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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.
Si chiama “La Giusta Causa”. È la campagna che promuove l’iniziativa legale che ReCommon e Greenpeace e dodici cittadini italiani – provenienti da aree già colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici, come l’erosione costiera dovuta all’innalzamento del livello del mare, la siccità, la fusione dei ghiacciai – hanno presentato contro ENI, la prima del suo genere contro una società di diritto privato in Italia. Le due organizzazioni e i cittadini coinvolti hanno intentato una causa civile alla società energetica “per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui ENI ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone consapevole”.
Insomma, secondo ReCommon e Greenpeace, sebbene ENI fosse consapevole sin dal 1970 che la combustione di combustibili fossili è la causa principale del cambiamento climatico e dei rischi “catastrofici” di bruciare i suoi prodotti, la società energetica ha utilizzato strategie di “lobbying e greenwashing” per minimizzare i rischi derivanti dal suo modello di business e dalle sue attività.
Per questo, le due organizzazioni e i cittadini che hanno presentato la causa, “chiederanno al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e della violazione dei diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata”, e che ENI “sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5°C secondo il dettato dell’Accordo di Parigi sul clima”.
L’azione legale coinvolge anche il Ministero dell'Economia e delle Finanze e la banca di sviluppo Cassa Depositi e Prestiti per “l'influenza che esercitano su ENI”, si legge nell’atto di citazione. Insieme, detengono un terzo della partecipazione del governo italiano in ENI.
“L'urgenza di agire contro la crisi climatica ci ha spinto a intentare la prima causa sul clima in Italia contro la più grande compagnia energetica del paese”, ha dichiarato Matteo Ceruti, avvocato dei querelanti. “Quello che vogliamo è che chi ha causato consapevolmente e coscientemente il cambiamento climatico sia chiamato a risponderne", ha aggiunto Simona Abbate, di Greenpeace Italia.
La causa si inserisce nel novero delle cosiddette “climate litigation”, azioni di contenzioso climatico il cui numero complessivo, a livello globale, è più che raddoppiato dal 2015 a oggi, portando il totale di cause a oltre duemila. Una di queste cause, presentata nei Paesi Bassi da Milieudefensie, filiale olandese di Friends of the Earth insieme ad altri sei gruppi di attivisti ambientali e per i diritti umani e a oltre 17mila cittadini olandesi, aveva portato a una sentenza storica da parte di un tribunale olandese che aveva imposto alla multinazionale britannica-olandese Royal Dutch Shell (RDS) di ridurre le proprie emissioni di carbonio di un netto del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2019. Negli Stati Uniti, lo scorso aprile la Corte suprema ha respinto gli appelli di Exxon Mobil, Chevron e Suncor Energy per spostare cinque cause per frode.
ENI ha dichiarato che dimostrerà che la nuova causa è “priva di fondamento” e di aver adottato un approccio corretto alla decarbonizzazione: “La strategia combina e bilancia gli obiettivi essenziali di sostenibilità, sicurezza energetica e competitività dell'Italia”, si legge in un comunicato della società energetica che si è riservata il diritto di intraprendere azioni legali per proteggere la propria reputazione in risposta alle “ripetute azioni diffamatorie”" intraprese da ReCommon.
Su cosa si basano le accuse contro ENI
“Le accuse si basano in parte su uno studio commissionato dall’ENI tra il 1969 e il 1970 al suo centro di ricerca Isvet”, scrive Stella Levantesi sul sito DeSmog. Il rapporto indicava chiaramente che, se non controllato, l'aumento dell'uso di combustibili fossili avrebbe potuto portare a una crisi climatica nel giro di pochi decenni.
“Secondo un recente rapporto del segretario delle Nazioni Unite – si legge nel rapporto – l'anidride carbonica nell'atmosfera, a causa dell'aumento dell'uso di [combustibili fossili], è aumentata nell'ultimo secolo in media del 10% a livello mondiale; intorno al 2000 questo aumento potrebbe raggiungere il 25%, con conseguenze ‘catastrofiche’ sul clima”.
Greenpeace Italia e ReCommon hanno anche portato alla luce un rapporto del 1978 prodotto dalla società Tecneco dell'ENI che presumeva che, con l'aumento del consumo di combustibili fossili, iniziato con la rivoluzione industriale, la concentrazione di CO2 nell’atmosfera nel 2000 avrebbe raggiunto le 375-400 parti per milione (ppm). “Questo aumento è considerato da alcuni scienziati come un possibile problema a lungo termine, soprattutto perché potrebbe modificare l'equilibrio termico dell'atmosfera portando a cambiamenti climatici con gravi conseguenze per la biosfera”, si legge nel rapporto.
Una previsione molto accurata considerato che tra il 1970 e il 2000, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera è passata da 325 a 371 ppm, e nelle scorse settimane ha superato i 424 ppm.
Inoltre, come rilevato da DeSmog, una rivista interna di ENI, chiamata Ecos, tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90, ha ripetutamente menzionato il legame tra i combustibili fossili e il cambiamento climatico, e propagandava costantemente il metano, come una soluzione energetica priva di rischi. Il metano è responsabile di un terzo dell’attuale riscaldamento globale causato dalle attività umane. È il principale gas serra dopo l'anidride carbonica, ha un potenziale di intrappolamento del calore più elevato rispetto all’anidride carbonica, ma si decompone nell'atmosfera più velocemente. Il che significa che la riduzione delle emissioni di metano può avere un rapido impatto sul contenimento del riscaldamento globale
“Il metano è l'energia pulita del futuro”, era lo slogan di una promozione pubblicitaria del 1986 su Ecos di Snam, un gestore di gasdotti che all'epoca era una controllata dell'ENI, scrive Levantesi. “Benvenuto amico metano!”, recitava l'annuncio, affiancato dall'immagine di un bambino che soffia su un dente di leone su uno sfondo azzurro. “Il tuo metano aiuta l'Italia a rimanere bella”, assicurava un altro spot Snam.
Un film dell'ENI del 1988, intitolato “Uomo, ambiente ed energia”, prosegue Levantesi, descriveva i combustibili fossili sepolti come un “tesoro energetico” e diceva agli spettatori che era possibile “estrarli” “senza danneggiare l'ambiente”.
Un articolo di Ecos del 1991 spiegava che la combustione dei combustibili fossili era la causa principale dell’effetto serra, mentre una pubblicità dell'ENI nello stesso numero lodava “il metano, l'energia azzurra che muove le nostre città” e affermava che “l’ENI... produce componenti per combustibili puliti”.
“Questi risultati rafforzano e si aggiungono allo schema trovato nelle ricerche precedenti: le major petrolifere erano consapevoli degli effetti catastrofici che i loro prodotti avrebbero avuto sul mondo, ma non hanno avvertito il pubblico, hanno nascosto le loro conoscenze, hanno negato il problema e hanno ostacolato gli sforzi per risolverlo”, ha commentato Ben Franta, senior research fellow dell'Oxford Sustainable Law Programme. “Come altre compagnie di combustibili fossili, l'ENI potrebbe alla fine essere chiamata a rispondere in tribunale di questo modello di inganno e danno”.
Nel frattempo, secondo Greenpeace e ReCommon, l’ENI ha proseguito a sviare le pressioni per diminuire la produzione di petrolio e gas in linea con gli obiettivi climatici globali, enfatizzando tecnologie come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, i biocarburanti e l'idrogeno. Secondo un'analisi del gruppo di advocacy Reclaim Finance, entro il 2030 il mix energetico dell'ENI sarà composto per oltre il 93% da petrolio e gas, mentre il resto sarà costituito da energia rinnovabile e a basse emissioni di carbonio.
L’ondata di calore di aprile nel Mediterraneo occidentale sarebbe stata praticamente impossibile senza il cambiamento climatico
L'ondata di caldo estremo che ha investito Spagna, Portogallo, Marocco e Algeria nell'aprile del 2023 è stata “almeno 100 volte più probabile” a causa dei cambiamenti climatici, secondo un nuovo studio di “attribuzione rapida” a cura del servizio World Weather Attribution. L'ondata di calore è stata fino a 3,5°C più calda di quanto sarebbe stata in un mondo senza cambiamenti climatici. E avrebbe avuto appena lo 0.25% delle possibilità di verificarsi.
Durante l'ultima settimana di aprile, le temperature sono state di 20°C superiori alla norma in gran parte del Mediterraneo occidentale, raggiungendo un'intensità tipicamente estiva. Le temperature hanno superato i 40°C in alcune zone del Marocco e dell'Algeria, i 38,8°C all'aeroporto di Córdoba, in Spagna.
Non sono ancora disponibili i dati di mortalità relativi all'ondata di calore. Tuttavia, secondo la Fatima Driouech, professore associato all’Università Politecnica Mohammed VI in Marocco e coautrice dello studio, “le ondate di calore di inizio stagione tendono a essere particolarmente letali a causa della mancata acclimatazione della popolazione e della minore preparazione al caldo”. Inoltre, per molti paesi del Mediterraneo occidentale, il caldo “estivo” fuori stagione ha esacerbato un'intensa siccità pluriennale che già minacciava i raccolti e la sicurezza idrica.
Il Mediterraneo si candida a essere un “hotspot” per il peggioramento degli estremi di caldo e siccità, ha aggiunto Frederieke Otto, docente di scienze climatiche presso il Grantham Institute for Climate Change and the Environment dell'Imperial College di Londra e coautrice dello studio.
Repubblica Democratica del Congo, oltre 400 morti per le inondazioni nell’est del paese ma latitano i piani di mitigazione del cambiamento climatico
Le autorità della Repubblica Democratica del Congo (RDC) hanno dichiarato che il bilancio delle vittime delle inondazioni nell'est del paese ha superatoi le 400 persone, riporta Africanews. Le forti piogge nella provincia del Sud Kivu hanno provocato lo straripamento dei fiumi che a loro volta hanno causato frane che hanno sommerso interi villaggi. 5.500 persone sono ancora disperse e migliaia di sopravvissuti sono rimasti senza casa, aggiunge il Guardian. I residenti dei villaggi di Bushushu e Nyamukubi, i più colpiti dal disastro, hanno dovuto percorrere lunghe distanze a piedi per evacuare i villaggi vicini - alcuni distano anche tre ore di cammino. Neanche le moto sono in grado di percorrere le strade gravemente danneggiate della zona.
Una delle strade principali per uscire da Kalehe, un'area rurale remota nella RDC orientale, era così devastata dall’ostacolare gli aiuti e i soccorsi. Le équipe mediche hanno dovuto portare i feriti in un ospedale locale, dove sono stati sottoposti a triage, e aspettare, spesso per ore, fino a quando non sono stati trasportati fuori dall'area in barca attraverso il lago Kivu verso un ospedale nella città di Bukavu, a circa tre ore di navigazione.
Gli abitanti di Kalehe, tra le zone più colpite, fanno molto affidamento sul disboscamento e sulla produzione di carbone per vivere. L'area ha storicamente attirato livelli più elevati di precipitazioni grazie alla sua vicinanza alle foreste, ma l'aumento dei tassi di deforestazione, unito all'agricoltura di tipo “taglia e brucia” e al disboscamento dei terreni per le abitazioni, fa sì che la regione montuosa sia particolarmente vulnerabile alle frane durante le forti piogge.
“L'ambiente è completamente rovinato. Le piogge non arrivano quando ci aspettiamo e quando arrivano spazzano via tutto”, ha dichiarato Josué Aruna, attivista ambientale del Sud Kivu. “Se non si adottano piani di mitigazione, il cambiamento climatico continuerà a portare un disastro dietro l’altro, con conseguenze anche maggiori di quelle che stiamo vedendo ora”.
Le inondazioni nella RDC sono avvenute pochi giorni dopo quelle in Ruanda, sull'altra sponda del lago Kivu, che hanno provocato circa 130 morti. Anche in Uganda ci sono state inondazioni che hanno causato 18 morti e migliaia di sfollati, mentre i siti e i monumenti storici lungo la costa del Kenya, come Fort Jesus sull'isola di Mombasa, sono stati minacciati dall'impatto dei cambiamenti climatici.
Gli eventi meteorologici estremi si stanno verificando con maggiore frequenza nella regione, dalla grave siccità nel Corno d'Africa orientale alle piogge eccessive in altre parti dell'Africa orientale e centrale. Queste inondazioni sono un’ulteriore dimostrazione dell'accelerazione del cambiamento climatico, ha osservato il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Secondo le previsioni della Banca Mondiale, entro il 2050 circa 86 milioni di africani migreranno all'interno del proprio Continente a causa della crisi climatica.
Il prossimo presidente della Banca Mondiale potrebbe sbloccare migliaia di miliardi per la transizione ecologica
E se entrasse in scena un nuovo leader mondiale in grado di liberare migliaia di miliardi di dollari per aiutare i paesi in via di sviluppo a far fronte ai cambiamenti climatici? È quello che potrebbe accadere con la nomina del dirigente d'azienda, Ajay Banga, alla guida della Banca Mondiale, afferma l’ex vicepresidente della Banca Mondiale e inviata per i cambiamenti climatici, Rachel Kyte, in un’intervista al New York Times.
La missione della Banca dovrebbe essere quella di aiutare i paesi a svilupparsi in modo sostenibile e a ridurre la povertà, dando consigli agli Stati su ciò che devono fare, prestando loro denaro per avviare i progetti e garantendo gli investimenti di altre istituzioni finanziarie. Per anni, però, è stata accusata di non essere sufficientemente sensibile alle esigenze dei paesi colpiti dal cambiamento climatico e già fortemente indebitati.
I paesi più poveri e più esposti agli effetti dei cambiamenti climatici stanno mettendo sempre più in discussione le regole stesse del sistema finanziario globale che la Banca Mondiale rappresenta, sottolineando come quelle regole li stiano imbrigliando in una spirale di debiti, costringendoli a pagare per una crisi climatica che non hanno causato loro e che sta mettendo a rischio le loro economie e popolazioni. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il 60% dei paesi a basso reddito è in sofferenza o a rischio di sofferenza del debito, il che significa che i loro obblighi di rimborso sono così alti da costringerli in alcuni casi a rinegoziare il loro programma di pagamenti.
“La differenza di questa crisi del debito rispetto a quella di 20 o 30 anni fa è che il debito non è solo di proprietà dell'Occidente. I creditori sono in gran parte la Cina, paesi come gli Stati Uniti o la Francia. Ma gran parte del debito è in realtà detenuto da private equity o banche private”, spiega Kyte. “Quindi, una delle cose che accadranno è che la Banca Mondiale dovrà trovare un nuovo modo di sedersi a un tavolo diverso per lavorare alla soluzione del problema. È quindi molto importante che conosca tutti questi finanziatori privati”.
La banca può assumere rischi molto più innovativi, creativi e intelligenti, prosegue l’esperta. “Non si tratta di una banca che si siede con i possibili finanziatori e dice: ‘Beh, i proprietari non hanno trovato i soldi’. È la banca che va da loro e dice: ‘Se fate così, risparmierete centinaia di milioni di dollari in costi sostenuti per gli aiuti umanitari, per le risposte ai disastri, per i rifugiati’. La banca deve farsi promotrice di uno sviluppo e di un’azione climatica intelligenti. Credo che questo sia ciò che la gente si aspetta da Ajay Banga”. I tempi potrebbero essere maturi per questo cambiamento, conclude Kyte: Banga “avrà più vento favorevole per le riforme di quanto ne abbia avuto qualsiasi altro presidente in tempi moderni”.
Gli studenti occupano scuole e università in tutta Europa per protestare contro l’inazione sulla crisi climatica
Ventidue scuole e università in tutta Europa sono state occupate nell'ambito di una nuova campagna di protesta giovanile contro l'inazione sul clima.
In Germania sono state occupate le università di Wolfenbüttel, Magdeburgo, Münster, Bielefeld, Regensburg, Brema e Berlino. In Spagna, gli studenti che hanno occupato l'Università autonoma di Barcellona hanno organizzato lezioni sulla crisi climatica. In Belgio, 40 studenti hanno occupato l'Università di Gand. Nella Repubblica Ceca, circa 100 studenti si sono accampati davanti al Ministero del Commercio e dell'Industria. Nel Regno Unito erano in corso occupazioni nelle università di Leeds, Exeter e Falmouth.
Le azioni più forti a Lisbona, in Portogallo, dove gli studenti hanno occupato sette scuole e due università e hanno bloccato il traffico con blocchi stradali in solidarietà con le occupazioni.
I blocchi e le occupazioni fanno parte di una campagna estesa dal titolo “End Fossil: Occupy!", che mira a sviluppare e intensificare il movimento di sciopero giovanile per il clima. “Iniziamo noi come studenti che occupano scuole e università, ma abbiamo bisogno che tutta la società si unisca a noi per porre fine ai [combustibili] fossili”, spiega la campagna. “Solo con un movimento di massa che coinvolga tutta la società e che si assuma la responsabilità di fermare l'era dei combustibili fossili potremo davvero cambiare il sistema”.
La natura ha dei diritti di base simili a quelli dell’uomo?
La natura ha diritti di base simili a quelli dell'uomo? È il tema proposto dalla newsletter sul cambiamento climatico del New York Times “Climate Forward”.
Oggi un numero crescente di Stati e tribunali afferma che l'ambiente dovrebbe avere diritti legali. Paesi come l'Ecuador, la Nuova Zelanda e l'Uganda hanno leggi che riconoscono alla natura dei diritti. Mentre in India, Colombia e Bangladesh sono state emesse sentenze in questa direzione.
Tamaqua, in Pennsylvania, è considerato il primo Comune ad aver riconosciuto tali diritti, nel 2006. Due anni dopo, l'Ecuador ha introdotto l'idea di estendere diritti legali all’ambiente nella sua Costituzione, affermando che la natura, “dove la vita si riproduce e si manifesta, ha il diritto al rispetto integrale della sua esistenza”.
Proprio l’Ecuador rappresenta probabilmente il caso più significativo. Nel 2021 la Corte Costituzionale ha stabilito che una miniera di rame e oro avrebbe violato i diritti di una foresta nuvolosa protetta a Los Cedros, nel nord-ovest del Paese. Una sentenza simile, emessa a fine marzo, ha protetto una parte della foresta nuvolosa dell'Ecuador nella Valle di Intag da una miniera di rame.
In precedenza, nel 2017, un tribunale indiano ha riconosciuto i diritti del fiume Gange, considerato sacro da milioni di persone. I giudici hanno stabilito che inquinarlo equivaleva a danneggiare una persona. Più recentemente, due settimane fa, la città di Seattle ha risolto uno dei primi casi di riconoscimento dei diritti della natura nei tribunali statunitensi. La sentenza ha stabilito che i salmoni hanno il diritto di passare attraverso le dighe della città. Ora Seattle dovrà conformarsi alla sentenza.
Tuttavia, non c’è ancora la garanzia che queste leggi siano del tutto efficaci. Ad esempio, sebbene l'Uganda abbia riconosciuto i diritti delle sue foreste, ciò non ha impedito al suo governo di autorizzare grandi progetti petroliferi che potrebbero distruggerle.
Per essere realmente efficaci occorre andare oltre il piano strettamente giuridico, spiega al New York Times Mari Margil, direttrice esecutiva del Center for Democratic and Environmental Rights, un gruppo non profit che lavora per promuovere i diritti della natura in tutto il mondo. Trasformare il nostro rapporto con la natura richiede “un cambiamento giuridico, un cambiamento giuridico davvero fondamentale. Ma questo cambiamento avviene solo quando si verifica un cambiamento sociale o culturale davvero fondamentale”.
Immagine in anteprima via techeconomy2030.it