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La scienza ha dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’impatto antropico sull’aumento di temperatura a livello globale. Secondo il report del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) del 2021 l’aumento di temperatura dal 1850-1900 dovuto all’attività umana è stimato a circa 1,1 gradi centigradi e che, anche con interventi rapidi e di larga scala, ci vorranno almeno trent’anni prima che il clima si stabilizzi.
La questione quindi si sposta sul tipo di politiche e di cambiamenti comportamentali necessari per raggiungere i target climatici e contenere l’aumento di temperatura tra 1,5 e 2 °C entro la fine del secolo, soglia limite fissata dall’Accordo raggiunto alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima del 2015 e, oltre la quale, potrebbero essere superati dei punti di svolta potenzialmente irreversibili, come mostrato in un rapporto sempre dell’IPCC del 2018. Per fare ciò è necessario considerare tre aspetti.
Il primo è ancora quello scientifico, monitorando la dinamica dei fenomeni climatici e delle anomalie assieme al trend di emissioni.
Il secondo è l’aspetto economico. Quali sono le politiche da adottare? Ci sono due obiettivi da conciliare, la riduzione delle emissioni di gas serra e l’attenuare il più possibile le ripercussioni di queste politiche sul benessere delle persone e sul loro tenore di vita. Si tratta di un tema su cui gli economisti hanno dibattuto a lungo. Inizialmente la comunità economica aveva fornito una risposta preoccupante: il modello DICE formulato dall’economista Premio Nobel William Nordhaus stimava infatti che l’aumento di temperatura ottimale per evitare contraccolpi sulla crescita economica avrebbe dovuto essere di 3,5°C al 2100, ben al di sopra delle raccomandazioni degli scienziati.
Gli studi più recenti mostrano invece come sia possibile coniugare crescita economica e contrasto all’emergenza climatica. In uno studio condotto, tra gli altri, dagli economisti Daron Acemoglu e Philippe Aghion - tra i maggiori esperti di Teoria della Crescita - gli autori notano come per una transizione ecologica siano necessari investimenti temporanei che incentivano tecnologie e settori più puliti, assieme a una carbon tax. Inoltre, il tempo gioca un ruolo centrale: i ritardi nell’implementazione delle politiche di contrasto all’emergenza climatica possono essere estremamente costose.
C’è però un terzo aspetto da considerare. Proprio perché le politiche e la crisi climatica influiscono sul benessere degli individui e a cascata sul consenso dei politici è necessario prendere in considerazione anche quest’ultimo aspetto se si vuole costruire una strategia di contrasto all’emergenza climatica che non sia soltanto efficace, ma anche equa, ammesso che senza equità possa esserci una transizione. Diventa allora di particolare importanza comprendere la mutua interazione che le policy e la transizione climatica hanno su una popolazione profondamente eterogenea, che comprende con una minoranza estremamente ricca da una parte e il restante (la classe media e quella meno abbiente) dall’altra.
Di cosa parliamo in questo articolo:
L’inquinamento dei ricchi lo paga la maggioranza delle persone
Spesso la risposta politico-sociale è invocata da politici e agenda setter di destra per opporsi a qualunque tentativo di contrastare l’emergenza climatica. Nel corso degli anni, anche esponenti politici di primo piano hanno parlato delle cosiddette “follie ecologiste” di Bruxelles e di come avrebbero solo peggiorato la vita delle persone. A uno sguardo più attento, guidato dal rigore scientifico, si nota come siano proprio le persone comuni, non i super ricchi, a essere danneggiati dall’emergenza climatica.
In particolare a livello teorico, un lavoro del Dipartimento Economia e Affari Sociali delle Nazioni Unite ha individuato tre canali attraverso cui la crisi climatica andrebbe a impattare maggiormente le persone comuni e quelle meno abbienti.
Il primo riguarda la localizzazione delle abitazioni. Le persone con minori risorse finanziarie tendono a risiedere in zone più vulnerabili, come ad esempio in prossimità di fiumi soggetti a frequenti inondazioni o su terreni caratterizzati da un alto rischio idrogeologico. Questa maggiore esposizione non è casuale, ma è frutto di una serie di circostanze economiche e sociali che costringono le persone più povere a vivere in aree meno sicure. Ciò espone maggiormente ai danni causati da eventi climatici estremi, provocando perdite più consistenti rispetto a chi vive in zone meno pericolose.
Il secondo meccanismo riguarda la fragilità di queste abitazioni di fronte agli eventi climatici estremi. Le case delle persone con minori risorse economiche sono spesso costruite con materiali meno resistenti e con standard di sicurezza inferiori rispetto alle case delle persone ricche. Perciò in caso di uragani, terremoti o altre calamità naturali, le abitazioni dei più poveri tendono a subire danni molto più gravi. Questa maggiore vulnerabilità non solo mette a rischio la vita degli abitanti, ma comporta anche costi elevati per le riparazioni e le ricostruzioni, peggiorando ulteriormente la già precaria situazione economica.
Il terzo meccanismo si concentra sulla capacità di ripresa dalle conseguenze degli eventi climatici estremi. Le persone economicamente avvantaggiate dispongono di maggiori risorse finanziarie e di accesso a strumenti assicurativi e di credito che permettono loro di affrontare meglio i danni e le perdite subite. Possono quindi ricostruire e riprendersi più rapidamente. Al contrario, i meno abbienti, con risorse limitate, trovano enormi difficoltà nel recuperare dopo un disastro. La mancanza di fondi, di supporto sociale e di accesso al credito li costringe spesso a vivere in condizioni peggiori rispetto a prima dell'evento. Questo ciclo di vulnerabilità e difficoltà nella ripresa contribuisce a perpetuare e aggravare le disuguaglianze economiche, creando una spirale negativa dalla quale è difficile uscire.
Ma non ci sono solo impatti diretti. Gli eventi climatici estremi andrebbero a danneggiare il raccolto, facendo aumentare il prezzo di frutta e verdura e colpendo così i nuclei familiari a basso reddito. Così come le estati torride potrebbero influenzare l’utilizzo di impianti refrigeratori, erodendo il reddito anche delle famiglie medie.
Diversi studi hanno confermato queste ipotesi. Uno studio del 2015 ha analizzato i dati relativi alla città di Mumbai, in India, dimostrando come le inondazioni danneggiano maggiormente i cittadini più poveri e sottolineando come la situazione sia destinata a peggiorare senza un adeguato supporto governativo. Un altro studio condotto da un gruppo di ricercatori italiani nel 2022 ha raggiunto conclusioni simili. L'aumento delle precipitazioni in paesi con un'economia fortemente basata sull'agricoltura ha avuto un impatto negativo maggiore sulle fasce più povere della popolazione. Secondo questi ricercatori, un aumento del peso dell'industria nell'economia nazionale potrebbe ridurre l'impatto degli eventi climatici estremi.
Ma proprio il settore industriale e le trasformazioni a cui dovrà andare incontro mostrano un altro aspetto, questa volta più economico, della vulnerabilità delle fasce lavoratrici alla crisi climatica. Un esempio proviene dai settori in cui è difficile ridurre la quantità di emissioni inquinanti.
Un esempio su tutti è la siderurgia. Il settore ha visto le sue emissioni rimanere stabili nel corso degli ultimi anni, dopo un aumento nei decenni precedenti dovuto a una domanda crescente: si stima che tra l’8 e il 10% delle emissioni provenga da questo settore a livello globale. È verosimile che non tutte le aziende avranno i fondi per gli investimenti necessari per una produzione d’acciaio più pulita. Questo porterà alla chiusura delle imprese stesse che per via o delle regolamentazioni o degli elevati costi finiranno fuori mercato. Questo non è di per sé un problema, visto il processo di “distruzione creatrice” che traina l’economia. Il rischio ricade soprattutto sui lavoratori, che nel settore spesso sono in una fascia d’età avanzata e privi di un’istruzione terziaria. Può risultare estremamente complicata la loro transizione verso un altro lavoro.
Sempre restando sul rapporto tra politiche e disuguaglianze, ma andando a considerare anche l’effetto inverso, è necessario citare un lavoro del Fondo Monetario Internazionale (FMI) che considera l’impatto dal punto di vista del consenso dei governi impegnati nel contrasto della crisi climatica. I ricercatori stimano che si tratti di provvedimenti politicamente costosi: di solito fanno perdere consenso al governo che le mette in atto. Ma, sottolineano, il risultato appare differente in base al tipo di provvedimenti implementati.
Come già avevamo scritto in un articolo precedente, le politiche di contrasto all’emergenza climatica nel campo economico possono essere distinte in due categorie: le politiche di tipo market based, che agiscono sui prezzi e sugli incentivi; le politiche di tipo command and control, che intervengono invece sulle quantità attraverso la regolamentazione e sono accompagnate di solito da investimenti di politica industriale. Sono le prime a essere più costose dal punto di vista politico. Infatti, poiché le classi a medio e basso reddito dedicano una maggior porzione di entrate ai consumi, le imposte che incentivano determinati comportamenti (ad esempio l’aumento del prezzo dei carburanti) tendono ad avere un effetto regressivo e quindi a pesare di più. Ciò non toglie che, anche in questo caso, l’implementazione della policy è di fondamentale importanza: una carbon tax come quella della British Columbia - che è a gettito invariato andando a finanziare un taglio delle tasse - è un esempio di politica market based efficace.
Come l’élite impatta sulla crisi climatica
In un lavoro pubblicato su Nature da Lucas Chancel, economista della Paris School of Economics, è stato calcolato l’impatto, per macro area geografica, delle emissioni in base alla fascia di reddito. Come si nota dalla Figura 1 le differenze per fasce di reddito - Bottom 50%, Middle 40%, Top 10% - mostrano un trend crescente in ogni macroarea considerata. In Europa, il livello medio di tonnellate di CO2 equivalenti del Bottom 50% è di sei volte inferiore rispetto al Top 10%, mentre in Nord America il divario è ancora più superiore. Anche a livello globale, come si legge nel report del World Inequality Forum, si è assistito a un aumento della crescita delle emissioni nei paesi in via di sviluppo a partire dagli anni ‘90, ma anche a un vertiginoso aumento del top 1% globale, responsabile di un quarto di questa crescita. Nel mentre la classe media e bassa dei paesi sviluppati ha visto un calo delle emissioni.
È importante però notare in che modo l’élite e anche una parte della classe media dei paesi avanzati abbia un maggior impatto sulle emissioni. Il primo canale è il consumo. Le persone più agiate utilizzano ad esempio macchine più costose, ma anche più inquinanti come i SUV. Secondo le statistiche, senza un’adozione dei SUV come status symbol, le emissioni derivanti dai trasporti a motore sarebbero potute calare del 30% in più dal 2010 al 2022.
Lo stesso si può dire per il trasporto aereo, che è una componente consistente delle emissioni a livello globale, soprattutto quando si parla di lunghi viaggi. I dati britannici mostrano come le emissioni delle fasce più ricche legate al trasporto aereo sono più elevate rispetto alle emissioni causate dalla fascia più povera in ogni aspetto della propria esistenza. Un tema che ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, legato in particolare all’utilizzo che ne fanno celebrità come Taylor Swift o Elon Musk, è quello dei jet. Secondo un report della Federazione Europea per i Trasporti e l’Ambiente, l’utilizzo dei jet risulta tra le 5 e le 14 volte più inquinante rispetto a un aereo commerciale per passeggero e 50 volte più inquinante rispetto ai treni. Sempre secondo il rapporto alcuni di questi jet emettono due tonnellate di CO2 all’ora: per fare un confronto, si stima che in media l’impatto annuale per capita sia di 8,2 tonnellate nelle economie avanzate.
Ma non c’è solo il consumo: come spiega un articolo su The Conversation, il problema è che l’élite economica detiene industrie inquinanti o investe in esse, allo stesso tempo controllando media e facendo lobbying affinché le politiche regolatorie siano meno stringenti. In particolare, sono spesso gli stessi dirigenti delle aziende inquinanti a detenere azioni delle loro compagnie che sono incentivate al “business as usual” rispetto agli investimenti necessari per la transizione economica.
Come ha sottolineato una delle scienziate che ha contribuito agli Accordi di Parigi, Laurence Tubiana, è arrivato il tempo che l’élite inquinatrice paghi per finanziare la transizione ecologica che sta invece ostacolando. Le proposte su questo tema sono varie, a partire da imposte specifiche ad esempio sui voli in prima classe, in modo tale da non toccare la classe media e bassa. Ma la proposta più ambiziosa arriva da un’imposta progressiva applicata o a livello globale o attraverso la cooperazione tra gli stati.
Questo è infatti quello che propongono il già citato Chancel e l’economista francese Thomas Piketty in un loro articolo. Per Piketty e Chancel le persone che emettono una quantità di CO2 superiore a un certo valore di soglia dovrebbero contribuire a un fondo globale per l'adattamento climatico. Idealmente, questa tassa sul carbonio sarebbe applicata a livello globale, ma gli stessi autori riconoscono che una simile implementazione è inverosimile. L’alternativa è che ogni paese contribuisca al fondo globale in base a quanto verrebbe calcolato dalla tassa progressiva globale. I singoli paesi potrebbero poi decidere come raccogliere i fondi, ad esempio attraverso una loro tassa progressiva sul carbonio. Gli autori suggeriscono poi che i paesi potrebbero anche utilizzare un supplemento sull'imposta sul reddito per i maggiori emettitori, con aliquote marginali che variano a seconda del livello di emissioni.
L'obiettivo generale, quindi, è che i paesi più ricchi, che storicamente hanno contribuito maggiormente alle emissioni di CO2, forniscano la maggior parte dei fondi per l'adattamento climatico.
Ma questo deve passare anche da una revisione della tassazione generale per finanziare quelle politiche di tipo redistributivo che saranno necessarie per la transizione climatica. Un esempio è stato recentemente fornito attraverso una simulazione di come cambierebbe la produzione di energia in Italia. A giocare un ruolo cruciale nel nostro paese sarà l’installazione di pannelli fotovoltaici e quindi l’energia solare. Ma gli investimenti necessari, sottolineano le ricercatrici della fondazione Grins, potrebbero danneggiare le fasce meno abbienti della popolazione, attraverso i prezzi dell’energia. Questo non significa, come si fa credere a destra, che non si debba procedere con la transizione climatica, ma che questa vada accompagnata da misure di redistribuzione per tutelare le fasce colpite ed evitare che questo abbia contraccolpi sul consenso dei governi in carica.
La transizione non deve solo essere ecologica, ma anche giusta
I costi della transizione e le ricadute sulle fasce più deboli sono spesso addotti a motivo per procedere con cautela sul piano legislativo. Per quello che abbiamo visto, però, è la stessa emergenza climatica a pesare di più su queste fasce, dove però i margini di controllo sono più limitati. Per questo motivo, affinché la transizione ecologica abbia il sostegno della maggioranza delle persone, è necessario tenere conto degli effetti eterogenei che hanno policy ed emergenza climatica sulla popolazione, in particolare al variare del reddito e della ricchezza.
Solo tenendo in considerazione questi aspetti, è possibile implementare politiche che non abbiano impatti sul consenso elettorale dei governi, disincentivando quindi la lotta all’emergenza climatica. Questo passa in particolare dal comprendere in che modo l’élite inquinatrice è la maggior responsabile, attraverso i vari canali che abbiamo visto in precedenza, dell’emergenza climatica. Intervenendo in maniera decisa con regolamentazione e con la tassazione su questi aspetti si avrebbe da una parte un impatto sulla crescita delle emissioni, dall’altra la possibilità di finanziare i fondi di adattamento all’emergenza climatica e le politiche redistributive necessarie.
Il rischio, come già accennato, è che gli effetti del lobbying e una politica sempre più a vantaggio delle fasce abbienti della popolazione mettano a rischio questo programma, con effetti preoccupanti sull’evoluzione dell’emergenza climatica.
Immagine in anteprima via Peace Science Digest