Peter Singer. Gli animali soffrono come noi, è una questione morale che dobbiamo affrontare

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Peter Singer è uno dei filosofi viventi più influenti al mondo. Il suo interesse per gli animali l’ha portato a fare riflessioni sul rapporto uomo-animale e a ricordarci quanto il loro dolore sia uguale al nostro.

Nella quotidianità di ognuno di noi ci sono, talvolta, delle situazioni che appaiono create a tavolino e che, invece, sono il frutto di un lancio fortunato dei dadi che contribuiscono a governare le nostre azioni. È così che, qualche settimana fa, mentre mi recavo all’incontro con Peter Singer, padre dell’antispecismo e considerato uno dei più autorevoli e rivoluzionari filosofi dell’epoca moderna, ho preso un taxi. A condurlo, un ragazzo di poco più di quarant’anni che, poco dopo, mi avrebbe annunciato essere “nuovo del mestiere”. Una cosa non comune tra i tassisti italiani che, di norma, si tramandano licenza e professione di generazione in generazione e iniziano in giovane età.

“Fino al 2022 lavoravo in un macello. Uno di quelli che riforniscono i supermercati della grande distribuzione. Ma non ce l’ho fatta. Dopo dieci anni ho mollato. Era terribile. E io non ero nemmeno uno di quelli che stava al reparto uccisioni. Io mi occupavo del taglio. Ormai è tutto meccanizzato. Le mucche vengono messe in un nastro trasportatore, sotto la supervisione di personale per lo più straniero, e dirette dove ci sono le pistole. Bum bum bum, una dietro l’altra”.

Con l’immagine di una fila di animali spaventati che vanno incontro alla morte per diventare una bistecca, incontro Peter Singer all’università Statale di Milano e gli racconto brevemente quanto appena accaduto, chiedendogli un commento.

L’interesse nei confronti del benessere animale sta crescendo, ma molto lentamente. Troppo rispetto a quanto mi aspettassi e sperassi. Alla fine ci arriveremo, in un modo o nell’altro, ma non credo sarò qui ad assistere al cambiamento.

Peter Singer

Singer, 77 anni, originario dell’Australia e docente di Filosofia etica all’università di Princeton, nel 1975 pubblica “Animal Liberation”, di cui esiste anche un’edizione rivista e aggiornata nel 2023. Un libro intriso di pensieri logici sul perché infliggere sofferenze agli altri animali ha delle implicazioni etiche che si ripercuotono su tutto il nostro sistema sociale. Un testo destinato a cambiare il modo in cui molte persone guardano agli animali da reddito.

Professor Singer, è ancora possibile, nel 2024, giustificare l’uccisione di circa 200 miliardi di animali da allevamento l’anno sostenendo che è una scelta necessaria a mantenere in piedi il sistema e a sfamare la popolazione mondiale?
Alla base dello specismo c’è il concetto di diversità. Viviamo costantemente sopraffatti da un bias cognitivo che ci porta a vedere le altre specie animali come “altro” rispetto a noi. Un ragionamento molto simile a quello che fornisce le basi per teorie razziste e sessiste e che trova fondamento nella stessa Genesi, dove si parla di dominio degli uomini sugli animali, e nel pensiero aristotelico che sostiene che le piante siano state create per le bestie e gli animali per gli uomini. Teorie strumentali che trovano riscontro anche in Tommaso D’Aquino, che sosteneva che non importa come gli uomini si comportano con gli animali perché tutte le creature del Pianeta sono state assoggettate da Dio all’uomo, e in Emmanuel Kant, il quale sosteneva che gli animali non avessero una coscienza ma fossero solo strumenti.

Tutto questo cambia con Jeremy Bentham, filosofo, giurista ed economista inglese che per la prima volta accosta l’idea di moralità con quella del comportamento dell’uomo nei confronti degli animali e si chiede se questi, in effetti, siano in grado di soffrire. Oggi sappiamo che gli animali soffrono e, per questo, dobbiamo assolutamente affrontare la questione morale legata al modo in cui li trattiamo. E smettere di giustificare le nostre scelte con la necessità di avere del cibo in tavola, di avanzare nella ricerca scientifica (l’uccisione di duecento milioni di animali per la sperimentazione non ha più senso e può risultare controproducente) o con la difesa di tradizioni anacronistiche. Lo shift mentale necessario è assolutamente possibile. A dimostrarlo è la storia. Ci sono state epoche in cui la sodomia e il matrimonio tra persone dello stesso sesso erano pratiche esecrabili e condannate apertamente: oggi non solo sono concepite come questioni facenti parte della sfera personale e privata, ma sono anche difese come parte del diritto della persona.

A tal proposito, in un’epoca in cui si continua a dividere il mondo in categorie e a dover trovare ragioni fisiologiche, storiche o giuridiche per l’assegnazione di un diritto, su cosa dovremmo imporci di riflettere sul modo in cui trattiamo gli altri animali?
Oggi abbiamo una conoscenza più approfondita dell’intelligenza di molte creature, dai maiali ai polpi, e abbiamo prove che dimostrano che il veganismo, più popolare che mai, fa bene alla nostra salute e all’ambiente. Eppure, il consumo globale di carne e pesce continua ad aumentare, si sta progettando il primo allevamento di polpi al mondo e l’intensificarsi della crisi ecologica sta portando molti animali all’estinzione. Per capire perché il modo in cui trattiamo gli altri animali è sbagliato, dobbiamo indagare sulle ragioni che ci muovono a farlo e su come li vediamo. La capacità di usare la ragione o il linguaggio non possono essere fattori discriminanti non solo perché sappiamo che le altre specie hanno capacità molto simili alle nostre, ma anche perché, a ben vedere, non appartengono ai bambini piccoli e a coloro che soffrono di disabilità cognitive o linguistiche. Per questo il dolore è il fattore più importante da considerare. Come esseri umani, consideriamo il dolore una cosa universalmente negativa. Così come non ci piace il dolore inflitto a noi, non dovremmo infliggerlo agli altri senza una giustificazione. Il confine di specie non è rilevante: il dolore è dolore se una creatura è in grado di provarlo. Questo mi sembra un argomento più semplice e diretto di quello basato sulle capacità cognitive.

Quali evidenze scientifiche abbiamo in merito alla sofferenza animale?
A dirci che gli animali soffrono proprio come noi è l’esistenza di un sistema fisiologico simile, sono i test sulle reazioni e i comportamenti (vi è mai capitato di pestare per errore la coda al vostro cane? Vi è sembrato che non provasse dolore?). È la condivisione della medesima storia evolutiva. Tutte caratteristiche che riguardano anche i pesci, spesso ignorati, nonostante gli studi sul loro dolore siano iniziati nel lontano 1975 dimostrando che anche loro soffrono come noi. Senza contare gli effetti sull’ambiente della nostra indotta necessità di nutrirci di animali. Un salmone adulto, come quello che viene posizionato al centro del banchetto della vigilia di Natale o di capodanno, di solito proviene da allevamenti che stanno distruggendo la Patagonia cilena e i suoi ecosistemi preziosi. Prima di essere ucciso, quel salmone era stato nutrito con almeno 66 chili di pesci pescati. Moltiplicate questa cifra per milioni di esemplari, rinchiusi in gabbie posizionate in mare o in grandi vasche, e avrete la misura di quanto è sostenibile la piscicoltura.

In un mondo in cui il maltrattamento individuale degli animali è un crimine ma quello sistematico è considerato un modello di business, il sistema sta migliorando?
Ogni anno vengono uccisi circa settanta miliardi di polli. I broiler, quelli che trovate al supermercato incellofanati, o che andate allegramente a mangiare il sabato sera in una delle tante catene che hanno un bel galletto sorridente come mascotte, vengono allevati per crescere così velocemente da non riuscire più a sostenere il loro peso corporeo. Dopo un paio di settimane dalla nascita, sono così grassi da non riuscire a stare in piedi e non possono sedersi perché vengono allevati su una specie di lettiera piena dei loro escrementi e con un livello di ammoniaca talmente alto che, appollaiandosi, si ustionano le zampe e il petto. Se i bambini umani crescessero allo stesso ritmo dei polli da carne di oggi, a due mesi peserebbero 660 chili. Queste informazioni sono ormai facilmente reperibili. Eppure, la domanda è ancora così alta che l’allevamento di polli si è intensificato.

Un panorama che difficilmente fa ben sperare. Esiste, però, qualche buona notizia? Ci sono stati dei cambiamenti positivi, quantomeno dalla prima edizione del suo libro?
Nonostante non si sia compiuto un vero e proprio esteso balzo culturale, alcune buone notizie ci sono. Tra queste, il fatto che sono stati introdotti controlli e norme sui metodi di allevamento e macellazione: almeno nove Stati degli Usa e l’Unione europea vietano le gabbie per vitelli, le gabbie per galline o i box per le scrofe. Le principali catene di supermercati statunitensi hanno deciso di vendere solo uova provenienti da allevamenti senza gabbie entro il 2026 e McDonald’s ha fatto lo stesso. La Danimarca, grande esportatore di carne suina e di prodotti lattiero-caseari, introdurrà invece una tassa sulle emissioni di anidride carbonica del bestiame a partire dal 2030. E la percezione di molte persone sta cambiando. Vegani e vegetariani non vengono più visti con occhio critico sempre e comunque: l’approvazione generale verso diversi regimi alimentari si sta diffondendo in modo promettente.

Professor Singer, un’ultima domanda: com’è iniziata la sua riflessione nei confronti del trattamento che riserviamo alle altre specie?
Nonostante siano in molti a darlo per scontato, io non sono un amante degli animali in senso stretto. Capisco l’affezione e l’affetto che si può provare per loro ma non è questo a muovermi. Il mio è un ragionamento che trova le sue fondamenta negli studi di filosofia per i quali la questione etica, relativamente a questi argomenti, è oggettiva: è necessario minimizzare la sofferenza animale e massimizzare la felicità condivisa. Questa è la base del mio lavoro e del mio pensiero.

Mentre la sala si svuota e Singer si avvia verso l’uscita, dove ad aspettarlo c’è un gruppo di fan affezionati che stringono tra le mani il suo libro e sono famelici di risposte, penso a una conversazione affrontata con un amico la sera prima. Lui spasmodicamente curioso di scoprire quanto prima le potenzialità che riserva l’intelligenza artificiale, io sempre più convinta che la nostra estrema fiducia nel genio ingegneristico possa portarci incontro a una trappola evolutiva.

Oltre ai tentativi e agli studi per sostituire gli animali con robot in grado di rispondere alle nostre personali esigenze affettive, nell’accurata opera di sostituzione della natura e di svariati risultati dell’evoluzione naturale, l’intelligenza artificiale (AI) è arrivata anche negli allevamenti. Ora si plaude ai grandi risultati economici che possono essere raggiunti affidandole il controllo dell’alimentazione e della crescita degli animali rinchiusi in attesa di essere macellati. Non è necessario sapere nulla di loro o avere esperienza nella loro gestione. In caso di problemi, il personale incaricato può risolverlo da remoto. E, quando è il momento, non c’è bisogno di alcun essere umano: gli animali vivono e muoiono da soli, in una scatola nera da cui escono solo come prodotti pronti per l’uso, nell’ultima grande opera di dissociazione cognitiva creata dall’uomo.

Viene meno, così, anche l’ultimo baluardo a difesa dei diritti di queste creature: il rapporto tra essere umano e animale, governato dall’empatia e da quel percorso evolutivo comune che ci dovrebbe ricordare come il loro dolore è anche il nostro.

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