Nella banlieue di Francia la violenza della polizia non è l’eccezione, ma un retaggio postcoloniale

ValigiaBlu

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Era luglio 2016 quando Adama Traoré, ventiquattrenne francese, moriva soffocato in un commissariato a Persan, in Val-d’Oise, a nord di Parigi, dopo un inseguimento con la polizia a seguito di un controllo. Grazie alla battaglia giudiziaria portata avanti dalla sorella, Assa Traoré, che non ha mai accettato la perizia che esclude ogni responsabilità della polizia e incolpa una presunta malattia genetica della sua morte, il caso è oramai giurispudenza in Francia.

Nel frattempo, Assa Traoré è diventata il volto simbolo del movimento antirazzista francese. Durante la protesta contro la morte di George Floyd nel 2020, il comitato La verité pour Adama (Verità per Adama) da lei guidato portava in piazza a Parigi più di 20.000 persone. Questo 8 luglio 2023 ne ha radunate altre 2.000 in Place de la République nonostante il divieto di manifestare della prefettura per “rischio di turbamenti dell’ordine pubblico”. Anche durante la marcia di questo sabato la polizia non si è risparmiata. Un placcaggio ventrale è stato usato su Yssoufou Traoré, il fratello di Adama Traoré, morto asfissiato a seguito proprio dello stesso tipo di mossa usata per immobilizzare. Yssoufou è finito in ospedale con “naso rotto, trauma cranico con contusione oculare, contusioni toraciche, addominali e lombari”, riporta il quotidiano francese Le Monde.

Appena qualche giorno dopo il nuovo episodio di proteste notturne che ha scosso la banlieue francese - come accadeva non solo nel 2005, ma anche nel 2016 a seguito della morte di Adama - la vicenda di Yssoufou Traoré rilancia ancora una volta il tema delle violenze di polizia in Francia nei confronti dei suoi cittadini e cittadine razzializzati, spesso erroneamente definiti “migranti” o “stranieri” in Italia.

Nonostante la Francia vieti per legge dagli anni ‘70 le statistiche su base etnica, la storia della banlieue francese parla da sé. Non è un caso, infatti, che la periferia - caratterizzata dalle tipiche torri o “barre”, condomini molto alti o molto lunghi capaci di accogliere centinaia e centinaia di piccoli appartamenti - sia così identificabile. L’architettura dei grands ensembles riflette la storia delle politiche della casa degli anni del dopoguerra ed è all’origine di una vera e propria segregazione abitativa e razziale nell’epoca che ha seguito l’indipendenza dei paesi ex colonie francesi. “Non si tratta di una specificità francese, ma la Francia è stato il paese europeo che si è spinto più lontano in questo tipo di pianificazione urbana”, spiega a Valigia Blu l’urbanista Franck Gintrand, esperto in pianificazione e sviluppo del territorio. Gintrand ricorda che questi casermoni sono stati pensati per accogliere molto rapidamente un gran numero di persone per poter svuotare le baraccopoli o impedire che se ne creassero di nuove intorno alle città. 

È il 27 giugno quando il diciassettenne Nahel Merzouk viene freddato da un poliziotto per non essersi fermato immediatamente a un posto di blocco. Nahel abitava uno dei Comuni simbolo di quel tipo di pianificazione urbana: Nanterre. Intervistata da Public Sénat, il canale del Senato francese, la storica  Annie Fourcaut spiega che la cartina delle émeutes [ndr, rivolte] che hanno seguito la morte di Nahel non corrisponde a quella dei Comuni più poveri di Francia, come invece secondo lei accadeva nel 2005. La sua intervista è stata così utilizzata (anche in Italia) per mettere in discussione la versione di chi ha cercato di spiegare le proteste attraverso l’argomento della frustrazione e della marginalizzazione sociale. Si tratterebbe invece di una rabbia essenzialmente identitaria, di una questione di “non integrazione” di giovani cittadini francesi, in realtà spesso di quarta o addirittura quinta generazione. Yasmine Djamai, ventenne francese nipote di nonno algerino e abitante di Nanterre, risponde così a chi le chiede ancora quali sono le sue origini e come definisce il suo rapporto con la Francia, dove è nata e cresciuta: “La mia integrazione presuppone che io sia esclusa da qualcosa, quando sono parte di una società diversa e complessa che c'è chi ancora chi non riesce ad accettare, quindi nemmeno a descrivere”.

Nanterre non appare in cima alla lista dei Comuni più poveri di Francia, eppure ha un’altra caratteristica che salta agli occhi anche solo osservando una cartina: è una delle zone della cintura di Parigi che segnano la spaccatura tra il centro e la banlieue. Nanterre, infatti, inizia al di là di quello che nella capitale viene chiamato il Periph’, la circonvallazione Paris Peripherique, e confina con il quartiere La Défense, uno dei poli finanziari più importanti d’Europa. Rappresenta allora un comune-simbolo, il margine dove si cristallizzano differenze sempre più evidenti e l’emarginazione salta agli occhi. Nanterre è una cittadina che nasce sulle macerie di un'enorme bidonville, dove finivano per costruirsi un tetto i lavoratori di origine algerina, tunisina, marocchina - ma anche portoghese e italiana - regolarmente assunti nelle industrie francesi del dopoguerra, durante gli anni ‘50 e ‘60, poi raggiunti dalle famiglie. 

Alla manodopera proveniente dall'estero, e logicamente in buona parte dalle colonie, da dove si partiva con facilità, per decenni non è stata data una soluzione abitativa. In tanti per le strade di Nanterre raccontano ancora oggi di esser nati francesi sì, ma in una baracca a dieci minuti dalla Tour Eiffel. “Ho scoperto di essere francese a diciotto anni, quando sono stato chiamato a prestare servizio militare sotto il tricolore”, racconta per esempio Ahmed Djamai, padre di Yasmine, nato e cresciuto a Nanterre, la cui storia viene raccontata nel podcast Fermata Nanterre. Suo padre è arrivato a Parigi con un documento francese, cittadino francese, in quanto abitante dell’Algeria francese. Faceva però parte del Fronte di Liberazione Nazionale, il movimento che diresse la guerra d’indipendenza dell’Algeria contro la Francia. Durante la guerra di liberazione dell’Algeria, la lotta per l’indipendenza si organizza non solo in Algeria, ma anche nelle bidonvilles di Francia. 

Le baraccopoli diventano allora una questione di sicurezza interna e vengono rimpiazzate da case popolari costruite in tutta fretta a seguito della legge Vivian del 1971, quando l’allora primo ministro Jacques Chaban Delmas assicurava: “entro il 1972 non ci sarà più neanche una bidonville, né a Parigi né altrove in Francia”. Secondo Muriel Cohen, ricercatrice francese che ha lavorato a lungo a Nanterre e autrice del saggio Des familles invisibles. Les Algériens de France entre intégrations et discriminations (1945-1985), “queste cités sono state costruite in tutta fretta perché il governo si giocava la propria credibilità. I militanti associativi che frequentavano e aiutavano le famiglie delle bidonvilles scompaiono, perché all’epoca si credeva che il problema fosse stato risolto. Al contrario, la gente viveva relegata in zone isolate, in prefabbricati altamente infiammabili dove ci sono stati vari incendi e diversi incidenti perché si trattava di alloggi di una qualità pessima. La gente è stata fatta spostare seguendo la logica della segregazione. Non credo si potesse far peggio: prendere tutti gli abitanti di una bidonville e spostarli d’un colpo solo, senza criterio, in prefabbricati isolati”. 

Nasce così la banlieue, dove vengono riprodotte le logiche del dominio coloniale. Nascono così le grandi 'barres', i condomini-alveari che dovevano rappresentare una soluzione temporanea in attesa di una casa popolare, ma invece spesso sono rimasti in piedi per decenni. Quelle che all'epoca venivano chiamate 'cités de transit', letteralmente città di transito, ospitano spesso ancora oggi famiglie a cui lo Stato prometteva una soluzione abitativa duratura. Il fatto che questi condomini venissero controllati dagli stessi generali dell'esercito e funzionari di polizia ritornati dall'Algeria dopo l'indipendenza nel '62 ha per decenni alimentato le tensioni, dando origine a un sistema di repressione organizzata e sistematica di questi quartieri di Francia. È qui che, a seguito di una serie di morti già negli anni ‘80 e ‘90, come racconta il celebre film La Haine (L’Odio), nasce la tradizione delle émeutes della banlieue francese. 

Per comprendere le rivolte della periferia oggi e anche la storia delle sue identità complesse - che troppo spesso sembrano diventare l’unica ragione del dibattito - serve quindi fare un passo indietro e ritornare a cosa hanno rappresentato questi quartieri in passato, come si sono formati e perché. La loro storia, la storia dei cittadini francesi che vi abitano, e che a volte ancora conservano il documento che recita “FMA - Francese Musulmano d’Algeria”, per esempio, ha strettamente a che fare con il recente passato coloniale dell’Hexagone. Le sue conseguenze, infatti, non solo sono visibili ancora oggi, ma restano tuttora una questione di attualità politica molto delicata. Lo sa bene anche Emmanuel Macron, che da anni cerca di indorare la propria immagine istituendo un dialogo con i paesi dell’ex impero coloniale francese - dove il sentimento anti-Francia si diffonde a macchia d’olio - e in particolar modo con l’Algeria. 

Nel 2020, per esempio, Macron affida allo storico francese Benjamin Stora l’elaborazione di un rapporto sulla memoria della colonizzazione e della guerra d’Algeria con l’obiettivo di “formulare delle raccomandazioni per promuovere la riconciliazione tra il popolo francese e quello algerino”. Se esistono quindi tentativi - non sempre riusciti - di fare passi avanti nell’elaborazione di una memoria comune, questi sembrano limitarsi a una questione di politica estera. La “questione coloniale interna” alla Francia (e all’Europa), come la definiscono diversi studiosi del periodo post indipendenze, resta però irrisolta. La frustrazione sociale di quartieri nati in un determinato contesto storico, cresciuti in opposizione a ciò che li circonda, viene ancora considerata e gestita come una questione di mera sicurezza e trattata come un’emergenza, quando in realtà ha radici profonde. Quasi a dimostrazione della distanza tra la classe politica e la realtà complessa dei cosiddetti quartiers, Emmanuel Macron ha dichiarato a seguito delle prime proteste che i giovani “vivono per strada i videogiochi che li hanno intossicati”.

Secondo Nordine Nabili, ex direttore del Bondy Blog, un media che fa informazione dalla e sulla banlieue, la segregazione si può ormai misurare con i dati: “Nei quartieri PolitiqueVille [un programma pubblico a sostegno delle banlieue], un bambino su due vive in una famiglia povera. Quasi il 40% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà, tre volte più che negli altri territori. A parità di qualifica, il tasso di disoccupazione in banlieue è il doppio che altrove: 45% tra i 16 e i 25 anni, 16% tra i giovani laureato. Il 40% degli abitanti non ha la patente. I pediatri sono un terzo rispetto alla media nazionale, con una popolazione di bambini ben maggiore. Gli alunni delle scuole di Créteil [banlieue di Parigi] perdono in media un anno di scuola dell’obbligo per l’assenza di supplenti mai rimpazzati”, elenca in un thread su Twitter. 

E conclude: “Non sarà lo stato di emergenza a risolvere l’accumulo di emergenze vissute quotidianamente in questi quartieri o a rispondere al sentimento di tradimento diffuso che ha origine nelle promesse della classe politica, mai rispettate”. Basta sfogliare gli articoli del progetto editoriale Bondy Blog per rendersi conto quando la storia apparentemente eccezionale di Nahel sia in realtà una storia comune. Nella banlieue di Sarcelle, per esempio, il 4 giugno scorso moriva un altro ventottenne dopo un inseguimento con la polizia, riporta il media locale. L’incipit di questo reportage a Sarcelle che racconta una protesta in ricordo del giovane parla chiaro: “Questa marcia è per Nahel?”, chiede una passante. “No, è per Monzomba”. 

Il 2 luglio, un altro giovane ventisettenne è morto in condizioni non chiare a Marsiglia durante le proteste. A riconoscersi nella storia di Nahel, quindi, è una generazione della quale il quotidiano francese Le Monde ha provato a tracciare il profilo parlando con le famiglie, gli amici, le persone vicine ai manifestanti. Neanche una volta viene riportata la parola “migrante”, “straniero”, “originario di”, quanto più la “perdita di orientamento” di una parte di quella generazione “in rivolta e iperconnessa, dal profilo complesso” che ha vissuto l’adolescenza durante il periodo Covid-19 in aree isolate e chiuse su se stesse, dove lo stigma sociale deriva storicamente da una segregazione razziale e territoriale innegabile.  

Immagine in anteprima: frame video AP via YouTube

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