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La Corte suprema di Londra ha deciso di dare voce alle continue violazioni di diritti umani perpetrate sugli abitanti delle coste del fiume Niger da parte della filiera locale della multinazionale petrolifera Shell. La decisione è stata presa a seguito delle denunce di oltre 13.000 agricoltori e pescatori delle comunità di Ogale e Billeper riguardo i danni causati dalla decennale e continua estrazione di petrolio nella repubblica nigeriana. La sentenza della Corte inglese prevede quindi l’inizio di un processo in cui però la controparte ha già dichiarato che “la Shell non ha intenzione di lasciare la Nigeria”, nonostante sia stata accertata dalle istituzioni la responsabilità dell’azienda nell’inquinamento del territorio dove opera. I danni ambientali e alla salute umana causati dallo sversamento di petrolio hanno tragicamente delineato una contaminazione dalle radici troppo profonde per poter essere ancora ignorata.
Da oltre 60 anni la Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC) estrae indiscriminatamente petrolio nel Paese distruggendo aree necessarie alla sopravvivenza della popolazione, composta prevalentemente da agricoltori e pescatori. A seguito della possibilità concessa dall’Alta corte di Londa agli abitanti nigeriani di poter intentare una causa contro la compagnia di combustibili fossili per l’inquinamento cronico delle fonti di acqua prodotto dall’attività petrolifera in Nigeria, la filiale africana della multinazionale ha dichiarato di aver già risarcito le parti colpite. Questa dichiarazione si riferisce alla sentenza della Corte d’Appello del Tribunale Internazionale di giustizia, che nel 2021 aveva stabilito un risarcimento di 16 milioni di dollari per i danni ambientali causati dall’attività della Shell alle comunità di Oruma, Goi e Ikot Ada Udo. Ma l’impatto devastante di questo inquinamento ha provocato “una tragedia umana di proporzioni straordinarie” che non interessa solo le comunità già risarcite, come dichiarano gli avvocati delle migliaia di pescatori e agricoltori che ad oggi sono in attesa del processo.
Già nel 2009 Amnesty International, nel suo rapporto sul Delta del Niger, denunciava come “decenni di inquinamento e danni all’ambiente, causati dall’industria del petrolio, hanno portato alla violazione del diritto ad un livello di vita decente, inclusi acqua e cibo, diritto al lavoro e alla salute”. A causa di questo stato emergenziale di inquinamento, nel 2019 è stata nominata direttamente dal governo statale del Delta del Niger l’Oli & Environmental Commission di Bayelsa, che ha scoperto e denunciato, nel rapporto An Enviromental Genocide, la presenza nei tessuti umani di “livelli di metalli pensanti associati alla produzioni di petrolio di gran lunga superiori ai livelli di sicurezza”. Nello stesso anno, i ricavi totali derivanti dall’estrazione di petrolio e gas nel Paese hanno portato nelle casse della multinazionale inglese un fatturato di oltre 4.5 miliardi di dollari.
Eppure la Nigeria, essendo il primo produttore di petrolio del continente africano, dovrebbe poter beneficiare della ricchezza del suo territorio, dove dal 1956 sono iniziati i trivellamenti. Invece, dagli anni Settanta la popolazione locale ha dovuto far posto agli insediamenti della Shell e alla conseguente contaminazione proveniente dall’attività estrattiva, dovendo rinunciare alla tradizionale produzione agricola di cacao, arachidi, gomma e cotone. Le proteste dei nigeriani non si sono mai fatte attendere: già nel 1990 il malcontento aveva spinto i cittadini a protestare, ma ad intervenire è stata la Mobile Police Force (MPF), che non ha esitato a massacrare più di 80 civili sotto richiesta della stessa Shell, che successivamente ha negato di aver richiesto l’intervento delle forze armate. Dopo quasi trent’anni, le violenze perpetrare dagli interessi economici di pochi si riversano ancora in modo indiscriminato sulla popolazione.
«La situazione nel Delta del Niger è un esempio tipico delle pratiche di un governo che non si assume le proprie responsabilità nei confronti della popolazione e di imprese multinazionali che non si rendono assolutamente conto delle conseguenze sui diritti umani della loro attività» spiega l’esperta in Economia e Diritti umani della sezione svizzera di Amnesty International nel già citato rapporto della stessa del 2019. Situazioni di fronte alle quali la popolazione ha scelto di non rimanere in silenzio.
[di Flavia Todisco]