Cambiamento climatico: la falsa soluzione dei crediti di carbonio, le pressioni di lobby industriali e grandi aziende e la svolta di Google

ValigiaBlu

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Il round-up settimanale sulla crisi climatica e i dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera.

Per la prima volta dal 2007, Google ha affermato di non essere più un’azienda carbon neutral. Nell’ultimo rapporto ambientale, il gigante tecnologico ha segnato un’inversione di tendenza della sua strategia climatica, essenzialmente per due motivi: lo sviluppo del settore dell’intelligenza artificiale, altamente energivora, che è costato a Google un incremento del 48% delle emissioni (+13% solo tra il 2022 e il 2023); la decisione di abbandonare la pratica di acquistare crediti di carbonio per compensare le emissioni prodotte. 

Per mantenere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2030 Google ha deciso di cambiare strategia e di concentrarsi “sull'accelerazione di una serie di soluzioni e partnership per le emissioni di carbonio”. Si tratta di una svolta importante perché è la prima volta che una grande azienda rinuncia alla compensazione delle emissioni prodotte attraverso l’acquisizione di crediti di carbonio. 

La compensazione delle emissioni di carbonio è la differenza tra la quantità di gas serra emesse da un’azienda e i crediti di carbonio calcolati sulla base degli investimenti fatti in progetti o tecnologie verdi. Ogni tonnellata di carbonio assorbita dall’atmosfera tramite questi progetti costituisce un credito di carbonio (o una compensazione di carbonio) che viene sottratto alla quota di gas serra emessi. Per essere sicuri che questi crediti siano legittimi, devono essere approvati da gruppi indipendenti (come Verra o Gold Standard), il cui compito è assicurare che i progetti valutati abbiano effettivamente un impatto positivo sull’ambiente. La neutralità carbonica si raggiunge quando l’impronta di carbonio è pari a zero. 

Tuttavia, diversi scienziati del clima ritengono questa pratica una falsa soluzione per il contrasto del cambiamento climatico: anzi, per certi versi, rappresenta quasi un’autorizzazione a inquinare per chi può permettersi economicamente di acquistare quote di carbonio.

Secondo un’analisi durata cinque anni del sito britannico Carbon Brief – che ha elaborato una mappa dettagliata degli impatti dei progetti connessi alla compensazione carbonica – dai produttori di combustibili fossili alle aziende automobilistiche o tecnologiche, circa due terzi delle imprese più grandi del mondo ogni anno compensano le proprie attività climalteranti attraverso l’esborso di ingenti somme di denaro per finanziare investimenti e progetti dagli impatti dubbi e che – come hanno mostrato molte inchieste – a volte mascherano vere e proprie truffe.

Nel 70% dei casi analizzati in tutto il mondo, questi progetti hanno avuto impatti negativi sulle comunità locali dei territori destinatari degli investimenti. Spesso si tratta di accaparramenti di terre, diritti dei lavoratori calpestati, dislocazioni forzate, come nel caso dell’allontanamento delle popolazioni indigene dalle loro terre nella Repubblica Democratica del Congo, in Amazzonia, Kenya, Malesia e Indonesia. Lo scorso anno il Guardian aveva raccontato di un progetto di compensazione cinese in cui hanno investito anche giganti come British Petroleum e Spotify, all’interno del quale c’erano prove di lavoro forzato e violazione dei diritti umani della minoranza degli uiguri. Ma ci sono anche abusi sessuali, come nel caso del progetto di conservazione del Kasigau Corridor in Kenya. 

Talvolta, si tratta di veri e propri progetti truffa: nel 43% dei casi, rileva Carbon Brief, la compensazione dichiarata dalle imprese superava di gran lunga la reale capacità dei loro progetti di ridurre le emissioni. Un caso emblematico riportato dal sito britannico è quello di una società californiana che ha continuato a vendere quote relative a un programma di protezione delle foreste, mentre nel frattempo gli alberi in questione erano andati distrutti da un incendio. 

A giugno una vasta indagine della polizia federale brasiliana ha individuato “un’organizzazione criminale” che per oltre un decennio avrebbe venduto crediti di carbonio provenienti da aree invase illegalmente per un valore complessivo di 34 milioni di dollari (circa 180 milioni di reais). La stessa polizia ha definito l’indagine “Operazione Greenwashing” per quella che è ritenuta la più vasta truffa dei crediti di carbonio della storia.

Uno degli ultimi scandali, in ordine di tempo, riguarda progetti di compensazione in Costa d’Avorio che hanno coinvolto anche Microsoft. Secondo un’inchiesta del gruppo di giornalismo di inchiesta Follow the Money, l’azienda avrebbe pagato diversi milioni di euro per compensare le proprie attività alla banca olandese Rabobank, che gestisce i portafogli carbonici di diversi big partner. Il problema, sostengono i giornalisti, è che le compensazioni pagate profumatamente da Microsoft non avrebbero un impatto misurabile. Gli impatti sarebbero sopravvalutati fino al 600% perché, sostengono fonti locali in Costa d’Avorio, la banca avrebbe venduto crediti che non aveva diritto di rivendicare: gli alberi legati al progetto sarebbero stati piantati comunque, al di là del progetto.

La piantumazione di alberi in Africa occidentale copre più di un terzo dei crediti totali che la banca olandese vende alle imprese. Attraverso le immagini satellitari, gli acquirenti possono verificare il numero di alberi coltivati nelle aree indicate da Rabobank. A partire da questi alberi si calcola il carbonio che i loro tronchi sono in grado di immagazzinare, che corrisponde alla quota di emissioni “compensata” dalle imprese. Per certificare la validità delle immagini satellitari Rabobank propone test di campionamento sul terreno: proprio durante uno di questi controlli, la società di consulenza Preferred by Nature ha rilevato che le stime per un progetto di piantumazione in Costa d’Avorio erano gonfiate fino a sei volte rispetto a quelle fornite dalla società indipendente. 

Inesistenti sembrerebbero anche le certificazioni green acquistate in Cina da gran parte delle imprese petrolifere tedesche: ai primi di luglio la Germania è stata scioccata dallo scandalo di una truffa da 623 milioni di euro. Ancora una volta al centro delle indagini degli inquirenti ci sono i progetti sovvenzionati: mentre si mettevano a profitto i presunti crediti carbonici ricavati dalle attività di impianti in realtà antiquati (notevole in questo senso l’inclusione di un pollaio abbandonato nei pressi di Pechino tra gli investimenti di compensazione di Shell), le società che ne certificavano la validità producevano documenti falsi. 

Tra le truffe segnalate da Follow The Money, c’è anche quella di South Pole, la società di consulenza climatica più influente al mondo, che per anni ha venduto diritti di emissioni essenzialmente inventati a centinaia di aziende, tra cui Gucci, Volkswagen e il fornitore di energia Greenchoice. La pietra dello scandalo è un progetto di conservazione di foreste in Zimbabwe, il più grande all’attivo della società, cui sono legati i crediti di emissioni di grandi multinazionali. Crediti la cui vendita ha generato decine di milioni di euro per South Pole.  

Nonostante il progressivo sgretolamento della credibilità del sistema dei crediti di carbonio, le lobby industriali non si sono fermate e hanno anzi cominciato a esercitare pressioni ancora più forti. È eclatante il caso di quanto accaduto con Science Based Target Initiative (SBTi), un’organizzazione globale di imprese che sviluppa standard e strumenti per la decarbonizzazione delle attività aziendali. A partire dalla sua fondazione, nel 2015, la SBTi ha sempre rifiutato i crediti di carbonio come strumento per guadagnare obiettivi climatici. Ma quando, tra il 2019 e il 2021, il mercato è esploso, crescendo di sei volte, la posizione di SBTi si è ammorbidita fino ad arrivare ad ammettere l’acquisto di crediti per compensare fino al 10% delle emissioni totali purché investiti in progetti di immagazzinamento di CO2.

Nel 2023 il salto di qualità, quando Nigel Topping, ex membro del board di SBTi ed alto campione ONU per il cambiamento climatico, ha iniziato a fare numerose pressioni affinché il marchio allentasse le proprie regole. In un’email risalente al 2023, Topping scriveva di star “lavorando con un gruppo di operatori di mercato frustrati dalle campagne” - a suo parere mediatiche e ideologiche - “che stanno sopprimendo la domanda di crediti di carbonio”. E sempre l’anno scorso avrebbe elaborato una campagna di lobbying, mai venuta alla luce, per ricostruire la reputazione del mercato di quote, al quale partecipava ampiamente attraverso ICE Benchmark Administration, data agency che fornisce informazioni alle aziende sui crediti di carbonio e che lo scorso anno ha raggiunto profitti per 16 milioni di euro

Anche il Bezos Earth Fund avrebbe investito 36 i milioni di euro per lo stesso scopo: 25 milioni sono stati destinati, nel 2022, a un progetto che avrebbe dovuto costituire un maggiore consenso nei confronti dei crediti di carbonio; 11 milioni invece sono stati spesi in due iniziative volte a migliorare il monitoraggio dell’integrità degli scambi commerciali. Nel 2024, lo stesso fondo facente capo a Bezos, che è tra i principali finanziatori del SBTi, ha sponsorizzato un incontro di due giorni a Londra al quale hanno partecipato i principali operatori del mercato di crediti di carbonio.

La campagna di lobbying deve aver toccato i giusti punti, visto che ad aprile 2024, con grande sconcerto dei dipendenti del marchio e le dimissioni del consulente senior del Climate Action Network, Stephan Singer, è stata resa nota una comunicazione  di SBTi in cui si prospettava l’estensione della misura di compensazione alle emissioni di CO2 prodotte lungo la catena di produzione della aziende: si tratta delle emissioni Scope 3, più difficili da abbattere perché legate all’intera filiera, dall’estrazione di materie prime alla realizzazione di un prodotto. 

La decisione è stata ritenuta illegittima da gran parte dei consulenti tecnici dell’azienda, che non sono stati consultati nonostante il regolamento interno imponga un loro coinvolgimento nelle decisioni. Tra le voci più critiche, Doreen Stabinsky, membro del consiglio tecnico e docente di politica ambientale globale, che ha contestato la mancanza di trasparenza e le tempistiche della decisione, giunta prima mentre il comitato tecnico ne stava valutando ancora l’efficacia, del tutto da appurare. Come indica anche una bozza confidenziale diffusa da Reuters, gli studi fino a ora effettuati ritengono le misure di compensazione “largamente inefficaci”. 

La reazione dei dipendenti ha ammorbidito la posizione di SBTi e ha portato alle dimissioni dell’amministratore delegato Luiz Amaral, richieste in una lettera aperta firmata dal personale dei Target Validation Team, Target Operations Team, Dipartimento tecnico, comunicazioni, impatto e IT, e dai capi di diversi dipartimenti, insieme a quelle dell’intero Consiglio di Amministrazione.

I dati sui livelli di anidride carbonica nell'atmosfera

Immagine in anteprima: Petra Wessman, CC BY-SA 2.0, via Flickr.com

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