforestazione significativamente inferiore e incendi di minore entità.
Anche i casi in cui le azioni di conservazione non sono riuscite a recuperare o a rallentare il declino delle specie o degli ecosistemi, sono utili per capire cosa non ha funzionato. Ad esempio, in India, la rimozione di un’alga invasiva ha favorito la sua diffusione altrove. Nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, la creazione di un’area marina protetta ha portato a una diminuzione dei cavallucci marini perché aveva permesso l’abbondanza di specie predatrici, come i polpi. Tutte informazioni che consentono di imparare dagli errori e di pensare a nuove soluzioni.
Per far sì che questi interventi siano ancora più efficaci c’è bisogno di maggiori finanziamenti alla conservazione della natura, conclude lo studio. Oltre la metà del PIL mondiale, quasi 44.000 miliardi di dollari, è moderatamente o fortemente dipendente dalla natura. Secondo studi precedenti, un programma globale completo di conservazione richiederebbe un investimento compreso tra 178 e 524 miliardi di dollari. In confronto, solo nel 2022, i sussidi per la produzione e l'uso di combustibili fossili - che sono in ultima analisi distruttivi per la natura, considerato che la combustione dei combustibili fossili è la causa principale del cambiamento climatico - ammontavano a 7mila miliardi di dollari a livello globale. Si tratta di una cifra 13 volte superiore alla stima massima di quanto sarebbe necessario ogni anno per finanziare la protezione e il ripristino della biodiversità. Oggi, in tutto il mondo, vengono investiti solo 121 miliardi di dollari all'anno per la conservazione.
I ricercatori dell’Università della California hanno sviluppato una plastica che si auto-digerisce
Il poliuretano viene utilizzato per qualsiasi cosa, dalle custodie dei telefoni alle scarpe da ginnastica, ma è difficile da riciclare e finisce principalmente in discarica. Una soluzione potrebbe arrivare dagli Stati Uniti. Gli scienziati dell’Università della California San Diego, La Jolla, hanno sviluppato una “plastica che si autodigerisce” e che, secondo loro, potrebbe contribuire a ridurre l'inquinamento.
I ricercatori Han Sol Kim e Jon Pokorski hanno sviluppato una plastica in grado di autodistruggersi, incorporando spore di batteri mangia-plastica. Le spore rimangono inattive durante la vita utile della plastica, ma si attivano e iniziano a digerire il prodotto quando vengono esposte ai nutrienti del compost. Inoltre, le spore aumentano la resistenza della plastica. “Il nostro processo rende il materiale più robusto, prolungando il suo ciclo di vita”, spiega Pokorski. “Poi, una volta terminato, siamo in grado di eliminarlo dall'ambiente, indipendentemente dal modo in cui viene smaltito”.
Il materiale plastico è attualmente in fase di lavorazione in laboratorio, ma potrebbe essere utilizzato nel mondo reale entro pochi anni, con l'aiuto di un produttore. Il tipo di batterio aggiunto alla plastica è il Bacillus subtilis, ampiamente utilizzato come additivo alimentare e probiotico. Il batterio deve essere ingegnerizzato geneticamente per poter resistere alle altissime temperature necessarie per la produzione di plastica.
La soluzione preferibile resta in ogni caso la riduzione della quantità di plastica utilizzata. “Soluzioni di questo tipo potrebbero dare l'impressione che dovremmo preoccuparci meno dell'inquinamento da plastica perché qualsiasi plastica che fuoriesce nell'ambiente si degrada rapidamente e, idealmente, in modo sicuro. Eppure, per la stragrande maggioranza delle materie plastiche, non è così”, spiega il prof. Steve Fletcher, direttore del Revolution Plastics Institute dell'Università di Portsmouth.
Il modo più efficace per affrontare l'inquinamento da plastica è concordare tagli globali legalmente vincolanti alla produzione di plastica, conclude Fletcher. In Canada si è appena concluso il penultimo ciclo di colloqui delle Nazioni Unite che ha l'obiettivo di concordare un accordo globale per affrontare l'inquinamento da plastica. Ne parlavamo nello scorso round-up.
Immagine in anteprima via libcom.org