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Lo scorso 3 di ottobre gli operai dello stabilimento di Crevalcore della Magneti Marelli hanno scioperato contro l’intenzione, dichiarata dai manager, di chiudere lo stabilimento. Dopo la mobilitazione tanto dei sindacati quanto della politica locale e nazionale l’azienda ha deciso di sospendere la procedura di chiusura.
Nonostante la Magneti Marelli si occupi prevalentemente di batterie, nello stabilimento di Crevalcore si lavora ancora nella componentistica del motore endotermico. Per questo motivo, sostengono i manager, si è assistito negli ultimi anni a un calo del fatturato che ha reso indispensabile la chiusura dello stabilimento.
La crisi della Magneti Marelli di Crevalcore, infatti, non può essere vista come caso isolato, ma come fallimento della strategia del nostro paese nello stare al passo con la mobilità elettrica. Questo mentre il resto del mondo ha deciso di prendere sul serio la sfida, anche se più per rivalità geopolitiche e occasioni elettorali.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il balzo della Cina e la risposta dell’America
L’elefante nella stanza e quello che sta spingendo il mondo occidentale verso maggiori investimenti nell’elettrico è la predominanza della Cina sul settore e quindi sul futuro di quello automobilistico.
Secondo i dati del ministero della Pubblica Sicurezza cinese, nel 2022 si è assistito a una forte crescita rispetto all’anno precedente delle auto elettriche, arrivando a oltre 10 milioni di mezzi. I giganti del settore come BYD, Ayon, SAIC-GM-Wuling, Chang'an Motors hanno ormai preso il via e possono competere con i marchi stranieri, andando verso il soddisfacimento del 50% della domanda interna.
Ovviamente lo Stato cinese non si tira certo indietro. Per raggiungere il cosiddetto Dual carbon target (picco delle emissioni nel 2030 e carbon neutrality per il 2060) la mano pubblica sta finanziando massicciamente il settore, soprattutto sul lato consumatore. Vedendo la fine degli incentivi per l’acquisto di auto elettriche in un momento di grande confusione per l’economia globale, e quella cinese in particolare, il governo ha rinnovato un piano di incentivi per l’acquisto di auto elettriche o NEV dal valore di 73 miliardi di dollari, il più elevato di sempre.
Non manca poi l’attenzione all’export. Ci sarebbe solo il Giappone davanti al paese governato da Xi Jinping quanto a esportazioni di auto, in particolare auto elettriche. E nel settore il Giappone sta assistendo a un netto rallentamento.
La posizione di primo piano della Cina sul mercato globale non è una casualità e non è soltanto merito delle politiche industriali. Sul fronte auto elettrica la Cina ha vantaggi importanti nella catena d’approvvigionamento, soprattutto per quel che riguarda le batterie e i microchip. Nel 2022 la Cina ha prodotto il 75% delle batterie per le auto elettriche, con le due imprese CATL e BYD che arrivano quasi al 50%.
Per essere costruite queste batterie necessitano dei cosiddetti “critical and strategic raw materials" come litio, cobalto, nichel. Questi tipi di elementi sono cruciali per l’approdo a un’economia a zero emissioni nette. Sotto questo aspetto la Cina detiene quasi un monopolio: giusto per citare un dato, l’Europa importa il 96% del magnesio, uno degli elementi, dalla Cina. Spesso la Cina non ha riserve consistenti di questi materiali, ma compensa grazie ad accordi e investimenti ingenti in paesi come il Mali e Nigeria, specializzandosi inoltre nella loro lavorazione: a fronte del 6% di riserve di litio, il 60% del litio viene rifinito in Cina. Non manca il vantaggio economico: queste batterie compongono infatti il 40% del costo totale di un'auto elettrica.
Un altro campo di battaglia è quello sui semiconduttori. Si tratta di quei materiali che compongono i transistor, resistori, diodi e componenti cruciali dell’elettronica, da cui dipende appunto il funzionamento della macchina elettrica, ma anche di smartphone e computer per capirci. Come fatto notare da un articolo del New York Times, una vettura di nuova generazione può richiedere fino a 100 diversi semiconduttori.
Nel corso degli ultimi anni si è assistito a una vera e propria Guerra dei chip, con il mondo occidentale e la Cina che inseriscono via via condizioni più stringenti per il commercio dei semiconduttori. In questo caso il leader indiscusso è la Repubblica Cinese, ovvero Taiwan che detiene il 63% della quota di mercato di microchip, seguito dalla Corea del Sud con 18% e dalla Cina con il 6%. Ma nel corso degli anni la Cina ha premuto sull’acceleratore, tanto che nel corso degli ultimi 20 anni buona parte della ricerca accademica su semiconduttori e microchip, cita un report della casa editrice accademica Elsevier, è in mano alla Cina.
Gli USA, Biden e l’auto elettrica come simbolo del reshoring
Anche negli Stati Uniti le cose stanno cambiando. Se un tempo Bill Clinton festeggiava l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ora quella decisione appare forse presa con leggerezza. D’altronde le cose erano già cambiate con Donald Trump e la sua guerra dei dazi alla Cina. Poi è arrivata la pandemia che ha fatto da catalizzatrice, accelerando tendenze che erano in atto da tempo. Non solo ha fatto emergere le disuguaglianze e una grave disagio da parte della classe lavoratrice, ma anche fatto emergere quanto una catena di approvvigionamento così lunga esponeva a rischi maggiori dei prodotti a basso costo per i consumatori.
Dopo la vittoria elettorale, l’amministrazione Biden sapeva che i rapporti con la Cina non sarebbero tornati alla normalità, anche per dinamiche politiche interne: secondo uno studio proprio la penetrazione cinese ha avuto un impatto notevole sul risultato delle elezioni presidenziali del 2016. Cambiata la situazione internazionale e interna (pensiamo anche all’invasione Russa dell’Ucraina), l’amministrazione individuava in un documento vari fronti su cui agire per migliorare la catena d’approvvigionamento.
Il primo fronte è rappresentato dai semiconduttori, vitali per il mondo tecnologico moderno. Gli Stati Uniti erano un tempo i leader del settore tanto che il transistor, che diede il via al mondo moderno e si basa proprio sui fenomeni fisici permessi dai semiconduttori, fu inventato ai Bell laboratories nel 1947. Poi un brusco calo: la quota di produzione di semiconduttori è calata del 25% nel corso dal 1990. Senza un intervento diretto del governo federale, stima un altro report citato della SIA (Semiconductors industry sssociation), questo non accennerà a fermarsi.
Ci sono poi le terre rare e i minerali, a partire da litio e grafite. Secondo il report, mentre il mondo va verso la neutralità carbonica, la necessità di questi due elementi crescerà esponenzialmente. La Cina detiene il 55% delle riserve di terre rare e l’85% del raffinamento. Questo, sottolinea il report, richiede da una parte la necessità da parte degli Stati Uniti di trovare fonti di approvigionamento più sicure, dall’altra di utilizzare questi per un rilancio manifatturiero trainato dai valori americani, da quelli dell’ambientalismo e dalla creazione di posti di lavoro.
Infine, c’è il fronte delle batterie. Proprio perché la domanda di veicoli elettrici crescerà, è necessario aumentarne la capacità. Senza un intervento statale, anche in questo caso, l’offerta non basterebbe a soddisfare la domanda.
Per questo motivo la trasformazione dell’industria automobilistica rappresenta non solo una sfida, ma anche un’occasione per l’amministrazione Biden. Il tentativo di creare una catena di approvvigionamento più resiliente garantirebbe una maggior occupazione e maggior investimenti interni agli Stati Uniti, quindi la creazione di ottimi posti di lavoro che come abbiamo visto giocano un ruolo cruciale anche dal punto di vista elettorale. Gli investimenti stessi in auto elettriche e nelle infrastrutture necessarie (pensiamo ad esempio alle colonnine) andranno ancora una volta ad aumentare l’occupazione.
Più di tutti è l’Inflation reduction act il provvedimento dell’amministrazione Biden che si muove in tal senso, con ingenti incentivi e sussidi sia per i consumatori sia per le aziende riguardo energia pulita e macchine elettriche. Non mancano, anche qui, i contenuti protezionisti: i vincoli per accedere al clean vehicle credit, fa notare un report di Credit Suisse, non si applicherebbero alle auto con batterie di tipo cinese. Da segnalare anche l'Advanced manufacturing production credit, che garantisce un credito d’imposta del 10% che, sempre secondo il report di Credit Suisse, potrebbe risultare vitale per la catena d’approvvigionamento della componentistica necessaria per la costruzione di batterie elettriche.
Il piano di Biden sembra funzionare anche per quel che riguarda il rilancio dell’occupazione: secondo un report del dipartimento dell’energia gli investimenti fatti hanno portato a un aumento di 114mila posti di lavoro. Ma il risultato forse più entusiasmante è proprio la crescita del settore elettrico: nel 2022, anche se non tutto è da attribuire a IRA, il mercato statunitense è aumentato del 55% raggiungendo l’8% su scala globale dietro la Cina e l’Europa.
L’auto elettrica quindi va vista come simbolo paradigmatico di un’amministrazione che punta a essere leader nella transizione ecologica, ma allo stesso tempo a primeggiare contro i competitor esteri come la Cina. Finora, grazie alla politica industriale di Biden, sembra che i primi passi siano promettenti.
Il ruolo dell’Europa
La situazione europea, quindi, è delicata: stretta tra un alleato che guarda sempre di più a se stesso come gli Stati Uniti d’America e la Cina che, per risolvere la concorrenza tra i vari marchi nel mercato interno, punta ora al mercato europeo, più contendibile rispetto a quello americano.
La buona notizia è che l’Europa non è indietro riguardo l’auto elettrica, almeno per quel che riguarda l’oggi. Nel 2022 si è assistito a una forte crescita rispetto all’anno precedente, facendo segnare un +22% secondo l’istituto di ricerca automobilistico Jato Dynamics. Ma il futuro può essere accidentato.
Il primo problema riguarda l’atteggiamento che si vuole avere nei confronti della Cina. Come spiega infatti su ISPI il ricercatore Guido Alberto Casanova, dietro c’è la differente posizione sul mercato tra Germania e Francia. La prima infatti si è sempre contraddistinta per auto fascia premium, che quindi non risente del tentativo cinese di immettere i suoi marchi sul mercato per far fronte alla saturazione del mercato interno. Nonostante ciò, case automobilistiche tedesche come Volkswagen stanno collaborando con industrie cinesi come Xpeng proprio per sfruttare le tecnologie sviluppate dalla Cina nel corso degli anni. Anche BMW ha intensificato i suoi contatti con le imprese cinesi guarda caso soprattutto sulle batterie.
Se quindi la Germania punta a una collaborazione per offrire un prodotto di diversa categoria, diversa è la posizione della Francia che con marchi come Renault si trova invece a competere con i modelli cinesi e vorrebbe una politica più protezionista. Il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha ad esempio proposto di limitare gli investimenti europei soltanto a prodotti che hanno più del 50% della componentistica prodotta in Europa. Sfruttando degli indicatori sull’impatto ambientale, è poi altamente probabile che gli incentivi che il governo Macron elargirà per l’acquisto di macchine elettriche non potranno essere utilizzati per le auto cinesi.
Il problema è, banalmente, che le auto cinesi costano meno e l’industria Europea è indietro rispetto alla produzione e lancio sul mercato di auto elettriche a basso costo. È quindi necessaria una strategia per attaccare il problema che passi anche da una politica di investimento comune. Non è infatti mancato lo stupore da parte della commissione Von Der Leyen per l’IRA dall'Amministrazione Biden che favorisce i produttori americani su quelli europei. Proprio per questo la commissione ha proposto, nel marzo del 2023, il Net zero industry act, dopo aver già proposto il Critical raw material act, per affrontare la sfida della transizione anche sul fronte automobilistico.
L’Italia tra i fanalini di coda
In Italia, come abbiamo visto, la situazione non è rosea. La vicenda di Magneti Marelli segnala la totale assenza di un piano industriale se non quello lasciato al libero mercato, come ha fatto notare il segretario della CGIL Maurizio Landini, ma punta il dito anche verso Stellantis, la holding con sede nei Paesi Bassi che comprende sia Peugeot sia Fiat. In primo luogo proprio su Magneti Marelli: fino al 2018 l’azienda era infatti di proprietà di Fiat Chrysler Automobiles (FCA), che la vendette poi a un società giapponese controllata dal fondo americano KKR per 6.2 miliardi di euro. Tra gli accordi presi da FCA c’era il mantenimento della produzione di Magneti Marelli nel nostro paese, ma il fondo KKR è ormai da cinque anni in perdita e ha quindi scaricato su Magneti Marelli i suoi debiti, ritardando così gli investimenti necessari sulle batterie per l’auto elettrica nel nostro paese.
Ma se in questo caso i demeriti di Fiat sono solo indiretti, uno sguardo alla storia della casa automobilistica fa emergere responsabilità gravi sui ritardi del rinnovo dell’industria automobilistica nel nostro paese. La casa automobilistica era stata una dei pionieri dell’elettrico con la Fiat Elettra addirittura dagli anni ‘90. Ma poi, come spiega Andrea Malan su Domani, sono arrivati la crisi del 2001 in Fiat e nel 2004 Marchionne, che non era di certo un fan dell’elettrificazione. Resta infatti storica ka sua dichiarazione contro l’auto elettrica come “arma a doppio taglio” (che è in realtà una questione più complessa di quello che pensiamo).
Nel mentre, però, altri marchi sondavano il terreno e lanciavano i primi prodotti ibridi o completamente elettrici. In particolare, seguendo l’esempio di Tesla, venivano lanciati nella fascia più costosa, perché, per un motivo o per l’altro, si vendevano meglio: pensiamo a marchi come Alfa Romeo e Maserati che avrebbero potuto tranquillamente fare da competitor sia con Tesla sia con i modelli BMW. La FIAT invece arriva in ritardo, solo nel 2020, e su un modello come la Fiat 500 completamente elettrica, mentre le altre sono tutte di tipo ibrido come Jeep.
Ma la crisi del settore automobilistico, che è passato da un milione e 270 mila unità a 454 mila nel giro di vent’anni, rischia di avere dei contraccolpi anche sul resto della filiera, come quella della componentistica. Si pensi ad esempio a GKN che tra i fornitori aveva proprio FCA. Eppure c’è un alleato fondamentale della casa automobilistica ed è il governo italiano. Il tentativo di temporeggiare anche in Europa, mettendosi di traverso sul piano per vietare l’immatricolazione di auto con motore endotermico entro il 2030, è per comprare tempo per FCA che, dopo l’ottima performance della Fiat 500e, è ora in procinto di presentare i nuovi prodotti elettrici.
Ma anche sul fronte incentivi pare che le mosse dei governi siano state fatte appositamente per ritardare l’elettrico. Secondo un report del Transport & Environment, un’organizzazione no profit con sede a Bruxelles, la fiscalità italiana non segue uno dei principi base della politica degli incentivi: chi più inquina più paga. Nel nostro paese, rileva invece il report, accade di fatto il contrario. Uno degli esempi citati è la tassa sull’immatricolazione che nel nostro paese è completamente slegata dalle emissioni.
Anche secondo Francesco Naso, segretario dell’associazione per facilitare lo sviluppo della mobilità elettrica Motus E, uno dei problemi principali risiede nel sistema di incentivi. Innanzitutto va alzato il cap di prezzo per accedere alle agevolazioni, dichiara Francesco Naso, ma anche estenderla ad aziende e noleggi.
Resta poi il nodo delle colonnine: nonostante siamo nella media europea, la distribuzione è altamente asimmetrica e i bandi del PNRR sono stati un successo a metà, soprattutto per quel che riguarda le superstrade.
Se il resto del mondo quindi ha deciso di affrontare seriamente la sfida dell’auto elettrica, in Italia i ritardi accumulati rendono ora la transizione ben più dolorosa. La fermezza poi con cui il governo Meloni sminuisce la crisi climatica non contribuisce certo a migliorare la situazione.
Immagine in anteprima: frame video Rai News