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Nella notte di mercoledì un barcone con a bordo centinaia di migranti si è ribaltato a largo di Pylos, nel Mar Egeo, sulle coste del Peloponneso; l’imbarcazione era salpata da Tobruk, in Libia ed era diretta in Italia. Le vittime accertate sono 79 e i dispersi centinaia, ma non è possibile calcolare con certezza quante persone ci fossero a bordo. La rotta dal Nord Africa all'Italia attraverso il Mediterraneo centrale è la più mortale al mondo, secondo l'agenzia delle Nazioni Unite per la migrazione, che ha registrato più di 17.000 morti e scomparsi dal 2014.
Secondo le prime ricostruzioni, a bordo c'erano fino a 400 persone, ma una rete di attivisti ha dichiarato di aver ricevuto una richiesta di soccorso da un'imbarcazione che si trovava nella stessa zona e che, secondo i passeggeri, trasportava 750 persone. Dopo il primo allarme, secondo la Guardia costiera greca, gli aerei di Frontex e due navi mercantili hanno individuato l'imbarcazione che si dirigeva verso nord ad alta velocità. Tuttavia, le ripetute chiamate alla nave per offrire aiuto sono state rifiutate, probabilmente a causa del timore verso un possibile respingimento da parte della Guardia Costiera. "Nel pomeriggio, una nave mercantile si è avvicinata alla nave e le ha fornito cibo e rifornimenti, mentre i passeggeri hanno rifiutato ogni ulteriore assistenza". Una seconda nave mercantile ha poi offerto ulteriori rifornimenti e assistenza, che sono stati rifiutati, ha aggiunto l'agenzia. Più tardi, una motovedetta della Guardia costiera ha raggiunto l'imbarcazione "e ha confermato la presenza di un gran numero di migranti sul ponte".
Alarm Phone, una rete di attivisti che fornisce una linea telefonica diretta ai migranti in difficoltà, ha dichiarato di essere stata contattata già martedì pomeriggio da persone su un'imbarcazione nella stessa zona del naufragio; l’organizzazione ha quindi informato le autorità greche e Frontex. In una comunicazione con Alarm Phone, i migranti hanno riferito che l'imbarcazione era sovraffollata e che il capitano aveva abbandonato la nave su una piccola barca.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Il patto europeo che mette in pericolo il diritto di asilo
A fronte di quello che potrebbe essere l’episodio più tragico mai avvenuto nel Mediterraneo, le recentissime decisioni politiche dell’Unione Europea non solo non sembrano comprendere la portata di questo fenomeno, ma addirittura procedono in senso contrario. L’8 giugno il Consiglio dei ministri dell’Interno europei, riuniti a Lussemburgo al Consiglio affari interni, ha individuato un accordo per riformare due regolamenti relativi alle procedure di frontiera e alla gestione dei richiedenti asilo in Europa; il patto, che modifica solo alcuni punti dell’intera materia, rappresenta il risultato di un processo decisionale e politico iniziato nel 2015. Il sostegno è stato ampio e i voti contrari sono stati solo quelli di Ungheria e Polonia. Le riforme proposte andranno a sostituire alcune di quelle previste nel regolamento di Dublino III, criticatissimo da molti paesi europei, soprattutto quelli del bacino Mediterraneo. L’obiettivo del patto, almeno in teoria, era quello di attuare finalmente un vero meccanismo di solidarietà e cooperazione tra tutti gli Stati.
I punti principali sono quattro. Gli Stati europei dovranno partecipare alla redistribuzione dei migranti con una quota minima di 30mila ricollocamenti ogni anno; alternativamente potranno pagare un contributo di 20mila euro per migrante al fondo comune per la gestione delle frontiere esterne. L’esame delle domande di asilo seguirà la cosiddetta “procedura di frontiera”, un iter accelerato e sommario che si dovrà concludere entro 12 settimane dalla presentazione della domanda. Questa procedura verrà applicata ai migranti che attraversano illegalmente il confine europeo o ai richiedenti asilo provenienti da “un paese terzo ritenuto sicuro”. Lo Stato responsabile dell’esame della domanda di asilo rimane quello di primo approdo in Europa e il periodo durante il quale uno stato ha la responsabilità dei migranti arrivati sul suo territorio raddoppia fino a ventiquattro mesi. Per quanto riguarda i respingimenti e rimpatri, gli Stati europei avranno autonomia nel definire un paese di partenza o di transito come “sicuro” e quindi potranno attuare respingimenti anche verso un paese di transito per i migranti, e non solo verso quello di origine. Ora il Consiglio procederà ad un confronto con il Parlamento europeo, che dovrà approvare il nuovo patto; il tutto quindi non è ancora concluso, ma è la prima volta che l’Europa trova un accordo comune sulla gestione dei flussi migratori e le procedure di regolarizzazione nei territori nazionali.
Il risultato dell’accordo, ancora una volta, non sembra essere tanto quello di gestire una situazione di emergenza - umanitaria prima di tutto -, ma di correggere alcune procedure organizzative nella spartizione dei migranti. Le proposte non si discostano dalla visione egemone sulla gestione dei migranti, frutto dell’inadeguatezza delle politiche europee e nazionali. Già nel 2021, quando gli Stati europei cercavano di accordarsi sul nuovo patto, le associazioni a tutela dei diritti umani avevano espresso il loro forte disappunto nei confronti di una politica securitaria e conservatrice, incapace di valutare i bisogni delle persone migranti e soprattutto i loro diritti. ASGI, facendosi portavoce delle associazioni no profit e delle organizzazioni internazionali, aveva divulgato delle raccomandazioni, che non sono state ascoltate. Tra le tante, le preoccupazioni maggiori riguardavano le prassi accelerate, l'esclusione arbitraria dal diritto di asilo, la detenzione extralegale in frontiera e la mancanza di un’effettiva valutazione individualizzata relativamente al rischio di respingimento o di invio in uno Stato in cui lo straniero potesse subire persecuzioni o danni gravi. A distanza di due anni dall’ultimo tentativo di trovare un accordo e dopo numerosissimi fallimenti, il nuovo patto conferma che la questione dei flussi migratori continua ad essere affrontata solo da un punto di vista, quello economico.
Rimane la clausola del paese di primo ingresso
La perplessità principale che emerge è che non viene modificato il principio cardine del regolamento di Dublino, vale a dire la previsione di tutte le procedure di asilo a carico del paese di ingresso. Nonostante da anni sia chiaro che la maggior parte dei migranti non intenda soggiornare, per esempio, in Italia, il patto non si è occupato di distribuire equamente l’esame delle domande nei diversi territori europei. Una diversa organizzazione delle procedure di asilo permetterebbe un esame più attento, nel luogo in cui il migrante vuole radicarsi. Saranno previsti invece maggiori oneri a carico del paese di primo approdo e di conseguenza un intensificarsi dei problemi: una pubblica amministrazione totalmente impreparata alla gestione delle procedure di asilo, sistematiche discriminazioni istituzionali anche all’interno della macchina giudiziaria e la formalizzazione del sistema hotspot con le criticità connesse che ben conosciamo nel nostro paese.
La politica europea sull’immigrazione e l’asilo dovrebbe essere, come noto, “governata dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario” (art. 80 TFUE). In concreto, però, l’applicazione di tale principio ha sempre incontrato delle difficoltà a causa di una diffusa resistenza degli Stati membri a farsi carico della gestione dei migranti irregolari, e ad aiutare così gli Stati alla frontiera esterna, come Grecia e Italia, che nel 2021 si rivolsero alla Corte di Giustizia per provare ad alleggerire il carico di sbarchi sulle coste del Mediterraneo, senza successo.
Lo stravolgimento del concetto di paese sicuro
Il patto è stato duramente criticato dalle organizzazioni che si occupano di tutelare i diritti dei migranti, soprattutto per lo stravolgimento del concetto di paese terzo sicuro. Durante la trattativa, c’è stato un confronto duro per l’organizzazione dei rimpatri, sia per questioni organizzative sia perché tocca da vicino i rapporti che i singoli paesi europei intrattengono con gli stati di provenienza dei migranti. Il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha insistito per l’approvazione dei respingimenti dei migranti anche nei paesi di transito, mentre la Germania chiedeva maggiori garanzie, come la presenza di legami familiari in questi paesi. La decisione rappresenta un rischio per il pacifico esercizio del diritto d’asilo per due ragioni: il venir meno di un esame della domanda basato sulle ragioni del singolo migrante e, ancora di più, il pericolo di lasciare l’autonomia ai paesi europei di ritenere sicuro uno stato terzo di provenienza dei migranti. Significative le dichiarazioni del Ministro Piantedosi: “Volevamo che non passassero formulazione dei testi che depotenziassero la possibilità di fare accordi con paesi terzi, sempre nell’attuazione della proiezione sulla dimensione esterna. È un compromesso che non lede il quadro giuridico internazionale”. L’intenzione era quella di precisare che sarà lo Stato membro a decidere con quali paesi stabilire accordi.
L’Europa non è nuova a queste politiche e già in passato ha fatto prevalere gli accordi economici bilaterali sui diritti dei migranti, con paesi come la Turchia o la Libia. In questo caso è rilevante la recente visita di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e Mark Rutte a Tunisi con il presidente Kais Saied per discutere di un accordo che potrebbe concludersi alla fine di giugno, anche se il leader tunisino sembra non voler accettare queste condizioni. L’intento dell’Unione Europea sarebbe quello di versare 150 milioni di euro per sostenere le riforme necessarie, richieste dal Fondo monetario internazionale, per salvare il paese dal default; qualora questa prima manovra economica dovesse concludersi, l’Europa si impegnerà a versare altri 900 milioni, di cui 105 milioni destinati a un nuovo accordo sul controllo del flusso migratorio. Di fatto: aprire nuovi campi profughi dove respingere i migranti che arrivano in Europa e aumentare i rimpatri verso la Tunisia, sia come luogo di provenienza che di transito. Premessa dell’accordo, quindi, è che la Tunisia venga considerata come un paese sicuro, nonostante le violenze e gli abusi perpetrati dal dittatore Saied.
Marcia indietro sui diritti dei migranti
Anche dal punto di vista esclusivamente procedurale, la proposta di accordo sembra non essere solida: il patto è stato redatto dal consiglio, senza guardare alle proposte fatte in precedenza dalla Commissione e “senza rispetto per il voto del parlamento”, secondo Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci. Inoltre, l’intesa non sembra essere davvero realizzabile sul piano giuridico, perché sarebbero necessarie lunghissime modifiche alla direttiva sui rimpatri, nonché al regolamento di Schengen. Il rischio più grande, comunque, è che una simile politica indirizzata al durissimo contrasto all’immigrazione clandestina e ai rimpatri forzati verso luoghi che non possono essere ritenuti sicuri danneggi l’intero impianto del diritto di asilo, a partire dal principio di non respingimento. La giurisprudenza europea, capace di influenzare anche le decisioni dei giudici nazionali, ha costruito faticosamente questo principio, anche con l’intento di armonizzare le diverse normative degli Stati.
Salvatore Fachile, avvocato di ASGI e fondatore dell’associazione Antartide, un’associazione legale che si occupa di diritto dell’immigrazione, ha duramente criticato le regole del patto: “Il nuovo accordo mette in pericolo il diritto di asilo, a partire dal concetto di paese terzo sicuro perchè, di fatto, tutte le domande saranno inammissibili, non verranno nemmeno esaminate”. La previsione del giurista è che l’Italia e gli altri paesi del bacino mediterraneo vorranno ritenere paesi sicuri stati come il Camerun, il Niger, la Tunisia, cioè le rotte più battute dai migranti. Questo comporta una completa esternalizzazione della domanda: “È il modello voluto da Blair nel 2003 che finalmente trova compimento, non si entra più nel merito della domanda di asilo, la regola generale sarà quella del respingimento”.
Un secondo punto critico, spiega Fachile, è il trattenimento dei migranti giunti illegalmente negli hotspot, luogo gravemente inidoneo e con pochissime risorse per l’assistenza alle persone migranti. Le nuove procedure, in linea con il decreto Piantedosi, ora diventano obbligatorie e consentono “la privazione della libertà personale dei migranti solo in forza di un atto amministrativo”. Secondo il giurista, la cosiddetta procedura di frontiera non sarà altro che un “trattenimento di massa per poi poter agire un allontanamento di massa”, considerato che l’Europa non prenderà più in carico la singola domanda dei richiedenti asilo. Fachile vede inoltre dei profili di incostituzionalità nel fenomeno del trattenimento extraterritoriale: “Quando siamo in zone di confine, di transito o di frontiera, il trattenimento dei migranti non è formalmente sul territorio europeo”, con conseguenze soprattutto sulla tutela dei diritti delle persone ristrette.
L’ultima questione, secondo Fachile “ambigua”, è la dichiarazione del Ministro Piantedosi riguardo la volontà da parte dell’Italia di non accettare i soldi, i 20mila euro a migrante, previsti dalle nuove regole del patto. “Non è vero che l’Italia non accetterà i soldi, li farà confluire nel cosiddetto fondo rimpatri. Ci sarà un’affluenza di milioni di euro in un fondo che non sarà sottoposto al controllo della Corte dei Conti; il rischio è che questi soldi, su iniziativa del ministero, andranno a finanziare aziende di fotosegnalamento, di controllo militare e di armi”.
Immagine in anteprima: Sandor Csudai, CC BY-NC-ND 4.0, via ISPI