Il fallimento delle politiche migratorie e la criminalizzazione degli “scafisti”

ValigiaBlu

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“Quello che vuole fare questo governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo”, ha dichiarato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nella conferenza stampa di Cutro, alcuni giorni dopo il naufragio che ha portato alla morte di 92 persone. I cosiddetti scafisti sembrano essere diventati il cuore della linea del governo sull’immigrazione, con un nuovo decreto che inasprisce ulteriormente le pene per chi guida una barca che trasporta migranti. La persecuzione degli scafisti non è una strategia nuova: nell’ultimo decennio è stata un cardine delle politiche migratorie italiane ed europee. Cosa ha significato finora? È davvero la soluzione per fermare le partenze e le morti in mare? E chi sono davvero gli scafisti?

Non possiamo non vedere che è un tema politico caldissimo e che c’è una forte richiesta, basta leggere i giornali, di punizione del più alto numero possibile di scafisti sulla faccia della terra”, spiega a Valigia Blu Gigi Omar Modica, magistrato che si occupa da anni di immigrazione irregolare. 

Ogni cosiddetto scafista ha la sua storia, ma quella raccontata è troppo spesso una sola. Nel discorso comune, scafisti e trafficanti sono la stessa cosa. Va sottolineato che nella maggior parte dei casi chi guida la barca è a sua volta un migrante che non ha nulla a che fare con le organizzazioni criminali che gestiscono i viaggi. Sarebbe difficile immaginare criminali di alto profilo rischiare la vita in traversate pericolosissime. Eppure in Italia gli arresti e le condanne di presunti scafisti continuano senza sosta, spesso dopo indagini sommarie, processi frettolosi, condanne severissime elargite con superficialità. Nell’ultimo decennio, si stima che più di 2.500 persone siano state fermate con questa accusa. 

Come Bakari. Dopo un lungo viaggio che ha toccato Gambia, Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, deserto, Libia, Mediterraneo e infine Italia, alla fine del 2015, è stato accusato di essere uno scafista, portato in carcere subito dopo l’arrivo, dove è rimasto fino ad aprile 2022. Di questi anni ha conservato tutto: dal braccialetto bianco, numero 44, che gli ha dato l’ONG che ha soccorso la sua imbarcazione ai documenti dei processi, che sfoglia mentre racconta la sua storia. Spiega a Valigia Blu che la sua esperienza assomiglia a tante altre: “Ci sono tantissime persone che ti raccontano la loro storia e tu alla fine ti dimentichi anche la tua. Non puoi nemmeno credere che questo stia succedendo in Italia”.

Dieci anni indietro

Per tenere conto della complessità di questi processi, occorre fare qualche passo indietro. Dopo la strage di Cutro, presto seguita da un altro naufragio nelle acque internazionali tra Libia, Malta e Italia, è difficile guardarsi intorno senza immergersi in un insopportabile déjà-vu. Sembra di tornare indietro di dieci anni, al 3 ottobre 2013, giorno in cui 368 persone persero la vita a poche miglia da Lampedusa. Dopo un primo slancio di solidarietà, dal 2014 le politiche italiane ed europee nel Mediterraneo si sono concentrate sulla protezione dei confini, più che delle persone che cercano di attraversarli. Ad occuparsi della sorveglianza delle frontiere esterne è Frontex, l’agenzia europea finita al centro di uno scandalo per aver violato i diritti umani e operato respingimenti illegali: il suo budget è passato da 6 milioni di euro nel 2005 a 754 milioni nel 2022. 

Dal 2015 uno degli obiettivi centrali delle missioni nel Mediterrano è la caccia ai trafficanti di esseri umani: l’arresto dei c.d. scafisti diventa la principale strategia di contrasto all’immigrazione irregolare. Anche per questo il primo intervento a largo di Steccato di Cutro si è configurato come un’operazione di polizia e non di ricerca e soccorso. Una scelta che ha ritardato l'avvio dei soccorsi, arrivati a naufragio avvenuto. “Questo è il risultato di una linea strategica che non dà priorità alla vita delle persone, piuttosto dà priorità alle indagini e all'individuazione del cosiddetto scafista”, spiega a Valigia Blu Sara, attivista di Alarm Phone.

La capofila delle indagini sui cosiddetti scafisti è la Direzione Nazionale Antimafia, alle cui riunioni dal 2015 partecipa anche Frontex. Come rivelato da un’inchiesta di The Intercept, era già noto che la maggior parte delle indagini si concentrasse su persone che non avevano nulla a che fare con i trafficanti. Ma con il crescere delle tensioni nell’opinione pubblica rispetto ai flussi migratori, aumenta anche la pressione per gli arresti e le condanne di presunti scafisti, dando luogo a processi che appaiono spesso opachi. “Siamo sicuri che nelle carceri italiane tutti gli scafisti che sono stati condannati sono veramente colpevoli? Come mai ci sono persino minori?”, chiede il magistrato Gigi Modica.

Molte delle imbarcazioni che arrivano in Italia partono dalle coste libiche, un contesto estremamente intricato dove le persone migranti subiscono sistematiche violazioni dei diritti umani. Lo conferma anche il recente rapporto sulla Libia del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che in tre anni di indagine ha trovato prove lampanti di “detenzione arbitraria, omicidio, tortura, stupro, schiavitù e sparizioni forzate”. 

Nel 2017, l’Italia ha siglato un accordo con la Libia per la gestione dell’immigrazione, tuttora in vigore. Ѐ un’iniziativa che rientra nei più ampi processi di esternalizzazione delle frontiere europee: per controllare i flussi migratori se ne delega la gestione a paesi terzi, in cambio di finanziamenti e accordi politici, come tra UE e Turchia. L’Italia si è impegnata a spendere più di un miliardo di euro per fermare le migrazioni nel Mediterraneo Centrale, di cui i principali beneficiari sono Libia e Tunisia. 

Nel caso del Memorandum Italia-Libia, l’Italia fornisce mezzi e addestramento alla cosiddetta guardia costiera libica. Quest’ultima intercetta e riporta nei centri di detenzione del paese le persone migranti, in diversi casi con l’aiuto dei mezzi di sorveglianza europei. Il rapporto delle Nazioni Unite evidenzia che i crimini contro l’umanità documentati coinvolgono sia la guardia costiera libica che altri apparati statali. Sottolinea anche che questi soggetti, collusi con trafficanti e milizie, ricevono mezzi e fondi dall’Unione Europea e dall’Italia per l’intercettazione, il rimpatrio e la detenzione dei migranti. Gli stessi membri delle organizzazioni criminali libiche occupano posizioni apicali nelle istituzioni statali e siedono da anni con l’Italia ai tavoli ufficiali per la gestione della frontiera Mediterranea.

Nonostante i numerosi tentativi di controllare i flussi migratori, spesso a scapito dei diritti umani, le partenze non si sono mai fermate. Le politiche securitarie messe in atto finiscono per finanziare governi repressivi e organizzazioni criminali, rendendo le rotte migratorie ancora più pericolose. Non intervengono sui trafficanti di esseri umani, con cui l’Italia collabora mentre tratta col pugno di ferro chi si limita a guidare una barca.

Chi sono i cosiddetti scafisti?

“In un certo senso chiedere chi sono gli scafisti è come chiedere chi sono i tassisti: chi sono questi cattivi che guidano i taxi?”, dice a Valigia Blu Richard Brodie, attivista di Arci Porco Rosso che, con Alarm Phone, Borderline Sicilia e Borderline-Europe, ha pubblicato un report - Dal Mare al Carcere - sui cosiddetti scafisti. O meglio, sui capitani, la parola che i protagonisti di questa storia usano per definire il proprio ruolo. 

“Le persone si possono trovare a condurre un'imbarcazione perché sono forzate alla partenza”, spiega ancora Sara di Alarm Phone. Ѐ uno scenario tipico della rotta libica, dove chi sorveglia i lager del paese obbliga le persone a mettersi alla guida con la violenza. “Altri magari ricevono uno sconto nei costi del viaggio, o magari anche una somma di denaro”, continua Sara. "O agiscono in solidarietà, o si trovano in una situazione di pericolo in mare e una persona prende il controllo dell'imbarcazione per cercare di aiutare tutti ad arrivare”. Ci possono poi essere persone che fanno la spola tra una costa e l’altra, cittadini comunitari e non, coinvolti a livelli diversi nell’organizzazione del viaggio. 

Gli scenari possibili sono tanti e complessi: dipendono dalle rotte e dagli innumerevoli ostacoli che le persone in movimento affrontano durante il viaggio. Questa complessità, però, è sistematicamente avvilita dall’esigenza di trovare un responsabile a tutti i costi.

Indagini sommarie

Le modalità di identificazione dei capitani si basano principalmente sui testimoni. In prossimità dello sbarco, un momento delicatissimo dopo un viaggio spesso traumatico, ai passeggeri vengono poste due domande: “Chi ha guidato la barca?” e “Chi fa parte dell’equipaggio?”. Nulla sulle condizioni di partenza o della traversata. Nulla neanche sull’organizzazione e sui vertici del traffico. Alle autorità basta che pochi testimoni indichino la stessa persona per arrestarla, a fronte di centinaia di passeggeri. Inoltre i testimoni sono spesso forzati a rispondere tramite la promessa di un permesso di soggiorno o di altri benefici. “In qualsiasi altra situazione è evidentemente un abuso di potere, non vale nulla la parola di un testimone messo in quella situazione”, commenta Richard Brodie.

L’identificazione può basarsi anche su video o fotografie scattate dalla sorveglianza aerea e per individuare una persona come scafista basta che si trovi vicino al motore, o che abbia in mano la bussola. Per questo l’avvistamento di aerei crea panico a bordo e può causare incidenti mortali.

Bakary racconta che, dopo lo sbarco a Taranto, una persona che non si è identificata lo ha portato in una tenda con altri 4 ragazzi: “Ho visto una persona con cui eravamo sullo stesso gommone. Me lo ricordavo perché mi ha fatto un favore nel viaggio: mi ha dato la sua maglia perché ero seduto sul bidone della benzina e mi stava bruciando”. Sono passate ore prima che qualcuno dicesse loro che sarebbero andati in carcere: 3 o 4 passeggeri li avevano indicati come scafisti guardando una foto. “Quando hanno detto così ero convinto che potevo essere libero, perché se c’è una foto del gommone certamente si vedrà che lo scafista non sono io”.

Processi superficiali

Dal punto di vista giuridico, il reato principale contestato ai capitani è “favoreggiamento dell’immigrazione irregolare”, disciplinato dall’art.12 del Testo Unico sull’Immigrazione. Con il “decreto Cutro”, il governo Meloni ha aggravato le pene fino a 30 anni di reclusione. Nonostante la spettacolarizzazione degli intenti punitivi del governo, le pene già esistenti non sono molto diverse: vanno fino all’ergastolo, dato che chi guida può venire accusato anche di omicidio. E questa severità non ha mai impedito alle persone di partire. 

Per quanto riguarda i processi, il magistrato Gigi Modica spiega che “sono processi particolari che, se affrontati in maniera superficiale, portano agevolmente e con la velocità della luce a una sentenza di condanna”. Spesso l’unico materiale probatorio è costituito da 2 o 3 testimoni, che in molti casi si rendono irreperibili dopo lo sbarco. Bakary racconta che nel suo caso il testimone è stato uno solo. “Gli altri si sono ritirati perché hanno detto che non volevano dichiarare una bugia”, spiega. Racconta anche che uno dei suoi avvocati (durante la vicenda giudiziaria ne ha dovuti cambiare quattro) ha mostrato ai giudici che la polizia aveva portato a questo testimone solo le 5 fotografie delle persone fermate allo sbarco. 5 su 633 migranti stipati su 4 barche diverse, partite la stessa notte a scaglioni di due ore. Bakary è stato comunque condannato a 8 anni di carcere. 

Il suo non è un caso isolato: il report Dal mare al carcere sottolinea come nei tribunali le garanzie processuali passino spesso in secondo piano. Le irregolarità rilevate sono diverse: interrogatori fatti senza un interprete o un avvocato, testimonianze raccolte da persone sotto shock, rapporti di polizia fatti col copia-incolla. “Il rischio, la probabilità di condizionamenti, di pressione, sul processo c'è. Chi fa questi processi deve utilizzare un surplus di attenzione, proprio perché i processi si fanno per condannare i colpevoli e assolvere gli innocenti. Non per fare statistiche dei condannati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina”, conclude Gigi Modica.

Tra carcere e CPR

“In carcere i giorni sono duri, mesi, settimane, sono tutti duri. Ti sembra che il tempo non passa mai”, racconta Bakary. In carcere i capitani vivono un isolamento estremo. Quello fisico, in un posto ai margini della società. Quello giuridico, perché spesso non conoscono i propri diritti. Quello linguistico, che rende difficile comunicare con chi sta fuori e con chi sta dentro. E quello sociale, perché senza una rete sul territorio. Bakary ha potuto sentire la sua famiglia per telefono: chiamate di 10 minuti, due volte a settimana. “Non è molto tempo per parlare di tutte le cose che vuoi dire. Devi andare direttamente al punto. A volte passano solo il telefono da uno all'altro per poter sentire tutti”, racconta. La pandemia gli ha permesso di rivederli in viso, grazie alle videochiamate: “Non li vedevo da quattro anni”. Dal carcere è uscito ad aprile 2022.

Spesso per una persona condannata per art.12, la scarcerazione non significa tornare in libertà, ma finire in un CPR. I Centri di Permanenza per il Rimpatrio sono centri di detenzione amministrativa, in cui vengono portate le persone in attesa dell’espulsione forzata dal territorio italiano. Le condizioni disumane di questi centri sono ben documentate.

I Centri di Permanenza per i Rimpatri come buchi neri inghiottono le vite dei cittadini stranieri

“Dopo il fine pena, vengono i carabinieri a portarti in un centro di espulsione. Lì devono decidere di nuovo se rimani in Italia o se ti riportano nel tuo paese. A me il Covid ha evitato di finire in quel posto”, racconta Bakary. Alla scarcerazione era infatti positivo al Covid e dopo qualche difficoltà è riuscito ad arrivare a Palermo, dove ha raggiunto gli attivisti di Arci Porco Rosso. Durante la detenzione Bakary e gli attivisti si sono scambiati molte lettere, come Porco Rosso continua a fare con decine di capitani detenuti, offrendo supporto legale, ma soprattutto umano. Bakary vive e lavora a Palermo e vorrebbe restare in Italia, anche se è rimasto deluso dalla giustizia in cui riponeva fiducia: “Quello che voglio dire è che il carcere non è uno scherzo. Prima di rovinare la vita di una persona devono vedere il caso molto bene, non arrestare qualche persona solo per avere un nome di scafista dentro il carcere. Non è legge così. Giocano con le vite dei migranti così”.

La criminalizzazione dei cosiddetti scafisti sembra assumere una valenza più politica che pratica: trovare un capro espiatorio su cui scaricare tutte le responsabilità, simboliche e giuridiche, delle morti che continuano ad avvenire sulle nostre frontiere. Questo scaricabarile delle responsabilità coinvolge anche le ONG, da anni al centro di una campagna di criminalizzazione e accusate dello stesso reato dei capitani: favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. E mentre le politiche securitarie di controllo delle frontiere non vengono mai messe in discussione, le porte d’Europa si trasformano in cimiteri a cielo aperto. “Di chi è la responsabilità per le morti che avvengono a queste frontiere? Delle persone che stanno conducendo l’imbarcazione?”, chiede Sara di Alarm Phone. “O è responsabilità delle politiche che l'Italia e l'Unione Europea mettono in atto per creare queste situazioni estreme, di morte e di violenza?”.

Immagine in anteprima: Irish Defence Forces, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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