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Cosa hanno in comune le azioni di Ultima Generazione con il vandalismo sulla statua di Montanelli? Una vulgata giornalistica molto diffusa vede queste azioni come proteste fini a sé stesse, mosse da intenti esibizionistici e su questioni non collegate alle azioni stesse. Anche posizioni pubbliche più vicine alla causa climatica e a quella femminista hanno espresso scetticismo al riguardo perché, pur condividendo il fine, ne deplorano i mezzi la cui modalità eclatante e radicale rischierebbe di alienare le simpatie del pubblico.
Eppure dietro al rifiuto di principio o allo scetticismo strategico si nasconde un non detto molto diffuso: se non vanno bene queste cause e queste strategie, per cosa si dovrebbe combattere oggi e come si dovrebbero portare avanti queste istanze? Ragioni anagrafiche (la popolazione di 0-14 anni è il 12,4%, mentre quella over 65 è il 24%, ISTAT 2023) e una buona dose di pigrizia intellettuale fanno sì che buona parte dell’opinione pubblica italiana, soprattutto quella più visibile nei media mainstream, sia incapace di comprendere la sostanza e il modo di molte proteste attuali e, quando va bene, le declassi confrontandole con i movimenti sociali del passato. Il mito sessantottino o gli eroi di cause sacrosante ormai digerite da tutti (Gandhi, Rosa Parks, Martin Luther King, Mandela) estendono la loro ombra sul presente, tanto che nella forma e nella sostanza sembra che ogni protesta, più o meno radicale, debba essere equivalente o modellarsi su quelle passate.
Ma senza negare l’importanza storica di quelle battaglie e di quegli eroi civili è ingiusto e miope valutare il presente con le lenti del passato. C’è un paternalismo diffuso che vede nelle cause attuali un qualcosa dei giovani, e quindi valuta le proteste giovanili come istanze radicali che passeranno con l’età, anche se i problemi riguardano tutti e non si tratta solo di proteste giovanili.
In sostanza, come si può e si devono portare avanti battaglie politiche nelle democrazie contemporanee? Questa domanda può sembrare oziosa. Le democrazie mature non mancano certo di luoghi e canali di rappresentanza per gestire ogni tipo di richieste. Ma, da un lato, è noto che l’evoluzione personalistica, populista e disintermediata della politica contemporanea dà solo l’impressione di poter incanalare diverse istanze, mentre le usa soltanto per garantire l’affermazione di un capopopolo. Dall’altro, l’attivismo si esprime sui social liberamente, come tutto il resto. Ma, quando la dimensione social si riversa in strada, il pubblico non è pronto, oppure è troppo pronto, per trarre conclusioni improprie o per accusare a prescindere.
In parte, si può dire che questi problemi fanno parte della più ampia galassia della crisi della rappresentanza. Le forme di attivazione collettiva avvengono sempre di più su temi specifici (ambiente, genere, immigrazione) piuttosto che tramite canali di mediazione partitica che non riescono a intercettare se non in minima parte queste esigenze. Questo non sembra, di per sé, così nuovo perché anche il termine di paragone tradizionale (i movimenti per i diritti civili e il ‘68) erano in larga parte extra-partitici. Ma i partiti (così come i sindacati) c’erano.
Inoltre, bisogna prendere sul serio quanto viene spesso premesso da chi rivendica di fare disobbedienza civile: l’atto di disobbedienza viene agito come ultima risorsa (ne parlava qui Marisandra Lizzi su Valigia Blu), dopo che strade più tradizionali e legali sono state percorse senza successo. Prendiamo ad esempio il caso di Ultima Generazione: dopo anni in cui il movimento di protesta contro l’inerzia verso il cambiamento climatico sembrava aver raggiunto milioni di persone, culminando con la partecipazione di massa ai Fridays for Future, il lockdown per la pandemia ha fatto ritornare tutto indietro. Eppure la questione climatica è un’urgenza fondamentale. E di fronte all’inerzia della politica e alla cecità verso il futuro – sostengono gli attivisti – l’unico modo rimasto per farsi sentire è stato, nell’ultimo anno e mezzo, la disobbedienza civile con azioni eclatanti e simboliche.
Ma cosa c’entra il lanciare vernice su opere d’arte e sul Senato, oppure carbone vegetale nella Fontana di Trevi con gli atti paradigmatici di disobbedienza civile (l’autoproduzione di sale promossa da Gandhi, il rifiuto di Rosa Parks di lasciare il posto a un bianco, i sit-in nelle tavole calde per bianchi)? Anche molti che sostengono la causa climatica criticano Ultima Generazione perché le azioni eclatanti di disobbedienza dovrebbero essere in qualche modo legate a leggi e contesti che sono responsabili di emissioni ingiustificate.
Non è qui il caso di difendere le azioni di Ultima generazione (o di Extinction Rebellion), su cui si potrebbero avanzare dubbi, se non altro di strategia. Del resto, le azioni eclatanti e iconiche contro le opere d’arte ormai hanno raggiunto un punto di saturazione tale da renderle inefficaci se non controproducenti. E anche azioni non-violente possono involontariamente causare danni e conseguenze fatali: è un tragico e classico caso da manuale quello della persona la cui morte è stata determinata dal ritardo dell’ambulanza ostruita dalle proteste per la causa climatica. Ma al di là delle conseguenze inattese e delle drammatiche casualità, è fondamentale capire il senso generale di questo tipo di azioni. Se c’è un modo per difendere la disobbedienza civile è quello di intenderla come una forma estrema di comunicazione democratica quando gli altri canali legali si sono dimostrati inutili.
La disobbedienza civile è, infatti, un’azione comunicativa che cerca di attirare l’attenzione della politica e della maggioranza su un problema altrimenti non visto e sottovalutato. Già John Rawls in Una teoria della giustizia, nel cercare di dare un senso alla stagione dei movimenti per i diritti civili, insisteva su questo punto: in uno Stato democratico e liberale può essere giustificabile violare la legge se è l’unico modo per scuotere la coscienza della maggioranza. Se oggi non siamo più di fronte alla segregazione razziale legalizzata (anche se di certo la discriminazione sociale continua) ci sono tante altre questioni che i canali ordinari della deliberazione democratica (petizioni, proteste, rappresentanza politica) non riescono o non vogliono affrontare.
In questo senso, le azioni di Ultima Generazione ma anche l’imbrattamento di statue di personaggi politici che rappresentano ingiustizia (le statue degli schiavisti detronizzate dal movimento Black Lives Matter o, più vicino a noi, la statua di Montanelli) possono essere considerate forme di disobbedienza civile perché cercano di mandare un segnale. Sono quindi forme di comunicazione, anche se radicali e scioccanti, e a modo loro rispettano un canone di civiltà, se non altro perché limitano di molto i danni e la violenza implicita in ogni atto illegale.
I sostenitori tradizionali della disobbedienza civile (al razzismo sistemico, al dominio coloniale o alla guerra) hanno sempre sostenuto che è ammissibile solo se fatta sotto l’egida della non-violenza. Giusto per ricordare i sommi capi della lunga e nobile storia, possiamo dire che Gandhi ne è stato l’inventore, Martin Luther King il più grande esecutore nel mondo occidentale e Aldo Capitini il rappresentante italiano più significativo. Ma attualmente questo tipo di strategie possono essere riprese solo in parte. Infatti, chi rivendica la tradizione della disobbedienza civile intende lottare contro pratiche sociali diffuse e simboli culturali, più che contro leggi direttamente ingiuste e discriminatorie. Quindi in azioni come quelle di Ultima Generazione (o come quelle contro la statua di Montanelli) gli attivisti e le attiviste violano delle leggi che non sono di per sé causa di ingiustizia (ad esempio, nel tutelare arte e edifici) ma che proteggono simboli o luoghi legati alle cause dell’ingiustizia.
Quindi, la polemica, anche in buona fede, contro la presunta inutilità della disobbedienza civile simbolica non coglie il punto e non tiene conto del fatto che l’alternativa potrebbe essere anche più radicale e indigesta. Infatti, gli attivisti potrebbero spostarsi da azioni eclatanti, ma puramente simboliche e non realmente dannose, verso azioni dannose contro le cause delle emissioni. Come rivendicato (e praticato!) da Andreas Malm in Come far saltare un oleodotto (Ponte alle Grazie 2022), l’attivismo climatico dovrebbe iniziare a fare sabotaggi per disincentivare pratiche insostenibili. Partendo dallo sgonfiamento degli pneumatici dei SUV e sperando di non dover arrivare fino agli impianti di produzione e distribuzione del petrolio, secondo Malm, l’attivismo deve abbandonare la politica simbolica e civile per costringere (ancora prima di convincere) la maggioranza ad abbandonare il petrolio.
Quindi, forse, è meglio tenerci le proteste simboliche e tutto sommato civili, piuttosto che scivolare verso il sabotaggio diffuso quando gli effetti del cambiamento climatico si faranno sempre più sentire. Ma, oltre alla questione climatica, la disobbedienza civile e incivile viene utilizzata in tanti altri campi: la liberazione degli animali dagli allevamenti o dai laboratori di ricerca, l’aiuto dei migranti a valicare i confini, le occupazioni di immobili inutilizzati per esigenze abitative, il superamento del copyright che blocca l’accesso alla conoscenza scientifica, e tanto altro. Come valutarne la validità di tutte queste forme di disobbedienza? Non possiamo ammettere che ogni rivendicazione, anche in buona fede, possa legittimare la disobbedienza poiché, se lo facessimo, ammetteremmo che le leggi di per sé non sono vincolanti.
Non c’è una risposta univoca e, anche assumendo che dobbiamo rispettare le leggi di Stati legittimi, cioè liberali e democratici, si può concedere che talvolta la disobbedienza può essere giustificata se:
- Le ragioni che la sottendono sono di particolare importanza, tanto da superare l’inconveniente della violazione della legge.
- Viene attuata in un modo accettabile, preferendo azioni non-violente e comunicative.
- C’è la possibilità di ottenere un risultato, poiché la disobbedienza fine a sé stessa non può giustificarsi di fronte al dovere generale di rispetto della legge.
La valutazione della sostanza, della forma e dell’efficacia della disobbedienza non può che essere fatta caso per caso. Ma sarebbe già un risultato significativo poterne discutere pubblicamente. Del resto, senza discussione pubblica nessun cambiamento sociale reale può essere ottenuto.
*Una trattazione più ampia dei temi toccati in questo articolo si trova nel libro “Disobbedire. Se, come, quando” (Laterza, 2024) di cui Federico Zuolo è autore. Qui la scheda del libro.
Immagine in anteprima via Laterza