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COP, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, è verosimilmente l’unico posto in cui, nient’affatto contentissima – dato che tutto poteva essere diverso e ogni cosa poteva essere fatta più coraggiosamente e meglio, ma soprattutto prima – mi alzerò in piedi applaudendo un petroliere, quasi in lacrime abbraccerò Ferdinando, lui in lacrime per davvero mentre si nasconde la faccia nelle mani, e parlando al plurale chiederò alle amiche e agli amici che saluterò per rivederci tra un anno secondo questa scansione del tempo tutta nostra: cosa ce ne pare? Che ne pensiamo? Come facciamo adesso?
Se c’è una cosa che questa COP ha dimostrato, mi ha detto la ministra spagnola per la Transizione ecologica, Teresa Ribera, è il potere del consenso. Per di più, lo ha fatto quando a crederci non era rimasto nessuno. Nemmeno noi, la stampa, i cosiddetti guardiani della democrazia. Perché il penultimo giorno, un giornalista ha chiesto se le regole dovessero essere cambiate per il bene dei negoziati. Al momento impongono che passi soltanto un accordo accettato da tutti i 200 paesi del mondo. La risposta è stata un diplomatico, arzigogolato, moderatamente convinto: no.
Così si è andati avanti per un’altra notte di discussioni in quel di Dubai. Fino a quando la mattina di mercoledì 13 dicembre il presidente Sultan Al Jaber ha abbassato il martelletto, ringraziato la famiglia e chi ha sempre creduto in lui, come se fosse a una premiazione degli Oscar, e ha chiuso la 28esima conferenza per il clima delle Nazioni Unite.
Eppure va quanto meno ricordato e messo agli atti che i rappresentanti dei piccoli Stati insulari (AOSIS) in quel momento non erano nell’aula della plenaria. Stavano ancora cercando di ottenere un risultato di cui essere contentissimi.
La High Ambition Coalition (HAC) composta da oltre 130 paesi – circa due terzi delle parti a COP28 – aveva preparato un testo alternativo da presentare alla presidenza, ma alla fine non è riuscita a ottenere il consenso necessario.
Di là invece avevano fretta, come chi si scopre in ritardo “imbarazzante” di 28 anni (l’aggettivo è del ministro danese per lo Sviluppo, la Cooperazione e le Politiche climatiche, Dan Jorgensen).
La negoziatrice di Samoa e rappresentante di AOSIS, Anne Rasmussen, si è detta “un po’ confusa” dalla rapidità con cui Al Jaber ha chiuso il vertice e ha aggiunto che i membri del suo gruppo non possono permettersi di tornare nelle loro isole “con il messaggio che il processo ci ha delusi”.
"Abbiamo fatto progressi incrementali rispetto al business as usual, quando ciò di cui avevamo veramente bisogno è un cambiamento esponenziale nelle nostre azioni e nel nostro sostegno", ha detto Rasmussen, facendo eco al diffuso senso di esclusione espresso da chi voleva di più.
Il motivo della standing ovation resta uno valido: per la prima volta nella storia, il testo approvato (non a caso, chiamato “UAE Consensus”) dichiara colpevoli del riscaldamento globale i combustibili fossili. Non era mai stato fatto su un documento ONU. Nominandoli, riconosce che da questa fonte di energia e questo tipo di economia dobbiamo allontanarci.
Il linguaggio con cui lo fa non è quello che i membri di AOSIS avrebbero voluto, ma uno a cui hanno contribuito con tutte le loro forze. Soltanto le analisi che verranno sapranno dirci se il compromesso adottato è stato un guizzo di genio o l’ennesima soluzione troppo prudente.
John Silk, il ministro per le Risorse naturali e il commercio per le Isole Marshall, per ora lo ha commentato così:
“Sono venuto qui per costruire insieme una canoa per il mio paese. Invece abbiamo costruito una canoa con lo scafo debole e bucato, pieno di buchi. Eppure dobbiamo buttarla in acqua perché non abbiamo altra scelta.”
Di cosa parliamo in questo articolo:
Cosa è stato ottenuto e cosa è stato sacrificato nell'accordo finale della COP28
L’UAE Consensus inaugura una nuova espressione, “allontanamento da” (transition away), ma evita il termine più forte di "eliminazione" (phaseout) visto in altre bozze precedenti.
Questa parte è inclusa nel Global Stocktake (GST) dell'Accordo di Parigi, un controllo obbligatorio dell’azione globale intrapresa ogni cinque anni a partire dal 2023, pensato per guidare il prossimo ciclo di impegni climatici.
Facciamo un riassunto delle 21 pagine del GST, dove si “chiede” (call on) alle parti di contribuire a:
- Triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare il tasso medio annuo globale di efficientamento energetico entro il 2030;
- Accelerare gli sforzi verso l’eliminazione progressiva (phasedown) dell’energia prodotta col carbone altamente emissivo (unabated);
- Accelerare gli sforzi a livello globale verso sistemi energetici a zero emissioni nette, utilizzando combustibili a zero e a basse emissioni di carbonio ben prima della metà del secolo;
- “Allontanarsi” dai combustibili fossili nei sistemi energetici, "in modo giusto, ordinato ed equo", accelerando l'azione in questo decennio critico in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050;
- Accelerare l’uso di tecnologie a zero e basse emissioni, comprese le energie rinnovabili, il nucleare, la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio e le tecniche come la cattura, l’utilizzo e lo stoccaggio del carbonio (CCS), in particolare nei settori difficili da decarbonizzare (hard-to-abate);
- Accelerare e ridurre sostanzialmente le emissioni diverse dalla CO2 a livello globale, comprese in particolare le emissioni di metano entro il 2030;
- Accelerare la riduzione delle emissioni derivanti dal trasporto su strada attraverso una serie di percorsi, anche attraverso lo sviluppo delle infrastrutture e la rapida diffusione di veicoli a zero e a basse emissioni;
- Eliminare il più presto possibile i sussidi inefficienti ai combustibili fossili che non affrontano la povertà energetica o la transizione giusta.
L’elenco delle azioni somiglia ancora a quello apparso nelle precedenti bozze del testo negoziale. In particolare, nella penultima versione, apparsa verso la fine dei negoziati, e particolarmente controversa. I critici l’avevano etichettato come una “lista della spesa” e un “disastro”. La presidenza emiratina ha poi sostenuto di averla presentata in maniera provocatoria “sapendo di suscitare un dibattito”.
Cosa che è successa. Infatti, nella versione successiva e definitiva del GST, i combustibili fossili perlomeno sono nero su bianco.
“Penso che tutti qui dovrebbero essere contenti, in un mondo con guerre in Ucraina e Medio Oriente e tutte le altre sfide di un pianeta che sta affondando. In questo momento, il multilateralismo ha funzionato e le persone hanno usato gli interessi individuali per tentare di definire il bene comune. È difficile. È la cosa più difficile e la diplomazia è la cosa più difficile in politica”, ha detto l’inviato americano per il clima John Kerry. “La decisione, sostenuta da tutte le nazioni del mondo, ha lo scopo di allontanarsi dai combustibili fossili nei sistemi energetici, in modo da raggiungere lo zero netto entro il 2050. Questo è chiaro”.
Non tutti sono così convinti. Alcuni osservatori hanno notato che termini come call on sono tra i più deboli usati nei testi ufficiali.
"Non vediamo alcun impegno e nemmeno un invito da parte dei partiti a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2025”, ha osservato sempre Anne Rasmussen che aggiunge:
“Facciamo riferimento alla scienza in tutto il testo e anche in questo paragrafo, ma poi ci asteniamo da un accordo per intraprendere le azioni pertinenti per agire in linea con ciò che la scienza dice che dobbiamo fare. Non è sufficiente per noi fare riferimento alla scienza e poi stringere accordi che ignorano ciò che la scienza ci dice”.
Alcune ONG, che pure hanno sostenuto il testo concordato sul GST, hanno riconosciuto che non è in linea con l’Accordo di Parigi, il cuore di tutto quello che stiamo facendo.
Firmato nel 2015 da 195 paesi fra cui l’Unione Europea, mira a limitare il riscaldamento globale al di sotto di 2°C e a proseguire gli sforzi per circoscriverlo a 1,5°C. Il tutto per “evitare le conseguenze catastrofiche del cambiamento climatico”.
Il problema dell’Accordo di Parigi, che a suo tempo è stato a tutti gli effetti miracoloso, è non avere naturalmente potuto dare i dettagli. Ecco perché per tutti questi anni la terminologia diplomatica è stata cruciale.
Ed ecco che una cosa talmente ovvia come il phaseout [ndr, l'eliminazione graduale] dei combustibili fossili è caduto vittima del consenso planetario.
Voluto senza mezzi termini dai paesi più ambiziosi (soprattutto quelli di HAC, AOSIS e Sud America), o accompagnato da alcune concessioni secondo la proposta più realistica dell’Unione Europea, infine osteggiato da Arabia Saudita, Iran, Iraq e Russia.
Le concessioni a firma UE avrebbero riguardato il termine “abbattimento” (abatement), definito dall’IPCC per la prima volta l’anno scorso con una minuscola nota a piè di pagina.
“In questo contesto, ‘combustibili unabated’ si riferisce ai combustibili fossili prodotti e utilizzati senza interventi che riducano sostanzialmente la quantità di gas serra emessi durante tutto il ciclo di vita; ad esempio, catturare il 90% o più di CO2 dalle centrali elettriche, o il 50-80% delle emissioni fuggitive di metano derivanti dalla fornitura di energia", si legge nella nota.
Qui si entra nel tecnico, ma è utile per dare la misura delle difficoltà.
Gli osservatori hanno notato che l'uso della parola “o” è problematico, perché la parte sulla cattura della CO2 appare come un'alternativa a quella del metano. Uno degli autori della definizione dell'IPCC, Chris Bataille, ha spiegato successivamente che questo "o" non avrebbe proprio dovuto esserci:
"È stato un errore di trascrizione, il che è un problema", ha detto. "Era molto, molto tardi la notte. La gente era rimasta sveglia per 24 ore."
A causa dell'ambiguità percepita in questa definizione, i paesi che volevano avere una definizione rigorosa hanno lottato per trovare lo stesso concetto espresso invece usando "e".
Significherebbe anche evitare perdite di metano dalle miniere di carbone, dai pozzi petroliferi e un tasso di cattura di almeno il 90% nella cattura del carbonio a valle o nelle emissioni di combustione. Un valore inferiore al 90% sarebbe difficile da conciliare con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
"L'attuale linguaggio sull'eliminazione graduale dei combustibili fossili è inaccettabile, soprattutto nella sua natura ambigua", ha detto Mark Preston, della ONG Bellona EU.
Per tagliare la testa al toro, l’UAE Consensus ha direttamente tolto il phaseout, e che non se ne parli più.
Ma il testo definitivo lascia ancora spazio a scappatoie per i fossili. Per esempio, pur non includendo alcun riferimento esplicito al gas naturale liquefatto (GNL), parla di "carburanti transitori".
Secondo Bill Hare, amministratore delegato di Climate Analytics, si tratta di "un codice per il gas ed è stato promosso dagli esportatori di GNL e gas" come la Russia.
Nel complesso, Hare ha definito il GST "una grande vittoria per i paesi produttori di petrolio e gas e per gli esportatori di combustibili fossili". Ha anche criticato l’omesso impegno per il raggiungimento del picco delle emissioni entro il 2025 e un testo “molto debole” sull’energia, “senza impegni sufficientemente forti per avere l’1,5° C alla portata di questo decennio”.
D’altra parte, il riferimento ai sistemi energetici nel contesto dello zero netto sembra concepito per escludere l’uso non energetico dei combustibili fossili, come l’acciaio, i prodotti chimici, i fertilizzanti e la plastica.
Anchun Jean Su, co-presidente del Climate Action Network (CAN) International, ha detto una cosa a mio parere giustissima, se non altro perché esprime con smaccata rivalsa il paradosso di questa COP:
"Il fatto che abbiamo avuto un numero record di lobbisti dei combustibili fossili ha effettivamente funzionato a favore della società civile globale, perché ha finalmente trascinato i combustibili fossili al centro della scena e costretto i politici ad affrontarli”.
La lettera con cui l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC) ha tentato di ostacolare i negoziati mostrando preoccupazione per la potenziale esclusione dei fossili è un esempio di quanto la lotta sia diventata feroce, ma in un certo senso più facile da gestire, alla luce del sole.
I progressi e le occasioni perse
Il nuovo GST fa davvero un passo avanti quindi. “Lancia un chiaro appello affinché il mondo si allontani dai combustibili fossili e acceleri l'azione in questo decennio, il che sposterebbe drammaticamente l'ago della bilancia nella lotta contro il cambiamento climatico e l'enorme pressione degli interessi del petrolio e del gas", spiega Melanie Robinson, direttrice del programma climatico globale presso il World Resources Institute.
Un altro aspetto importantissimo è quello dei soldi. Jean Su ha detto che, anche se "in questo momento si parla di finanza in questo testo, e abbiamo visto movimenti da parte dell'UE e degli Stati Uniti in merito", nel complesso: "Il testo è debole".
Fonti presenti nella sala negoziale hanno osservato che la finanza è stata al centro di molti stalli della COP28, dal GST all’adattamento.
Il ripetuto fallimento dei paesi nel raggiungere l’obiettivo annuale di finanziamenti internazionali per il clima di 100 miliardi di dollari, promesso nel 2009 e che doveva essere raggiunto entro il 2020, non ha aiutato la causa del phaseout.
Anche l’opposizione dei paesi in via di sviluppo alle “misure unilaterali” come il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM) dell’UE per tassare le importazioni inquinanti ha minacciato di ostacolare il consenso.
C’è poi stata l’approvazione dell'Obiettivo Globale sull’Adattamento (GGA), comunque criticato perché il linguaggio finanziario appare solo debolmente nell’ultima bozza di testo e senza disposizioni specifiche.
Secondo Madeleine Diouf Sarr, presidente del gruppo negoziale dei paesi meno sviluppati, “il risultato di oggi è pieno di linguaggio eloquente ma purtroppo privo di impegni attuabili”.
“Le nostre comunità meritano più che obiettivi ambiziosi; hanno bisogno di un sostegno reale, immediato e di grande impatto per adattarsi alla realtà del cambiamento climatico", ha detto Sarr.
"L'adozione del quadro GGA alla COP28 è un risultato storico, tuttavia, il nostro lavoro è lungi dall'essere finito. Dobbiamo ora concentrarci sui prossimi passi cruciali, che includono lo sviluppo di indicatori, per garantire che i progressi del quadro siano accuratamente monitorati e misurati."
Infine, un accordo sul famigerato Articolo 6 per il commercio dei crediti di credito di carbonio è stato ancora una volta rimandato, gettando nello sconforto il futuro dei mercati come soluzione climatica prevista dall’Accordo di Parigi.
L’Articolo 6 ha un impatto enorme, anche sui diritti umani delle comunità che vivono dove i progetti hanno luogo. Si tratta di riforestazione, rinnovabili, efficientamento, tutto ciò che può compensare le emissioni nocive prodotte altrove. Siccome è internazionale, stabilisce un mercato dalle regole complicatissime.
La presidenza degli Emirati Arabi Uniti negli ultimi giorni aveva pubblicato un testo da prendere o lasciare, con un linguaggio ambiguo e controverso sull'autorizzazione dei crediti e la loro revoca.
Su questo punto i negoziati dovranno ricominciare da capo tra 11 mesi alla COP29 che si terrà a Baku, in Azerbaijan.
Per l’Articolo 6, per una finanza climatica che vada davvero da A a B, per accorgersi che non ha senso investire in false soluzioni come il gas, perché l’Europa si dia degli obiettivi da qui al 2040, per tutte queste e tantissime altre cose da fare. I prossimi mesi saranno il tempo dell’implementazione.
La direttrice esecutiva della think-tank Strategic Perspectives, Linda Kalcher, che in queste settimane ho sentito e incrociato a ogni ora del giorno e della notte, è tornata a casa dicendo: “Oggi si festeggia, domani si torna al lavoro”.
Immagine in anteprima: Emanuela Barbiroglio